La rassegna di dottrina e giurisprudenza del Corso nazionale di formazione specialistica dell'avvocato penalista organizzato dall'Unione delle Camere penali italiane in collaborazione con il Centro per la formazione e l'aggiornamento professionale degli avvocati del Consiglio Nazionale Forense.

3 settembre 2007

Relazione al nuovo codice di procedura penale (Commissione Riccio) ; parte terza . .

27. Il regime delle impugnazioni

Il codice del 1988 ha sostanzialmente riproposto, pur nel mutato modello processuale, l’impianto del codice del 1930 con le modifiche rese necessarie dalle patologie evidenziatesi nella prassi dalle esigenze di semplificazione, in relazione all’oggetto del relativo giudizio, dalle esigenze di semplificazione, dagli interventi della Corte costituzionale.
Nel corso degli anni é cresciuto il dibattito dottrinale, soprattutto in relazione al giudizio di secondo grado, particolarmente in riferimento alla compatibilità del processo di appello con il modello accusatorio. A tale proposito, si é prospettata la possibilità d’una profonda revisione del giudizio d’appello sia attraverso il ricorso ad un doppio processo con rito orizzontale e, sia secondo lo schema della "doppia conforme" articolato in un giudizio rescindente ed in un giudizio rescissorio.
Com’è noto, al di là di altre modifiche che hanno interessato soprattutto la Cassazione (sezione filtro; ricorso straordinario per errore di fatto), il sistema dei gravami è stato significativamente riformato con la c.d. legge Pecorella (n. 46 del 2006) che ha modificato sia i casi di ricorso per cassazione, sia le situazioni di legittimazione ad appellare.
E’ altrettanto noto come - in relazione a quest’ultimo profilo - la riforma sia stata "demolita" dall’intervento della Corte costituzionale (C. cost., n. 26 del 2007) che "di fatto" ha riproposto il vecchio modello strutturale dei gravami. Anche per questa ragione, rafforzata dalle necessarie modifiche ordinamentali che una diversa situazione avrebbe imposto, si è ritenuto di conservare larga parte delle scelte del codice del 1988 con gli aggiustamenti che sembravano necessari.
Sul tema la Commissione si è interrogata, soprattutto nel periodo di vigenza della c.d. legge Pecorella.
In premessa, si è posto il tema delle ragioni della riforma, ricavando dalla Relazione che accompagna la Proposta di legge il bisogno di raccordo normativo con l’articolo 2 del Protocollo numero 7 della Convezione Europea, utile a realizzare la ragionevole durata del processo; nonché delle incisive sentenze della Corte Costituzionale (la n. 98 del 1994; la n. 280 del 1995), una ricognizione più attenta circa le radici ideali e funzionali del doppio grado di giurisdizione di merito e gli effetti, sul sistema complessivo delle impugnazioni, della abolizione del potere d’appello del pubblico ministero, in particolare.
Ebbene, senza addentrarsi sul contenuto complessivo del citato articolo 2 del Protocollo numero 7 ed avendo già esaminato il problema del rapporto tra norma ordinaria e norma "convenzionale" (=termine qui usato nella più ampia accezione) (cfr. § 6), la Commissione non ha potuto ignorare – quanto all’appello – la posizione sostenuta anche di recente da insigni giuristi.
In questo ambito, l’osservazione secondo cui, nel giusto equilibrio tra libertà e sicurezza, «il rilievo costituzionale dell’obbligo dell’azione penale del pubblico ministero attiene al momento iniziale dell’azione penale, senza il minimo, neanche implicito, riferimento ai momenti successivi, e tanto meno a giudizi di impugnazione» (C. cost. sentenza n. 280 del 1995) sembra privare di copertura costituzionale il potere del pubblico ministero di proporre appello contro le sentenze di assoluzione. Peraltro, la contrapposizione storica con le esigenze di sicurezza dello Stato fascista e lo sconcerto della coscienza sociale, che mina la prevedibilità del giudizio e la credibilità della condanna quando un giudice ritiene colpevole un uomo che un altro giudice ha prima ritenuto innocente, sono i presupposti in virtù dei quali si è convinti «che lo Stato democratico-liberale, a differenza dello Stato totalitario, impone all’autorità di spogliarsi del magistero punitivo quando l’innocenza dell’imputato sia proclamata all’esito del giudizio di primo grado. Peraltro, il tema è stato posto, in questa prospettiva, non quanto alla plausibilità ed alla fondatezza del doppio grado "in sé", e cioè sulla sua dimensione "impersonale" di rimedio offerto alle parti, quanto sulla plausibilità del doppio grado rispetto a ciascuna parte, perché di questo in sostanza si discute: del diritto di impugnare, che è essenzialmente il diritto dell’imputato, da un lato, e il diritto del pubblico ministero, dall’altro. E pure se si riconosce la identità di situazione giuridica (e cioè lo stesso diritto potestativo), non per questo si riconosce a priori che essa abbia, per ciascuna parte a cui spetta, lo stesso fondamento.
Né in questo contesto, si è potuto accantonare la forza dimostrativa dell’art. 111 comma 6 Cost. (ex comma 2: il riferimento, se storicizzato, è significativo delle ragioni della precedente dottrina), sulla quale fondava - e fonda, anche se comunque in termini problematici - la tesi secondo cui l’obbligo di motivazione ha senso, solo ove lo si proietti sulle esigenze, sociali e/o individuali di controllo del provvedimento nel merito, a cui sembra fare eco, oggi, il nuovo comma 2 dell’art. 111 Cost.
La "parità delle parti" nel processo penale è tema complesso. Per esemplificazione utile a svincolare l’argomento dai connotati ideologici, funzionali e strutturali che legittimano quella formula, è opportuno – anche sulla scorta della recente pronuncia della Corte – qui riconoscerle un significato "minimo" – certamente valido anche per il processo penale – indispensabile ai fini del prosieguo del discorso. In questo senso si intende per "parità" delle parti la identità delle occasioni per la ricostruzione e per la rappresentazione del fatto al giudice. Quindi, è necessario presupposto di un sistema normativo. Ed anche se il legislatore può scegliere la strada per la delineazione di un sistema differenziato di azioni e controlli; difficilmente può andare oltre questi confini.
E’ dunque la recente pronunzia costituzionale, non disconoscendo i suoi precedenti in virtù dei quali «il potere di appello del pubblico ministero non può riportarsi all’obbligo di esercitare l’azione penale (art. 112 Cost.), perché di questo non costituisce estrinsecazione necessaria» ( C.cost., sentenza n.98 del 1994, n. 363 del 1991, n.426 del 1998, n. 421 del 2001, n. 347 del 2002 e n. 165 del 2003), punta sulla nuova idea della “parità elastica” per la ricognizione delle situazioni soggettive protette nel e col processo penale.
Essa, insomma, riconosce la pluralità di gradi come situazione progressiva per l’esercizio dei diritti delle parti, in ragione del principio di “soccombenza”, riconosciuto, ora, anche per il processo penale e che, quindi, guida l’opera di riforma.
Peraltro, è abbastanza agevole riconoscere che il tema delle impugnazioni intercetta molte questioni: fra queste le eccezioni in punto di competenza e quelle in materia di nullità, di inutilizzabiltà, di inammissibilità, di decadenza; quelle sulla prescrizione e sulle cause estintive nonché, se introdotta, quella sulla decadenza dall’azione. Solo per citare le più rilevanti in ordine alle quali le varie soluzioni prospettabili possono avere conseguenze significative.
Inoltre, oltre alle sentenze (di non luogo o dibattimentali) il tema dei gravami interseca i problemi delle misure cautelali e delle numerose pronunzie incidentali lungo tutto l’arco del procedimento.
Limitando il discorso all’impugnazione nei confronti delle sentenze dibattimentali - essendo quello attinente alle decisioni di non luogo condizionato dalle risultanze del dibattito sugli esiti dell’udienza di conclusione delle indagini, nonché quello relativo ai riti speciali strettamente legato alla relativa disciplina alla quale si rimanda - il punto di partenza di una proposta di riforma pare dover essere la riscr ittura dell’attuale art. 546 c.p.p. In particolare con la direttiva n. 25.1, si é previsto di articolare maggiormente la sentenza, così da prefigurare una sorta di schema legale vincolato, nel quale possano essere ricompresi tutti gli elementi decisori e gli snodi motivazionali. Questo elemento dovrebbe costituire la premessa sia per un più penetrante controllo di ammissibilità ex artt. 581 e 591 c.p.p., sia per una più chiara determinazione del devolutum.
Raccogliendo le "aperture" della Corte costituzionale sul punto, contenute nella già citata sent. n. 26 del 2007, si é ritenuto di circoscrivere - secondo tradizione - la legittimazione del pubblico ministero e dell’imputato ad appellare le sentenze di condanna e di proscioglimento in relazione alla tipologia delle ipotesi incriminatrici.
E’ rimasto a lungo aperto il discorso in ordine alla conservazione delle previsioni relative al c.d. concordato sui motivi e sulla pena (artt. 599 e 602 c.p.p.).
Invero, esclusa ogni connotazione premiale, si tratta di una sentenza di condanna, anzi di una richiesta di condanna a richiesta dell’imputato. Pertanto, la soluzione di non riproporre l’istituto é risultata condizionata dall’introduzione della richiesta (premiale) di una condanna nel corso dell’udienza di conclusione delle indagini.
A fini deflativi, si é ritenuto di prevedere una disciplina semplificata di dichiarazione di inammissibilità nei casi in cui l’invalidità dell’atto possa emergere senza valutazioni che superano l’oggettività delle situazioni emergenti.
Recuperando i riferimenti alla soccombenza di cui alla sent. n. 26 del 2007 e comunque sia, con riferimento alla parità delle parti, al canone della durata ragionevole ed al principio di economia processuale, si é pensato che, fatti salvi "gravi motivi", la parte che ha proposto un gravame inammissibile ovvero rigettato, sarà condannata a rifondere le spese processuali.
Quanto, infine, alla Cassazione, non può ignorarsi il tema centrale emerso soprattutto negli ultimi tempi, quello cioè della “stabilità” dei pronunciati in punto di diritto quale frutto dell’opera ermeneutica della Corte.
Sul punto, la dissonanza tra articolo 111 comma 2 Cost. e l’articolo 65 ord. giud. va razionalizzata. Invero, se l’indipendenza interpretativa del giudice è valore irrinunciabile in democrazia, allo stesso livello è valore essenziale della giurisdizione, non un’astratta pretesa nomofilattica, ma la “uniformità” quale proiezione giurisprudenziale della certezza del diritto e, quindi, della uguaglianza di trattamento dell’individuo di fronte alla legge.
Sicchè, il proliferare di interpretazioni discordi, se non contrastanti, ferisce, soprattutto in materia di attribuzioni di poteri processuali, il corretto esercizio della giurisdizione di merito, costituendo indiretta causa del moltiplicarsi dei ricorsi per cassazione.
L’ampio dibattito svolto in Commissione, alla fine, ha suggerito l’adozione di un meccanismo - noto all’ordinamento – capace di eliminare tali distonie attraverso la previsione di un più moderno e razionale sistema di rapporti tra sezioni semplici e sezioni unite (cfr. direttiva n. 104.3).
Ancora. E’ sembrato indispensabile intervenire sul terreno della revisione anche al fine di conferire distinzione concettuale e semantica all’ipotesi di “revisione” a seguito di condanna da parte della Corte sui diritti dell’uomo “per ingiusto processo”.
Così, nel capitolo dei mezzi di impugnazione straordinaria (punto n. 106) si affida al legislatore delegato la predeterminazione dei casi di ricorso straordinario (punto 106.1) e così per la revisione, per la quale, però, si precisano limiti (punti 106.2 e 106.3), competenze e garanzie (punti 106.4 – 106.7).
Viceversa, lo si investe del potere di individuare uno strumento “diverso dalla revisione” per l’evenienza innanzi registrata, purchè il vizio abbia avuto effettiva incidenza sull’esito del giudizio (punto 106.8); e ciò proprio perché l’ipotesi è estranea all’idea di revisione che attiene – appunto – alla prova.

28. Il giudice della pena

Nel corso dei lavori della Commissione è stata ampiamente discussa la proposta di riservare alla fase cognitiva la sola decisione circa la responsabilità dell’imputato, trasferendo alla fase esecutiva tutte le decisioni concernenti la quantificazione e l’irrogazione della pena. La proposta, per le ragioni che saranno immediatamente illustrate, non ha trovato accoglimento: nell’assegnare al “giudice della pena” il compito di “conoscere dell’esecuzione delle pene”, la direttiva 107.4 conferma, dunque, la scelta tradizionale di affidare al giudice della cognizione la determinazione iniziale del trattamento sanzionatorio.
L’idea di strutturare il processo penale secondo una logica rigidamente “bifasica” nasceva dalla constatazione delle condizioni di innegabile sofferenza nelle quali versano le attuali dinamiche di commisurazione della pena in sede cognitiva. Benché l’art. 187 c.p.p. alluda espressamente alla prova dei «fatti che si riferiscono […] alla determinazione della pena», manca, di regola, nel corso del dibattimento, un’attività istruttoria specificamente rivolta all’accertamento delle circostanze rilevanti ai fini dell’appli¬cazione dell’art. 133 c.p.; e il divieto di sottoporre a perizia il carattere e la personalità del reo (art. 220 comma 2 c.p.p.) – di gran lunga la più utile e la più significativa delle prove che potrebbero essere acquisite a tal fine – rende spesso illusoria la pretesa che il giudice della cognizione applichi la sanzione penale calibrandone qualità e quantità, come vorrebbe la Corte costituzionale, sulle esigenze di rieducazione del colpevole. Le conseguenze sono note: diffuso clemenzialismo, sistematica prossimità ai minimi edittali, pseudo-motivazioni stereotipe in punto pena. Per giunta, la metamorfosi funzionale delle misure alternative alla detenzione in chiave prevalentemente sostitutiva della detenzione stessa, unita al cospicuo incremento delle misure applicabili ab initio, fa sì che la pena detentiva irrogata dal giudice della cognizione assuma molto spesso connotazioni meramente virtuali e simboliche, e che la “vera” commisurazione della pena, agli occhi della collettività, risulti essere quella effettuata dal tribunale di sorveglianza in sede di applicazione ab initio delle misure alternative alla detenzione. Il danno, in termini di effettività del sistema sanzionatorio e di fiducia dei consociati nella giustizia penale, è molto evidente. Per porre rimedio a tale situazione occorrerebbe dunque: 1) rendere effettivo il giudizio sulla personalità dell’imputato, eliminando il divieto di perizia criminologica; 2) accorpare in un solo momento commisurativo le decisioni concernenti la determinazione iniziale del trattamento sanzionatorio, omologando sul piano sistematico pene e misure alternative ab initio.
In accordo con queste premesse, una prima soluzione esaminata nel corso dei lavori della Commissione è stata quella di mantenere ferma la struttura monofasica del giudizio di cognizione abrogando la norma che vieta di effettuare accertamenti peritali sulla personalità dell’imputato e ampliando il ventaglio delle misure sanzionatorie irrogabili. Questa soluzione si è tuttavia arenata contro i due robusti argomenti che vengono tradizionalmente messi in campo a sostegno del divieto di perizia psicologica: l’inopportunità di ricorrere a un’attività istruttoria dai costi umani e processuali molto elevati quando ancora non è stata accertata la responsabilità dell’imputato; il rischio di condizionamenti contra reum dell’organo giudicante, chiamato a pronunciarsi sul fatto e non sulla persona. Di qui – ferma l’esigenza di equiparare pene e misure alternative ab initio, della quale (oltre che di una meditata riscrittura dei criteri di commisurazione della pena) dovrà farsi carico la Commissione di riforma del codice penale – la proposta di scindere il giudizio di colpevolezza dell’imputato dal giudizio di commisurazione della pena, secondo lo schema procedimentale “a due fasi” in precedenza richiamato.
Il modello bifasico conosce tuttavia due varianti tra loro assai differenti. La prima, di derivazione anglosassone – già sperimentata nel progetto preliminare di codice di procedura penale del 1978, e riproposta, da ultimo, nell’art. 12 disp. coord. del progetto di riforma del codice penale elaborato nel 2001 dalla Commissione Grosso –, prevede che il giudice della cognizione, al momento della pronuncia della sentenza di condanna di primo grado, differisca a una successiva udienza la decisione sul trattamento sanzionatorio quando appaia necessario acquisire a tal fine ulteriori prove nonché approfondire l’indagine sulla personalità dell’imputato. Si tratta di una soluzione che, a giudizio della Commissione, presenta due decisive controindicazioni. In primo luogo, nel nostro sistema processuale – a differenza di quanto accade nei paesi anglosassoni – il giudice d’appello rivaluta an e quantum della responsabilità: esiste, dunque, il rischio che gli esiti dell’indagine personologica condizionino il suo giudizio sulla colpevolezza dell’imputato. In secondo luogo, l’attuale proliferazione dei momenti commisurativi rappresenta, a ben vedere, un paradosso solo apparente. Rivalutare la persona del condannato in chiave rieducativa nel momento in cui l’esecuzione deve prendere l’avvio è un’esigenza che nasce dai tempi lunghi del processo: tra la commisurazione della pena effettuata in sede cognitiva e il momento in cui la pena deve essere concretamente scontata il condannato potrebbe avere già percorso significativi tragitti sulla strada della risocializzazione. La soluzione proposta non risolverebbe dunque il problema: la necessità di un intervento ab initio del giudice dell’esecuzione penitenziaria tornerebbe inevitabilmente a farsi sentire.
Ecco allora la seconda – più radicale – variante di processo bifasico della quale si è discusso nel corso dei lavori della Commissione: trasformare il tribunale di sorveglianza in un «tribunale della pena» competente a emanare, dopo il passaggio in giudicato della sentenza concernente la responsabilità dell’imputato, tutte le decisioni relative al trattamento sanzionatorio. Si tratta di una soluzione che avrebbe presentato, rispetto alla precedente, notevoli vantaggi: 1) escludere, nei confronti dell’organo giudicante chiamato a pronunciarsi sulla responsabilità dell’imputato, ogni condizionamento psicologico derivante dagli accertamenti compiuti sulla personalità del medesimo; 2) collocare la decisione sulla pena in prossimità della sua effettiva esecuzione; 3) affidare tale decisione a un giudice la cui composizione mista e la cui collocazione distrettuale avrebbero garantito il necessario approccio personologico alla materia trattata e una maggiore uniformità dei trattamenti sanzionatori irrogati sul territorio nazionale. Anche questa proposta, tuttavia, non ha convinto la Commissione. In primo luogo, ha destato preoccupazione l’inevitabile aggravio dei tempi processuali che una simile riforma comporterebbe, tanto più se le decisioni del tribunale della pena dovessero venire assoggettate – come sembrerebbe necessario – a un riesame nel merito oltre che a un sindacato di legittimità. In secondo luogo, sono state evidenziate gravi difficoltà di coordinamento della riforma con la disciplina dei riti alternativi imperniati sulla negoziazione e/o sulla riduzione premiale della pena. Infine, sono state manifestate notevoli perplessità circa la stessa attitudine del tribunale della pena a effettuare una corretta determinazione del trattamento sanzionatorio, essendo indispensabile, a tal fine, una conoscenza del fatto di reato che un simile tribunale – estraneo all’accertamento dell’episodio criminoso e distante anche cronologicamente dal medesimo – non potrebbe vantare. Più in generale, si è fatto rilevare come la proposta in discussione sembri nascere dalla convinzione che il dosaggio del trattamento sanzionatorio sia soltanto – o possa diventare soltanto – un problema di valutazione della personalità del reo in chiave rieducativa. In realtà non è così: moltissime circostanze in senso tecnico e molti dei parametri contenuti nell’art. 133 c.p. (come la natura, la specie, l’oggetto, i mezzi, il tempo, il luogo dell’azione, oppure la gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa) richiedono accertamenti e giudizi di natura oggettiva, legati in maniera indissolubile alla ricostruzione del fatto di reato e svincolati da qualunque considerazione legata alla persona del reo e da qualunque valutazione prognostica circa la sua auspicata risocializzazione. Tali accertamenti e tali giudizi non potrebbero, dunque, essere sottratti al giudice del fatto.
Largamente condivisa, al contrario, è risultata l’esigenza di innalzare gli standard di giurisdizionalità della fase esecutiva, sul presupposto di una tendenziale riferibilità anche a tale fase – se non di tutti i canoni del “giusto processo” di cognizione – quanto meno dei principi consacrati nei primi due commi dell’art. 111 Cost. (terzietà e imparzialità del giudice, parità delle armi, contraddittorio, ragionevole durata).
Sulla base di tale presupposto, la Commissione ha deciso, in primo luogo, di sovvertire la regola della tendenziale identità tra giudice che ha emesso il provvedimento da eseguire e giudice competente a curarne l’esecuzione. Si è ritenuto, infatti, che tale regola – già severamente criticata in dottrina prima della riforma costituzionale del 1999 – non potesse sopravvivere in un sistema costituzionale che pretende ormai espressamente l’imparzialità e la terzietà dell’organo giudicante. E’ stato conseguentemente accolto l’invito della dottrina alla «realizzazione di un controllo imparziale ad opera di un giudice davvero terzo rispetto alle pregresse vicende del giudizio di merito, […] attraverso l’affidamento unitario della titolarità delle attribuzioni decisorie su tutte le questioni esecutive a una struttura giudiziaria autonoma». Tale struttura giudiziaria autonoma è stata individuata in un “giudice della pena” da istituirsi presso ogni distretto di corte d’appello, le cui competenze andranno predeterminate nel rispetto dei principi di precostituzione e naturalità e la cui composizione – esclusivamente “togata” o mista – potrà variare a seconda del tipo di provvedimento di adottare («107.1. prevedere l’istituzione, presso ogni distretto di corte di appello, del giudice della pena, diverso da quello della cognizione ed individuato sulla base di criteri predeterminati; prevedere che il giudice della pena, quando delibera in composizione collegiale, sia composto, in casi predeterminati, da giudici togati e da esperti»).
In secondo luogo, l’incremento del tasso di giurisdizionalità della fase esecutiva è stato realizzato attribuendo al giudice della pena non soltanto, in via generale, le competenze già attualmente assegnate ai giudici dell’esecuzione e della sorveglianza, ma anche taluni specifici compiti che l’attuale disciplina normativa affida in larga misura ad organi amministrativi (quali le decisioni in materia di trattamento penitenziario) oppure al pubblico ministero (quali l’emanazione dell’ordine di esecuzione, il computo della custodia cautelare e delle pene espiate senza titolo e l’emanazione del provvedimento di cumulo delle pene). Più esattamente, sono state individuate due macroaree di intervento del giudice della pena – coincidenti con la sua competenza a “conoscere dell’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali divenuti irrevocabili” (direttiva 107.2) e con la sua competenza a “conoscere dell’esecuzione delle pene, delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi e delle misure di sicurezza” (direttiva 107.4) – e sono state elencate, di seguito, alcune competenze specifiche che il legislatore delegato dovrà necessariamente assegnare al giudice nell’ambito di tali macroaree. Questa elencazione non va tuttavia intesa come divieto, per il legislatore delegato, di attribuire al giudice della pena altre competenze all’interno delle due segnalate macroaree di intervento: la locuzione “prevedere in particolare”, impiegata a tal fine, è da leggersi dunque come sinonimo di “prevedere quanto meno”, “prevedere tra l’altro”.
Nel corso dei lavori della Commissione si è a lungo discusso dell’opportunità di trasferire all’organo giurisdizionale la competenza a emanare l’ordine di esecuzione nonché i provvedimenti di cumulo delle pene concorrenti e di computo del c.d. “presofferto”. Si è infine optato per la soluzione affermativa. L’attribuzione al pubblico ministero della competenza a emanare provvedimenti direttamente incidenti sulla libertà personale del condannato è parsa non soltanto lesiva del principio della par condicio partium di cui all’art. 111 comma 2 Cost., ma anche eccentrica rispetto alla più rigorosa lettura dell’art. 13 Cost. (e della locuzione “autorità giudiziaria” in essa contenuta) che ispira la disciplina delle misure cautelari personali. In particolare, si è ritenuto che non valgano ad attenuare il contrasto con le disposizioni sovraordinarie né il rilievo – contenuto nella Relazione al progetto preliminare del codice 1988 – secondo il quale, nell’emanazione di tali provvedimenti, non vi sarebbe spazio per l’uso di poteri autenticamente decisionali, né il rilievo che le garanzie di giurisdizionalità sarebbero comunque assicurate dalla facoltà, attribuita all’interessato, di contestare di fronte al giudice dell’esecuzione il contenuto dei suddetti provvedimenti. Al primo rilievo è agevole obiettare che – al contrario – l’ordine di esecuzione, il decreto di computo del presofferto e il decreto di cumulo delle pene concorrenti sono provvedimenti frutto di scelte del pubblico ministero connotate, molto spesso, da ampi margini di discrezionalità tecnica; al secondo, che il controllo giurisdizionale interviene soltanto in un momento successivo all’avvenuta restrizione della libertà personale del condannato ad opera della sua controparte processuale.
Nel tentativo di contemperare le esigenze garantistiche sottese al coinvolgimento del giudice nella procedura di emanazione dei suddetti provvedimenti e l’esigenza di non appesantire eccessivamente tale procedura, spesso caratterizzata da un ridotto livello di conflittualità, si è previsto che il giudice possa emanare l’ordine di esecuzione, il decreto di computo del presofferto e il provvedimento di cumulo delle pene concorrenti in forme semplificate, assimilabili a quelle del c.d. procedimento de plano di cui all’attuale art. 667 comma 4 c.p.p. (richiamate, in termini generali, nell’inciso «salvo casi predeterminati di deliberazione senza formalità di procedura» contenuto nella direttiva 107.5). Più specificamente, si è previsto che il giudice, in tali casi, potrà «provved[ere] senza formalità, su richiesta delle parti»; che «il pubblico ministero, l’interessato e il difensore [potranno] proporre opposizione davanti allo stesso giudice»; e che «in casi predeterminati, con riguardo alla durata della pena da eseguire, fino alla scadenza del termine per proporre opposizione e, laddove questa sia presentata, sino alla decisione del giudice della pena, l’esecuzione del provvedimenti [rimarrà] sospesa» (direttiva 107.3). Su quest’ultimo punto si sono registrati dissensi. A giudizio di alcuni commissari, prevedere come eccezione – anziché come regola – la non immediata esecutività dei provvedimenti di cui si discute avrebbe determinato un sensibile ridimensionamento della portata garantistica della riforma: attuata la delega, al condannato sarebbe stato finalmente assicurato il controllo preventivo dell’organo giurisdizionale sull’esistenza delle condizioni per l’emanazione del provvedimento di carcerazione; ma, come in passato, egli avrebbe potuto esercitare solo a posteriori, salvi casi eccezionali, il suo diritto al contraddittorio. Su tale orientamento ha tuttavia prevalso l’opinione di chi ha fatto rilevare come una generalizzata non esecutività dell’ordine di esecuzione (e dei provvedimenti connessi) ne avrebbe frustrato la reale efficacia esecutiva, mettendo in crisi il pincipio di effettività della sanzione penale. Si è dunque limitata la non esecutività del provvedimento a «casi predeterminati», da individuare «con riguardo alla durata della pena da eseguire», anche in accordo con le esigenze che ispirano la vigente disciplina del decreto di sospensione dell’ordine di esecuzione emanato dal pubblico ministero.
In terzo luogo, l’obiettivo di elevare il tasso di giurisdizionalizzazione della fase esecutiva è stato perseguito attraverso l’incremento delle garanzie riconosciute alle parti nell’ambito del procedimento di fronte al giudice della pena. Oltre all’invito a dare attuazione “piena” a tali garanzie nonché al principio del contraddittorio – invito che andrà raccolto dal legislatore delegato anche nel disciplinare il diritto del condannato alla difesa tecnica nell’ambito del procedimento di cui trattasi –, la direttiva 107.5 impone l’obbligo di «prevedere il diritto del condannato di partecipare alle udienze dinanzi al giudice della pena inerenti al trattamento sanzionatorio o penitenziario». Scopo di tale direttiva è impedire la riconferma della soluzione normativa attualmente adottata dall’art. 666 comma 4 c.p.p., che, come è noto, conferisce il diritto di presenziare all’udienza al solo interessato che ne faccia richiesta e che sia libero oppure sia detenuto o internato in luogo posto al’interno della circoscrizione del giudice procedente. L’opinione della Commissione è che tale soluzione normativa sacrifichi il diritto di difesa del condannato sull’altare di esigenze organizzative e di sicurezza penitenziaria che non possono vantare lo stesso rango costituzionale; si è inoltre ritenuto che il rischio di iniziative strumentali imperniate sull’abuso del potere di interpello del giudice della pena – e sul conseguente dovere di quest’ultimo di disporre la traduzione del condannato detenuto – possa venire scongiurato da una rigorosa individuazione dei casi di inammissibilità della richiesta per manifesta infondatezza.
Le direttive 108 e 109 assegnano infine al legislatore delegato il compito di disciplinare gli effetti impeditivi e impositivi del giudicato penale (108. «prevedere che la persona prosciolta o condannata con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non possa essere nuovamente sottoposta a procedimento penale per il medesimo fatto; disciplina degli effetti del giudicato penale nei giudizi civili, amministrativi e discipinari») e gli obblighi di natura riparatoria derivanti dall’ingiusta detenzione e dall’errore giudiziario (109. «riparazione dell’ingiusta detenzione e dell’errore giudiziario»).

29. I rapporti giurisdizionali con autorità straniere: princìpi generali in tema di cooperazione a fini di giustizia penale

La conservazione della tradizionale regola di prevalenza sul diritto processuale interno delle norme di diritto internazionale, convenzionale e generale, è imposta da fondamentali, intrinsecamente chiare ed altrimenti non tutelabili ragioni di coerenza sistematica e di organicità dei processi di adeguamento della legislazione nazionale agli obblighi assunti dalla Repubblica nei rapporti con la comunità internazionale.
È così ribadito, ma depurato da ogni improprio riferimento a specifiche fonti convenzionali, il principio secondo il quale le relazioni con le competenti autorità di altri Stati o con organi di giurisdizione giustizia internazionale a fini di giustizia penale sono disciplinate dalle convenzioni internazionali in vigore per lo Stato e dalle norme di diritto internazionale generale e che le norme contenute nel codice di procedura penale e in altre leggi dello Stato si applicano soltanto se le norme internazionali anzidette manchino o non dispongano diversamente.
Valore generale nelle procedure di cooperazione giudiziaria va assegnato al consenso dell’interessato, quando considerato necessario per l’espletamento di determinati atti, imponendosi la fissazione di condizioni uniformi, compatibili con la serietà e la stabilità degli impegni di cooperazione, per la revoca del medesimo.

30. (Segue): l’assistenza giudiziaria

La Commissione ha approvato all’unanimità, nelle sedute plenarie dell’8 marzo e del 2 maggio 2007, le proposte di direttive elaborate dalla VIII Sottocommissione in materia di disciplina processuale dell’assistenza giudiziaria.
Unanime, in particolare, è stato il riconoscimento della necessaria premessa della manovra riformatrice che si propone: la profonda consunzione delle vigenti forme processuali dell’assistenza giudiziaria e la loro pratica inidoneità a riflettere pienamente le istanze di semplificazione della cooperazione internazionale largamente affermatesi nell’evoluzione del diritto internazionale.
Anche in ragione della perdurante assenza di una disciplina di adattamento normativo interno coerente con lo Statuto della Corte penale internazionale, si è scelto di non considerare la materia della cd. cooperazione verticale (vale a dire dell’assistenza giudiziaria richiesta da corti internazionali), e di concentrare le prospettive di lavoro sul versante della mutua cooperazione (cd. orizzontale) tra Stati.
In questa prospettiva, se pure la progressiva attuazione nella cornice dell’Unione europea – vale a dire nell’area di cooperazione che assorbe gran parte dei flussi di assistenza giudiziaria ai quali l’Italia è interessata dal punto di vista sia della domanda che dell’offerta di collaborazione interstatuale – del principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie (per tacer delle auspicabili proiezioni del processo costituente europeo sul versante dell’integrazione delle strutture giudiziarie) varrà progressivamente a ridurre l’operatività degli scambi che abbisognano dei più tradizionali strumenti dell’assistenza giudiziaria, la riforma della materia codicistica costituisce una prioritaria ed inderogabile necessità, anche nella prospettiva dell’obbligo di ratifica degli strumenti di diritto internazionale (innanzitutto, la Convenzione integrativa sull’assistenza giudiziaria in campo penale fra gli Stati membri dell’Unione europea del 29 maggio 2000 e il suo Primo Protocollo addizionale, ma anche il Secondo protocollo addizionale della Convenzione europea del 1959) che in anni recenti hanno profondamente modificato i tradizionali assetti del diritto internazionale convenzionale riferiti alla materia in esame.
Peraltro, già nelle condizioni date, nell’attuazione delle direttive riformatrici complessivamente riferite alla materia delle relazioni internazionali a fini di giustizia penale, potrà adeguatamente valutarsi l’opportunità di valorizzare ulteriormente l’introduzione di regole speciali per la cooperazione possibile con le autorità di altri Stati dell’Unione europea, anche attraverso una partizione in distinti titoli del Libro del Codice di rito penale destinato alla regolamentazione dei rapporti giurisdizionali con autorità straniere che complessivamente renda immediatamente visibile, a cominciare dall’enunciazione dei canoni generali di attuazione degli strumenti normativi attraverso i quali progressivamente si attua il principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie, la profonda diversità dei sottosistemi rispettivamente corrispondenti alle relazioni con Paesi membri dell’Unione europea e con gli altri Stati.
Le istanze riformatrici accolte dalla Commissione riguardano, innanzitutto, il versante passivo della assistenza giudiziaria a fini di giustizia penale.
In particolare, con riferimento alle relazioni con le autorità degli altri Stati membri dell’Unione europea, un utile punto di partenza per avere conferma del giudizio preliminarmente espresso in punto di adeguatezza della legislazione nazionale fu offerto già dalla “Relazione sull’Italia” che il Gruppo di valutazione sull’assistenza giudiziaria e le domande urgenti di accertamento patrimoniale e di sequestro dei beni al Gruppo pluridisciplinare “Criminalità organizzata” (GPD) del Consiglio dell’Unione Europea presentò nel maggio 2001, nell’ambito dell’attuazione del meccanismo delle verifiche reciproche dell’attuazione a livello nazionale delle iniziative internazionali adottate in materia di lotta contro la criminalità organizzata previsto dall’azione comune adottata dal Consiglio il 5 dicembre 1997 (in esecuzione alla corrispondente previsione del Piano d’azione comune contro la criminalità organizzata del 28 aprile 1997).
In effetti, nella citata Relazione, la ricognizione del quadro normativo vigente e delle prassi applicative sfociava nell’espressione aperta del dubbio che il sistema italiano di disciplina delle rogatorie passive, definito “troppo pesante”:
- avesse piena conformità allo spirito soggiacente all’accordo di Schengen (art. 53 paragrafo 1), sulla trasmissione diretta all’autorità giudiziaria competente all’esecuzione della rogatoria),
- fosse idoneo ad assicurare la trattazione immediata delle rogatorie urgenti,
- fosse conforme allo spirito degli accordi internazionali più recenti nella parte che subordina al consenso dell’amministrazione centrale la presenza di autorità straniere nel corso dell’esecuzione della rogatoria, sebbene affidata a giudici con competenze locali.
A ciò si aggiunga che la successiva scelta legislativa (l. 367/2001) di subordinare l’individuazione dell’autorità giudiziaria chiamata all’esecuzione delle domande di assistenza giudiziaria aventi ad oggetto atti da compiersi in più distretti al preventivo vaglio della Corte di cassazione ha provocato, come confermato anche nel corso delle audizioni di esperti compiute da questa Commissione, un ulteriore, pesante quanto non necessario, rallentamento delle relative procedure, per ovviare al quale non di rado le autorità di altri Stati ricorrono ad un artificioso frazionamento del contenuto della richiesta di assistenza complessivamente avuta di mira ovvero alla sollecitazione degli alternativi canali della cooperazione di polizia.
Segnatamente, unanimemente condivisa è risultata essere l’idea che l’offerta italiana di assistenza giudiziaria sia, in termini generali (pur sul presupposto del valore positivo complessivamente riconosciuto al contributo italiano alla cooperazione), contrassegnata:
- da una sostanziale estraneità al suo concreto svolgimento degli uffici del p.m. titolari delle ordinarie (ma potenzialmente concorrenti) potestà investigative, pure legittimati a richiedere l’assistenza giudiziaria straniera e chiamati sempre più ad assicurare il coordinamento delle procedure penali tra loro collegate in ambito internazionale (attraverso l’opera di Eurojust ovvero sempre più intensi scambi diretti spontanei di informazioni ovvero l’impiego di squadre investigative comuni o il congiunto azionarsi di tecniche di investigazione transfrontaliera);
- dalla conseguente, sostanziale duplicazione degli interlocutori che si offrono all’autorità straniera (ciò che è paradossalmente più visibile nei sistemi di relazione ove sono consentite ed anzi favorite le relazioni dirette) nell’ambito degli scambi di assistenza giudiziaria che sempre di più connotano le indagini collegate relative a reati che coinvolgono le giurisdizioni di più Stati,
- dalla difficoltà per un giudice come la corte d’appello di governare materie ed esigenze investigative affidate ordinariamente alle competenze di organi diversi (si pensi al caso nel quale sia richiesta dall’autorità straniera la trasmissione della documentazione di atti d’indagine ancora riservati ovvero l’esecuzione di atti che possano compromettere indagini preliminari in contestuale svolgimento),
- dalla rigidità di un meccanismo di esecuzione modellato sull’idea di prova da assumere in contraddittorio e sui fini propri del giudizio, di fatto sovrabbondante e ingiustificato allorquando la domanda di assistenza giudiziaria miri ad obiettivi di mera acquisizione informativa o di ricerca della fonte di prova alla realizzazione dei quali non sia essenziale la partecipazione del giudice (per essere le corrispondenti attività nella procedura penale nazionale affidate al pubblico ministero ovvero comunque per non essere stata invocata la garanzia giudiziale dall’autorità richiedente l’assistenza),
- dalla complessiva mancanza di modelli processuali che, con flessibilità e senza alcun sacrificio delle esigenze di uniformità di giudizio e di garanzia sottese all’attuale sistema di exequatur, garantiscano il riconoscimento della reale natura degli interessi coinvolti e degli strumenti procedurali idonei ad assicurarne l’efficace tutela.
Analogamente è da dirsi con riguardo al delicato tema delle prerogative ministeriali in materia di assistenza giudiziaria richiesta all’Italia.
Il dibattito sulla necessità di un doppio vaglio, politico oltre che giurisdizionale, circa la sussistenza in concreto delle condizioni dell’assistenza giudiziaria, si è concluso con l’unanime accoglimento di un modello di soluzione differenziato, in grado di garantire, da un lato, la sostanziale depoliticizzazione del sistema dell’assistenza giudiziaria nell’area circoscritta dall’efficacia degli accordi internazionali stipulati tra stati dell’Unione europea, in ragione dell’esistenza di un quadro di omogeneità politica che ormai non soltanto giustifica, ma persino impone l’abbandono del tradizionale vaglio di opportunità politica e, dall’altro lato, al di fuori del circuito di relazioni definito dalla descritta dimensione sovranazionale, la conservazione di una funzione di filtro politico, l’opportunità della quale perdura inalterata (salvo a considerare in sede di esercizio delle delega anche l’esigenza di raccordare le condizioni e le forme del suo esercizio con le specifiche norme di convenzioni internazionali che comunque abilitano le autorità giudiziarie alla trasmissione diretta delle domande di assistenza a fini di giustizia).
Un ulteriore ambito di intervento è stato individuato con riguardo all’esigenza di assorbire nella generale disciplina dell’assistenza giudiziaria i meccanismi procedurali adottati dal legislatore del 1993, in sede di ratifica della Convenzione di Strasburgo sul riciclaggio, ai fini della ricerca e del sequestro dei beni provento di reato suscettivi di confisca, attualmente regolati nel capo riferito al riconoscimento delle sentenze (tale essendo nel nostro sistema, di regola, la forma del provvedimento ablativo), senza che sia data possibilità di giustificazione razionale di regole differenziate all’assistenza giudiziaria da prestarsi o da richiedere nella prospettiva della esecuzione di un provvedimento di confisca.
Complessivamente, è risultata prioritaria l’esigenza di delineare una disciplina di diritto interno in grado di assicurare una generale, maggiore fluidità ed efficacia dei canali di collaborazione giudiziaria e, in particolare, di riflettere le innovazioni del sistema della cooperazione giudiziaria che precipuamente riguardano le relazioni con altri Stati membri dell’Unione europea.
Al suddetto fine, sono stati tenuti in considerazione le proposte già individuate nello schema di disegno di legge di ratifica ed esecuzione elaborato nel luglio 2001 dalla Commissione La Greca (istituita con decreto del ministro della giustizia del 15 luglio 1999), nonché quelle accolte nei disegni di legge presentati nella scorsa legislatura (d.d.l. 1951/C, di iniziativa parlamentare; d.d.l. n. 2372/C, di iniziativa del Governo), entrambi, in varia misura, tributari del lavoro della menzionata Commissione di studio, ma, a differenza di questo, elaborati tenendo conto anche delle innovazioni intanto introdotte con la l. n. 367 del 5 ottobre 2001.
Tanto preliminarmente premesso, di seguito si riportano le linee guida dell’intervento riformatore che la Commissione con il presente atto propone.
Circa la struttura del procedimento e la natura dei soggetti chiamati ad assicurarne lo svolgimento, come noto, il codice di rito penale del 1988 disciplinò la materia delle “rogatorie dall’estero” sostanzialmente riproducendo i meccanismi procedurali accolti nel codice previgente, così confermandosi la tendenza del legislatore italiano ad adottare impianti formali nettamente sovrabbondanti rispetto alle esigenze effettive, quando non anche contraddittori rispetto agli obiettivi segnati dall’evoluzione delle fonti internazionali,.
Se si eccettuano, infatti, gli effetti della soppressione dall’ordinamento giudiziario della figura della sezione istruttoria, con la conseguente necessità di riferirsi semplicemente alla corte d’appello in quanto tale, la struttura del procedimento giurisdizionale di esecuzione delle rogatorie dall’estero rimase sostanzialmente invariata rispetto al modello accolto nel precedente sistema rituale.
In generale, alla riaffermata centralità del ruolo della corte d’appello, corrispose un’assai limitata considerazione del ruolo del pubblico ministero.
Salvo i poteri di promozione procedurale affidati al procuratore generale, continuava, infatti, ad essere riservata all’intervento necessario del giudice ogni istanza di collaborazione giudiziaria a fini di acquisizione della prova, nessuna incidenza assumendo nella disciplina delle rogatorie dall’estero la circostanza del generale mutamento dei ruoli delle parti e del giudice all’interno del nuovo sistema processuale.
Ne risultava, per ciò solo, un’obiettiva divaricazione fra le modalità dell’offerta di assistenza giudiziaria e l’ordinaria titolarità, secondo il diritto processuale interno, delle potestà investigative che la correlativa domanda di collaborazione sollecita, inevitabilmente destinata ad acuire le disfunzioni di una struttura procedurale in sé rigida e farraginosa.
Soprattutto, quei modelli avrebbero rivelato una obiettiva difficoltà a riflettere le istanze di efficienza e tempestività proprie della moderna cooperazione giudiziaria, in sé caratterizzata, da un lato da sempre più intensi flussi di diretto scambio informativo tra autorità giudiziarie e, dall’altro lato, dalla necessità di assicurare l’efficienza delle prestazioni di assistenza giudiziaria richieste dal collegamento tra le procedure contestualmente in corso nei diversi ambiti nazionali (poiché riferite a comportamenti e dinamiche criminali in sé coinvolgenti l’azione repressiva di ordinamenti diversi).
In particolare, l’assetto codicistico della materia soffre visibilmente gli effetti negativi della pesantezza dell’apparato procedurale chiamato a mettersi in moto in presenza di una domanda di assistenza, tali caratteri negativi apparendo tanto più condizionanti quanto maggiore è la complessità del contenuto della richiesta e, in generale, quanto progressivamente più esteso ed intenso diviene il circuito internazionale della collaborazione a fini di giustizia.
Tali considerazioni sono state poste alla base di scelte ormai circondate da diffuso consenso, come dimostrato dalla sostanziale convergenza delle soluzioni accolte nei già ricordati disegni di legge, pur di opposta origine politica, depositati nella scorsa legislatura.
Si è, in particolare, previsto che, sul versante passivo della cooperazione a fini di acquisizione probatoria e di sequestro a fini di confisca, l’intervento del procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto e del giudice per le indagini preliminari del medesimo ufficio in luogo di quello del procuratore generale presso la corte d’appello e di questa medesima corte.
Tale scelta è stata operata in termini generali e, dunque, prescindendo dalla distinzione operata in quelle proposte legislative (entrambe sul punto specifico direttamente tributarie delle soluzioni prospettate dalla Commissione La Greca) tra l’esecuzione di domande di Stati membri dell’Unione e l’esecuzione di domande di altri Stati; ciò per evitare una sostanziale duplicazione dei circuiti giudiziari di per sé produttiva di appesantimenti e diseconomie, ma tanto più ingiustificata ove si consideri che la conservazione del circuito tradizionale (corte d’appello-procuratore generale) avrebbe conservato valore per una quota assai ridotta (approssimativamente stimabile intorno al dieci per cento) dei flussi complessivi della domanda di assistenza giudiziaria indirizzata al sistema giudiziario italiano.
Naturalmente, a tale scelta potrà dover corrispondere (anche in dipendenza delle soluzioni accolte in tema di titolarità delle funzioni di coordinamento investigativo) l’esigenza di rivisitare coerentemente le scelte, di appannaggio governativo, riferite all’individuazione sia dei corrispondenti nazionali del membro nazionale di Eurojust sia dei componenti della Rete giudiziaria europea.
Nella prospettiva appena delineata, si è specificamente previsto che il procuratore destinatario della richiesta di assistenza (trasmessagli direttamente dall’autorità di altro Stato o a lui pervenuta per il tramite del ministro della giustizia), richieda l’intervento del giudice per le indagini preliminari ogni qual volta la domanda abbia per oggetto acquisizioni probatorie da compiersi davanti al giudice ovvero attività che secondo la legge dello Stato non possono svolgersi senza l’autorizzazione del giudice, negli altri casi (vale a dire sia quando attività di quel genere costituiscano l’oggetto esclusivo della domanda di assistenza sia quando invece le medesime si associno ad altre per le quali non sia dovuta la garanzia del giudice) provvedendo direttamente all’esecuzione.
L’affidamento al giudice della funzione di vaglio delle richieste di acquisizione probatoria di autorità di altri Stati soltanto nei casi predetti vale ad assicurare una reale ed adeguata corrispondenza tra il livello delle necessarie garanzie giurisdizionali e la natura delle attività da compiersi e degli interessi in esse coinvolti, evitando l’intervento del giudice sia reso, come oggi, necessario anche in vista del compimento di atti (acquisizioni di documenti ed informazioni, essenzialmente) che, ai fini del procedimento penale italiano non lo richiedono.
Naturalmente, è sembrato opportuno anche conservare un parametro di riconoscimento della necessità della garanzia del giudice modellato sulle esigenze del procedimento penale straniero, sì da rendersi comunque essenziale l’intervento del giudice ogni qualvolta sia l’autorità richiedente a prospettare autonomamente la necessità ovvero anche soltanto l’opportunità che l’atto sia compiuto ovvero autorizzato da un giudice, sì che, ad esempio, alla raccolta delle dichiarazioni di persone a conoscenza di informazioni utili all’accertamento del reato provvederà il pubblico ministero, salvo che l’autorità dello Stato richiedente non abbia espressamente richiesto l’intervento del giudice ovvero l’adozione di forme e modalità di compimento dell’atto (l’esame in contraddittorio piuttosto che il giuramento del dichiarante, ad esempio) compatibili soltanto con quella garanzia.
Pur conservandosi una base distrettuale per il riparto delle attribuzioni giurisdizionali (assolutamente necessaria per evitare un effetto di moltiplicazione degli interlocutori che si offrono alla collaborazione con le autorità straniere, in sé incompatibile con le esigenze di rapida e chiara individuazione dei destinatari delle domande di assistenza giudiziaria, ormai in larghissima misura trasmesse in via diretta, ma pernicioso anche per la coerenza delle prassi applicative), ragioni di di rapidità ed efficacia della collaborazione interstatuale a fini di giustizia penale sono alla base della contestuale previsione che l’esecuzione della domanda di assistenza per la quale sia stata riconosciuta l’assenza di motivi di rifiuto possa essere delegata dal giudice e dal procuratore della Repubblica ai rispettivi, corrispondenti uffici del luogo dove i singoli atti di acquisizione probatoria devono compiersi (tutti gli uffici di procura, naturalmente, conserveranno ratione loci la titolarità delle attribuzioni connesse all’esecuzioni di domande di assistenza finalizzate a notifiche e comunicazioni ovvero provenienti da autorità amministrative di altri Stati).
Il preliminare tema del riparto territoriale delle competenze riservate agli uffici giudiziari aventi sede nei capoluoghi distrettuali è stato considerato partendo dalla constatazione, già in premessa anticipata, che la funzione di filtro delle rogatorie aventi ad oggetto una pluralità di atti da compiersi in distretti diversi affidata dal legislatore del 2001 alla Corte di cassazione si è, in fatto, risolta in un fattore di obiettivo rallentamento e rilevante quanto non necessario appesantimento delle procedure, per ovviare ai ritardi ed agli inconvenienti del quale, peraltro, le autorità straniere rese avvedute del rischio di dover attendere mesi prima di poter conoscere l’organo designato per l’ esecuzione della rogatoria sovente ricorrono al preventivo frazionamento del contenuto delle richieste, così da poterle indirizzare direttamente ed immediatamente alle autorità dei singoli distretti di volta in volta interessati (ma le prassi registrano anche la concretezza del rischio di deflusso verso i canali della cooperazione di polizia, anche in casi non secondari, di una domanda di assistenza giudiziaria altrimenti esposta a rischio di frustrazione: si pensi al caso nel quale si ponga il problema di procedere ad attività di ricerca della prova, come perquisizioni da svolgersi contemporaneamente in più distretti, rientranti nelle potestà legalmente previste degli organi di polizia).
Come noto, il procedimento concretamente prescelto dal legislatore del 2001 per realizzare la concentrazione delle attribuzioni processuali riferite ad una rogatoria oggettivamente complessa in capo ad un unico organo giurisdizionale era immediatamente apparso alla dottrina più attenta suscettivo di osservazioni critiche.
Innanzitutto, si era dubitato della coerenza della scelta di prevedere una ulteriore fase processuale finalizzata all’individuazione dell’organo competente rispetto all’obiettivo di assicurare la trattazione tempestiva delle rogatorie nei casi urgenti, sì che, sotto tale profilo, l’esigenza di evitare le divaricazioni decisorie ed esecutive possibili in un sistema che ammette la trattazione separata di un’unica domanda di assistenza in sé sembrava avere ricevuto una considerazione isolata dalle ragioni, pure rilevanti nel sistema della cooperazione, di una risposta giudiziaria tempestiva ed efficace.
Allo stesso modo, si era dubitato che le ragioni tipicamente proprie della logica investigativa che permea una quota assai rilevante della domanda di assistenza a fini di acquisizione probatoria, potessero ricevere adeguata considerazione, al fine della individuazione dell’organo in grado di assicurare il più efficace adempimento di una domanda di collaborazione giudiziaria complessa, da parte del giudice di legittimità, la sfera e le finalità tipiche dell’intervento cognitivo del quale registravano una dilatazione impropria.
Ancora, la stessa natura dei criteri di giudizio (<>), in sé non vincolanti e meramente indicativi, non allontanava dalla disposizione in esame i dubbi di costituzionalità prospettati, quanto alla sorte del principio del giudice naturale precostituito per legge, in relazione all’attribuzione della funzione di individuazione dell’organo competente all’exequatur secondo parametri lasciati all’apprezzamento ampiamente discrezionale della Suprema Corte.
Una diversa impostazione risolutrice era, peraltro, emersa nei lavori parlamentari poi sfociati nella l. n. 367 del 2001, attraverso l’emendamento che, all’evidente fine di assicurare l’unitarietà della fase giurisdizionale attraverso l’introduzione di criteri vincolanti, in successione normativamente guidata fra loro, prevedeva, per l’ipotesi di pluralità di atti da eseguirsi in distretti diversi, che si avesse <>.
Si era, infine, notato che lo stesso presupposto della concentrazione (la pluralità di atti da eseguirsi in distretti diversi) ha di per sé una consistenza obiettiva astrattamente differenziata in relazione alla natura degli atti da compiersi (essendo più agevolmente percepibile ove sia richiesto la perquisizione di luoghi o il sequestro di cose che si trovano in territori diversi piuttosto che allorquando sia richiesta l’audizione di testimoni residenti in distretti diversi, ma che ben possono convocarsi dinanzi alla medesima autorità) e potrebbe persino non essere percepibile all’atto della deliberazione della Corte di cassazione (ove la dislocazione in distretti diversi delle persone o delle cose alle quali si riferisca la richiesta istruttoria si riveli, per effetto di circostanze sopravvenute ovvero non originariamente conosciute, soltanto successivamente alla pronuncia della S.C., ma prima che sia dato l’ordine di esecuzione della rogatoria da parte della corte d’appello individuata), ciò che contribuisce a dubitare della stessa affidabilità, rispetto ai fini prefissi di semplicità procedurale, del meccanismo selettivo prescelto, oltre che ad acuire possibili perplessità circa la corrispondenza di criteri di individuazione del giudice competente (all’exequatur di ammissibilità giuridica prima ancora che all’esecuzione degli atti richiesti) obiettivamente in sé privi di precisione ed obiettiva prevedibilità applicativa al principio costituzionale del giudice naturale.
L’esigenza di rimozione di quel così farraginoso ed inconcludente meccanismo procedurale potrebbe considerarsi adeguatamente prevedendo che, quando la richiesta abbia per oggetto attività di acquisizione probatoria che devono essere eseguite in più distretti, gli atti siano trasmessi al procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto nel quale deve compiersi il maggior numero di atti e, ove non sia possibile determinare la competenza sulla base di tale criterio, gli atti siano trasmessi al procuratore della Repubblica presso il tribunale di Roma.
Appare rilevante notare che, ai fini del computo in parola, dovrebbe potersi aver riguardo ai soli atti che per loro natura possono eseguirsi soltanto in un determinato luogo (es. perquisizioni locali, ordinariamente il sequestro e l’intercettazione di comunicazioni tra persone presenti) e non anche quelli suscettivi di compimento in più luoghi (raccolta di dichiarazioni, acquisizioni di tabulati telefonici e, ordinariamente, di documenti, etc.).
Onde evitare che eventuali dissensi tra uffici giudiziari rallentino oltre ragionevole misura l’assolvimento degli obblighi di cooperazione, sarà necessario altresì prevdere una specifica disciplina per contenere i tempi di definizione di eventuali contrasti tra uffici distrettuali del pubblico ministero e di parimenti eventuali conflitti di competenza.
Ovvie esigenze di semplificazione impongono di confermare l’attribuzione al procuratore della Repubblica individuato su base circondariale del compito di ricevere ed eseguire le richieste di assistenza a fini di citazione del testimone o di notificazione all’imputato residenti o dimoranti nel territorio dello Stato. nonché di quelle presentate da autorità amministrative di altri Stati in procedimenti concernenti illeciti penali.
Quanto alla disciplina dei casi di rifiuto di esecuzione, le tradizionali prerogative ministeriali, come già posto in rilievo, sono da abbandonarsi con riguardo alla trattazione delle domande di assistenza giudiziaria provenienti da autorità di altri Stati membri dell’Unione, essendo per loro natura assai difficilmente conciliabili con la natura dei vincoli sovranazionali e, come tali, ripudiate dagli strumenti di diritto internazionale (come la più volte citata Convenzione del 29 maggio 2000) che pienamente riflettono il significato di quei legami sul cruciale terreno della collaborazione a fini di giustizia penale.
Naturalmente, dovrà comunque prevedersi che l’esecuzione della domanda di assistenza giudiziaria sarà essere rifiutata dall’organo giurisdizionale ogni qual volta ricorra uno dei motivi previsti dalla legge (tradizionalmente, riconducibili alle ipotesi nelle quali risulti che: a) gli atti richiesti sono vietati dalla legge e sono contrari a principi fondamentali dell’ordinamento giuridico dello Stato; b) vi sono fondate ragioni per ritenere che considerazioni relative alla razza, alla religione, al sesso, alla nazionalità, alla lingua, alle opinioni politiche o alle altre condizioni personali o sociali possano influire sullo svolgimento del processo e non risulta che l’imputato abbia liberamente espresso il suo consenso alla richiesta di assistenza; c) la richiesta non proviene da autorità di altri Stati membri dell’Unione europea, se il fatto per cui procede l’autorità straniera non è previsto come reato dalla legge italiana e non risulta che l’imputato abbia liberamente espresso il suo consenso alla richiesta di assistenza; d) è richiesto il sequestro di beni che possono divenire oggetto di una successiva richiesta di esecuzione di una confisca, se vi sono fondate ragioni per ritenere che non sussistono le condizioni per la successiva esecuzione della confisca (tale ultima previsione non è altro che la trasposizione nella materia in esame della regola oggi dettata dall’art. 737, comma 3, lett. b), c.p.p.).
È sembrato inoltre necessario ed opportuno conservare la previsione (introdotta nel sistema processuale in occasione della ratifica della Convenzione del Consiglio d’Europa sul riciclaggio fatta a Strasburgo l’8 novembre 1990) di una potestà di sospensione dell’esecuzione delle domande di assistenza giudiziaria motivata dalla necessità di non pregiudicare indagini o procedimenti in corso nello Stato.
Peraltro, nel nuovo assetto strutturale della disciplina di esecuzione delle domande di assistenza giudiziaria delle autorità di altri Stati, quella clausola trova finalmente possibilità di coerente e lineare applicazione, laddove invece nel vigente sistema, la consapevolezza dell’esistenza di una sfera concorrente di attività, di regola collegata ad istanze investigative ancora circondate da esigenze di riservatezza, che può influenzare la stessa possibilità di prestazione dell’assistenza richiesta convive con un assetto procedimentale nel quale - salvo ad immaginare un improbabile ricorso alle competenze assegnate al procuratore generale dall’art. 118-bis disp. att. c.p.p. (poiché, invero, funzionalmente assai deboli e, comunque, limitate al solo ambito distrettuale) - nulla si dice delle modalità attraverso le quali l’organo competente all’esecuzione della rogatoria può effettivamente assicurarsi la conoscenza delle circostanze impeditive e la compiuta valutazione del loro rilievo.
Naturalmente, della sospensione dell’esecuzione dovrà darsi immediata comunicazione all’autorità richiedente.
Ai fini dell’esecuzione delle richieste di assistenza giudiziaria, i principi di disciplina condivisi dalla Commissione sono ispirati dalle innovative previsioni della citata Convenzione tra gli Stati dell’Unione europea del 29 maggio 2000 (e da coerenti profili evolutivi delle prassi in atto in più ampi ambiti di cooperazione), in forza delle quali il canone generale governante la materia è quello dell’esecuzione delle domande nelle forme, nei modi e nei tempi richiesti dallo stato richiedente, sempre che le finalità e le procedure indicate non siano in conflitto con i principi fondamentali di diritto dello Stato richiesto.
Coerentemente a tali linee di evoluzione del diritto internazionale convenzionale, si è previsto che:
- per il compimento degli atti richiesti si osservino le leggi dello Stato, salva l’osservanza delle forme espressamente richieste dall’autorità straniera che non siano contrarie ai principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano;
- l’autorità giudiziaria che procede all’esecuzione della richiesta di assistenza giudiziaria possa con decreto motivato autorizzare la presenza alle attività da compiersi delle autorità e degli esperti indicati dallo Stato richiedente (e sembra opportuno che di ciò sia data immediata comunicazione al ministro della giustizia se la richiesta proviene da autorità di Stati diversi da quelli membri dell’Unione europea);
- se durante l’esecuzione della richiesta di assistenza giudiziaria emerge l’opportunità di compiere atti non indicati nella richiesta medesima, l’autorità giudiziaria ne informi senza ritardo l’autorità richiedente;
- quando accordi internazionali prevedono la trasmissione diretta all’autorità giudiziaria delle richieste di assistenza giudiziaria, l’autorità richiedente che partecipa all’esecuzione possa presentare richieste complementari mentre si trova nel territorio dello Stato e che, trattandosi di autorità di Stati membri dell’Unione europea, la richiesta complementare possa essere comunicata anche verbalmente, con successiva documentazione nelle successive ventiquattro ore;
- sul versante attivo, quando, nei casi previsti da accordi internazionali in vigore per lo Stato, la domanda di assistenza giudiziaria può essere eseguita secondo modalità previste dall’ordinamento dello Stato richiedente, l’autorità giudiziaria, nel formulare la domanda di assistenza, ne specifichi le modalità di esecuzione, tenendo conto degli elementi necessari per l’utilizzazione processuale degli atti richiesti.
Naturalmente, nella nuova architettura del sistema dell’assistenza giudiziaria a fini di acquisizione probatoria dovranno essere coerentemente valutati dal legislatore delegato i profili di reale giustificazione logico-giuridica delle soluzioni date dal legislatore del 2001 ai pur delicati nodi problematici dell’utilizzabilità degli atti acquisiti grazie alla collaborazione interstatuale.
Alla già rilevata esigenza di attrazione nella disciplina generale dell’assistenza giudiziaria (sul versante passivo come su quello attivo) delle attività di ricerca e sequestro dei beni provento di reato e, come tali, suscettivi di confisca è corrisposta, peraltro, la condivisione della necessità di estendere il fronte delle garanzie difensive correlate all’adozione di misure cautelari reali, pur senza pregiudicare l’effettività delle prestazioni cooperative richieste al sistema giudiziario italiano.
Peraltro, nell’attuazione della delega potrà trovare considerazione specifica la possibilità di individuare forme di contraddittorio o di controllo difensivo successive all’acquisizione della prova richiesta ai fini di giustizia di altro ordinamento in sé compatibili con la natura di procedure finalizzate a dare attuazione all’obbligo dello Stato italiano di assicurare la collaborazione giudiziaria richiesta da altri Stati, e, dunque a non adottare ordinamenti processuali interni che, consentendo all’interessato di avere conoscenza preventiva della domanda di assistenza, minaccino le effettive possibilità di proficua esecuzione ed utilizzazione della medesima domanda e, più in generale, l’efficacia delle procedure nelle quali i suoi esiti sono destinati a confluire.
Specifiche direttive sono poi dedicate, coerentemente all’assetto complessivo dell’impianto legislativo prefigurato:
- alle forme di acquisizione della documentazione relativa ad atti ed informazioni spontaneamente trasmessi dall’autorità straniera in conformità ad accordi internazionali in vigore per lo Stato;
- all’obbligo dell’autorità giudiziaria italiana di osservare le condizioni eventualmente poste dall’autorità straniera all’utilizzabilità degli atti e delle informazioni spontaneamente trasmessi;
- alle determinazione delle condizioni e delle modalità di trasferimento temporaneo all’estero a fini di indagine di persone detenute o internate richiesto in conformità ad accordi internazionali in vigore per lo Stato (in particolare, adeguatamente riconoscendosi il ruolo del ministro della giustizia, in ragione del valore politico delle responsabilità che si assumono attraverso le relative negoziazioni;
- alla possibilità, nei rapporti con altri Stati dell’Unione europea e nei casi previsti da convenzioni internazionali in vigore per lo Stato, che l’audizione di testimoni e periti possa aver luogo mediante video conferenza o conferenza telefonica;
- all’adozione nei rapporti di cooperazione con altri Stati dell’Unione europea (e comunque nei casi previsti da accordi internazionale) di forme di assistenza giudiziaria specifiche, quali quelle assicurate dalle cd. squadre investigative comuni.
Con riferimento a tale ultimo tema, all’attuazione della delega sarà affidato il compito di individuare condizioni di disciplina coerenti con gli obblighi assunti dall’Italia in sede internazionale e convenzionale.
In particolare, la Commissione ha considerato la necessità di modellare i presupposti dell’avvio di tali procedure di cooperazione su quelle indicate nella corrispondente Decisione Quadro n. 465 del 13 giugno 2002 quadro, adottata dal Consiglio dell’Unione Europea, in letterale conformità con le corrispondenti previsioni dell’art. 13 della Convenzione del 29 maggio 2000, prevedendosi la possibilità di costituzione dei gruppi di indagine comuni non soltanto nell’ipotesi di contestuale pendenza in più Stati di procedure collegate che abbisognino di coordinamento e concertazione, ma altresì in quella di “indagini condotte da uno Stato che comportano inchieste difficili e di notevole portata che hanno un collegamento con altri Stati”, ciò che con evidenza appare imporre la necessità di ammettere che anche l’indagine in corso in soltanto uno degli Stati, in ragione delle sue proiezioni operative nel territorio di un altro Stato, possa giustificare la conduzione congiunta delle attività di ricerca della prova.
Non meno rilevante, nell’ottica di una coerente ed efficace utilizzazione del nuovo strumento di collaborazione internazionale, appare poi la considerazione della adeguatezza delle previsioni normative destinate a regolare l’ipotesi che la proposta di costituzione di una squadra investigativa comune incida su materie già oggetto di indagini collegate di più uffici del pubblico ministero italiano.
A tale riguardo, si è considerata l’insufficienza di previsioni finalizzate ad assicurare che dell’iniziativa volta alla costituzione di una squadra investigativa comune con autorità di Stati diversi abbiano tempestiva comunicazione gli organi titolari di funzioni di coordinamento (nei rispettivi ambiti di attribuzioni, il procuratore nazionale antimafia e i procuratori generali presso le corti d’appello interessate).
Se pure sia da ritenere ragionevole che, sulla base della comunicazione ricevuta dell’iniziativa costituiva, l’organo di coordinamento possa, riconoscendo l’esistenza di indagini collegate di altri uffici, impartire eventuali direttive finalizzate all’opportuno coinvolgimento operativo degli altri uffici interessati, non di meno, ciò (soprattutto, forse, considerando il complesso circuito di coordinamento affidato dalla norma dell’art. 118-bis disp. att. c.p.p. ai procuratori generali presso la corte d’appello) potrebbe non valere a prevenire tempestivamente il rischio di sovrapposizioni ed interferenze.
Appunto al fine di evitare di trasferire sul piano della collaborazione internazionale il peso delle difficoltà di un coordinamento interno incerto, già nella ricordata elaborazione della Commissione di studio ministeriale istituita nel 1999 si prevedeva una regola processuale ulteriore, finalizzata ad evitare il perfezionamento di accordi non preceduti da adeguato raccordo operativo tra gli uffici del pubblico ministero della Repubblica interessati, attraverso l’indicazione della necessità di una preventiva intesa tra gli uffici procedenti e, in caso di contrasti, di un intervento risolutivo dell’organo funzionalmente sovraordinato.
In coerenza con quella soluzione, da stimarsi assai più idonea ad assicurare le finalità del coordinamento investigativo dal rischio di iniziative non precedute da adeguata concertazione tra gli uffici interessati alla collaborazione con le autorità di altri Stati, potrebbe allora prevedersi di inserire, dopo il comma 3 del novello art. 371-ter c.p.p., una disposizione così congegnata:
“Quando risulta che più uffici del pubblico ministero procedono ad indagini collegate a quelle delle autorità straniere di cui al comma 1, la richiesta è formulata d’intesa fra gli uffici procedenti. Nel caso di mancata intesa, il contrasto è risolto dal procuratore generale presso la corte d’appello ovvero, se gli uffici del pubblico ministero appartengono a distretti diversi, dal procuratore generale presso la corte di cassazione (ovvero, in maggior sintonia con quanto previsto dall’art. 118-bis disp. att., ma forse con minore efficacia, dai procuratori generali dei distretti interessati, d’intesa tra loro). Nel caso di indagini relative ai delitti di cui all’articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale, il contrasto è risolto dal procuratore nazionale antimafia.”
Del resto, la necessità di preventiva intesa tra gli uffici del pubblico ministero titolari di indagini collegate (e l’opportunità di un efficace meccanismo di risoluzione dei contrasti) risulta condivisa, pur se tradotta in differenti schemi di disciplina, nei due più articolari disegni di legge presentati nella scorsa legislatura in vista della ratifica della richiamata Convenzione del 29 maggio 2000 (art. 21, comma 3, del d.d.l. 1951/C, di iniziativa dei deputati Violante ed altri; art. 5, comma 3, del d.d.l. n. 2372/C, di iniziativa del Governo).
Né va sottaciuto che un meccanismo analogo a quello proposto è già stato proficuamente sperimentato nel nostro sistema, in distinti, ma parimenti rilevanti al fine dell’efficienza del coordinamento investigativo e dei correlati valori della completezza e della tempestività delle investigazioni, campi applicativi (art. 11 l. 15 marzo 1991, n. 82, così come sostituito dall’art. 4 l. 13 febbraio 2001, n. 45).
Terminali notazioni sul tema in esame appare opportuno riservare al delicato profilo dell’utilizzabilità nel procedimento penale italiano degli atti compiuti dalla squadra investigativa comune.
Non mettendo conto rilevare che l’inserimento nel suddetto fascicolo dei verbali degli atti non ripetibili posti in essere dalla squadra investigativa comune sembra, invero, esigere regole specifiche soltanto con riguardo alle attività compiute all’estero (dal momento che per quelli compiuti nel territorio dello Stato l’utilizzabilità discende dall’applicazione dell’ordinario regime degli atti di indagine irripetibili) appare necessario prevedere disposizioni precipuamente destinate a regolare la sorte processuale degli atti non ripetibili, con evidenti rischi di incertezza e divaricazioni interpretative in sé pregiudizievoli per l’efficace impiego del nuovo istituto.
La soluzione unanimemente accolta è stata di prevedere l’utilizzabilità degli atti della squadra investigativa comune compiuti nel territorio dello Stato in conformità alla legge nazionale e di quelli compiuti all’estero che non siano in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano in limiti e con modalità analoghi a quelle previsti dalla legge per i corrispondenti atti compiuti secondo la legge processuale italiana.
In sede di attuazione della delega, ulteriori specifiche disposizioni dovranno dettarsi per disciplinare le condizioni e i limiti della partecipazione a squadre investigative comuni operanti nel territorio dello Stato dei rappresentanti delle autorità di altri Stati, nonché di rappresentanti di organizzazioni internazionali e organismi istituiti nell’ambito dell’Unione europea e di esperti con funzioni di assistenza.

31. (Segue): l’estradizione

All’esito di un dibattito alimentato anche dal contributo di proposte ed esperienze acquisito attraverso le audizioni di studiosi e di magistrati della Corte di cassazione, della Procura generale presso la medesima corte e di quella presso la corte d’appello di Roma, la Commissione è giunta ad elaborare le direttrici di riforma di una materia in sé assai delicata, ma resa ancor più complessa dalla necessità di raffronto comparativo con la procedura di esecuzione del mandato di arresto europeo prevista ai medesimi fini nei rapporti con altri Stati membri dell’Unione europea.
Sul presupposto della conservazione della tradizionale regola di esclusione della possibilità di estradizione di un imputato o di un condannato all’estero senza garanzia giurisdizionale (salvo a considerare l’esigenza di disciplinare forme procedurali semplificate in caso di consenso dell’avente diritto) si è innanzitutto riconosciuta l’esigenza di valorizzare la dimensione di effettività di quella medesima garanzia, in coerenza con un’obiettiva tendenza generale della giurisprudenza costituzionale e di legittimità, ad adeguare le forme di tutela processuale degli interessi che complessivamente sono coinvolti nelle procedure di estradizione al rango della protezione ad essi accordata dall’ordinamento.
Nell’enucleazione delle direttive in tema di estradizione per l’estero, tale generale esigenza si è tradotta innanzitutto nella scelta di escludere ogni residua incidenza dell’autorità politica nelle procedure in materia di liberta personale finalizzate ad assicurare la consegna dell’imputato e del condannato all’estero.
Nel quadro di una più generale manovra di semplificazione ed accelerazione della relativa procedura, ma anche di rafforzamento delle garanzie difensive, si è modificata l’intera sequenza procedimentale dell’estradizione all’estero, prevedendosi:
- che la corte d’appello individuata in base a criteri predeterminati per legge predeterminata decida entro un termine, decorrente dalla richiesta del procuratore generale, prorogabile nei casi e nei modi previsti dalla legge, sulla base della documentazione trasmessa dal pubblico ministero e di quella depositata dalla difesa e dopo aver compiuto le attività di acquisizione informativa e gli accertamenti ritenuti necessari (parallelamente, si è previsto l’obbligo per il procuratore generale di interrogare l’estradando, all’evidente fine di meglio assicurare la completezza degli accertamenti necessari in vista delle successive determinazioni, ma anche di consentire al medesimo estradando di poter predisporre la propria difesa fin dal primo contatto con l’autorità giudiziaria);
- meccanismi di interlocuzione diretta dell’autorità giudiziaria con le competenti autorità dello Stato richiedente a fini di acquisizione informativa;
- che il procedimento dinanzi alla corte d’appello si svolga alla presenza necessaria del procuratore, del difensore e di quella eventuale del rappresentante dello Stato richiedente, nel rispetto del principio del contraddittorio;
- che, su richiesta del procuratore generale, la corte possa disporre la custodia cautelare in carcere dell’estradando che si trovi in libertà al momento della concessione dell’estradizione e il sequestro del corpo del reato e delle cose pertinenti al reato;
- che anche nel caso di estradizione convenzionale sia sempre necessario il vaglio giudiziale del quadro indiziario posto a base della domanda di estradizione (salvo, ovviamente, che questa sia richiesta nei riguardi di persona condannata in via definitiva);
- che in caso di diniego dell’estradizione la corte, anche d’ufficio, revochi le misure cautelari già applicate e provveda sulle richieste di restituzione delle cose in sequestro;
- la fissazione di termini massimi di durata della custodia cautelare a fini estradizionali, da applicarsi anche in caso di sospensione dell’esecuzione dell’estradizione;
- che alla garanzia della specialità dell’estradizione, salvo che norme convenzionali non lo escludano, la persona estradata possa rinunziare, dopo la consegna, solo mediante dichiarazione raccolta dal giudice (ciò che il legislatore delegato potrebbe disciplinare secondo uno schema che contempli: prima dell’esercizio dell’azione penale, l’intervento del giudice per le indagini preliminari competente; dopo quel momento, l’intervento del giudice procedente, durante la pendenza del ricorso per cassazione, quello del giudice che ha emesso la sentenza impugnata e quando la sentenza è irrevocabile, del giudice dell’esecuzione), anche in tal caso dovendosi applicare la regola generale secondo la quale il consenso validamente prestato allo svolgimento di una procedura di cooperazione giudiziaria è da considerarsi irrevocabile, salvo che l’interessato provi di aver ignorato senza colpa circostanze determinanti del consenso.
Soprattutto, la Commissione ha ritenuto di condividere la proposta di differenziare le aree di esercizio delle concorrenti potestà dell’autorità politica e dell’autorità giudiziaria, sì da evitare la sovrapposizione di valutazioni riferite ai medesimi parametri.
A quest’ultima si è scelto di riservare il sindacato dei motivi di rifiuto connessi alla lesione di diritti fondamentali della persona, alla sussistenza nella sentenza per l’esecuzione della quale è stata richiesta l’estradizione di disposizioni contrarie ai principi fondamentali dell’ordinamento, al pericolo di sottoposizione ad atti persecutori o discriminatori per motivi di razza, religione, sesso, nazionalità, lingua, opinioni politiche, condizioni personali o sociali ovvero a pene e trattamenti crudeli, disumani o degradanti o comunque ad atti che configurano violazione dei diritti fondamentali della persona.
Alla prima invece il vaglio, oltre che dell’effettiva tenuta della condizione di reciprocità nel caso nel quale sia richiesta l’estradizione del cittadino, del complesso delle circostanze fattuali riconducibili alla sfera delle valutazioni tipicamente politiche dell’incidenza dell’estradizione sulla sorte degli interessi essenziali dello Stato, in primis di quello della sicurezza.
Va altresì sottolineato che la Commissione ha ritenuto di accogliere l’idea che la funzione di filtro politico riservata al ministro debba potersi esaurire prima dell’avvio della procedura giurisdizionale, attraverso la decisione di dare o meno corso all’estradizione, ricollegandosi l’effetto della consegna ad una fattispecie a formazione progressiva il perfezionamento della quale interviene con l’adozione di una pronuncia giudiziale non più soggetta ad impugnazione (nulla, peraltro, impedirebbe di considerare nell’attuazione della delega l’esigenza di prevedere opportune e in taluni casi necessarie forme di intervento nelle procedure esecutive dell’autorità amministrativa).
Ne conseguirebbe l’effetto aggiuntivo di porre al riparo l’effettività degli obblighi di cooperazione assunti dallo Stato dal rischio di pratico svuotamento che attualmente in fatto talvolta consegue alla riconosciuta potestà del giudice amministrativo di sindacare la legittimità del decreto di estradizione e di sospenderne in via cautelare l’esecuzione, con conseguente impossibilità di assicurare la consegna dell’estradando in caso di successivo rigetto del ricorso.
Conservandosi l’attuale struttura del procedimento, viceversa, sarebbe inevitabile, a protezione della garanzia di serietà dell’offerta di cooperazione anticrimine della Repubblica, prevedere regole speciali per garantire il contenimento dei tempi di svolgimento del sindacato del giudice amministrativo, e, in particolare, dell’efficacia di provvedimenti cautelari non seguiti in tempi compatibili con le finalità della procedura di estradizione dalla conclusione del giudizio di cognizione piena.
Rilevanti innovazioni sono proposte anche con riguardo alla procedura di estradizione dall’estero.
Innanzitutto, attraverso l’esplicita attribuzione al ministro della giustizia di un potere di blocco, definitivo o temporaneo, delle procedure estradizione avviate su richiesta dell’autorità giudiziaria finalizzato alla tutela di interessi supremi della Repubblica, ma limitato quanto alle forme di esercizio dalla previsione di un termine di esercizio e dall’obbligo di darne comunicazione all’autorità giudiziaria.
In secondo luogo, introducendosi una regolazione degli effetti processuali del principio della specialità in grado di coniugare la massima portata espansiva di quella fondamentale garanzia di civiltà giuridica con l’esigenza di pienezza dell’esercizio della funzione giurisdizionale compatibile con l’attuazione del medesimo principio.
In particolare, l’esigenza di superare le tensioni interpretative che continuano a segnare l’approccio giurisprudenziale ai cruciali nodi problematici posti ruotanti attorno all’applicazione sul versante attivo dell’estradizione del principio in parola, ha spinto la commissione a prevedere che il principio di specialità operi come causa di sospensione del procedimento e dell’esecuzione della pena, così aprendosi la strada non soltanto all’assunzione di prove urgenti e comunque non rinviabili (ciò che è ammesso anche sul diverso presupposto che la specialità operi come causa di improcedibilità), nonché di quelle che comunque possono condurre al proscioglimento dell’imputato, ma alla possibilità di prevedere che, ai soli fini della richiesta di estensione dell’estradizione, possa essere emessa un’ordinanza che dispone la custodia cautelare, la cui esecuzione resti sospesa fino alla concessione dell’estradizione suppletiva e debba essere revocata nel caso di rifiuto della stessa, sì da evitare che l’osservanza scrupolosa della garanzia di specialità si traduca nella pratica quanto definitiva interdizione della funzione giurisdizionale, in fatto impedendosi di giungere alla formazione di un titolo idoneo alla presentazione di una domanda di estradizione suppletiva, così come imposto dalla medesima logica di garanzia.
La ricostruzione accolta dalla Commissione, così come sottolineato dalla dottrina alla quale si deve la sua elaborazione, si pone sostanzialmente in linea con le disposizioni di diritto internazionale convenzionale, la cui ratio, al di là delle varie e diversificate formulazioni, è sì quella di impedire che si proceda per un fatto anteriore e diverso, ma nello stesso tempo consente di ripudiare una sorta di implicita adesione ad una visione frazionata e dunque parziale del principio di specialità, il quale non è soltanto divieto di procedere per il fatto anteriore e diverso, ma è anche quella di garantire la possibilità di estensione dell’estradizione e di purgazione della stessa, sì che l’osservanza della regola di specialità non può prescindere dalla contestuale considerazione anche delle cause di caducazione dei relativi effetti, le quali pure contribuiscono a definire la natura e la funzione del principio in parola.
L’idea della specialità come causa di sospensione assicura inoltre il vantaggio di potersi applicare coerentemente sia al processo che all’esecuzione della pena (diversamente dall’idea di improcedibilità, del tutto inidonee a spiegare l’effetto della specialità nell’estradizione fondata su titolo di condanna definitivo), nonché quello di determinare la sospensione della prescrizione senza bisogno di adottare misure per interromperne il decorso.
Le ragioni anzidette contribuiscono altresì a dar conto della scelta di uniformare alle anzidette linee di disciplina anche la considerazione degli effetti della specialità nelle procedure di esecuzione all’estero di mandati di arresto probatorio, in ciò individuandosi un profilo di una più ampia esigenza di rimozione delle divaricazioni della disciplina dell’uno e dell’altro degli istituti finalizzati alla consegna della persona non imposte né giustificate dalla diversità dei relativi principi informatori.
L’esigenza di cristallizzazione normativa degli esiti positivi di un lungo e non sempre lineare percorso giurisprudenziale è poi alla base della direttiva che prescrive che la custodia cautelare sofferta all’estero ai fini dell’estradizione sia computata ad ogni effetto processuale previsto dalla legge italiana.
Obiettive istanze di equità impongono infine di prevedere la riparazione per l’ingiusta detenzione sofferta all’estero a fini estradizionali.

32. (Segue): il riconoscimento di sentenze penali di altri Stati ed esecuzione all’estero di sentenze penali italiane

La materia appare destinata a non subire rilevanti modificazioni, salvo a considerarsi, come si è già sottolineato, gli effetti dell’attrazione nella sfera di disciplina dell’assistenza giudiziaria delle attività prodomiche all’esecuzione all’estero ovvero nel territorio dello Stato di provvedimenti di confisca e l’erosione applicativa delle tradizionali regole codicistiche che può prefigurarsi nella prospettiva della progressiva attuazione del principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie nei rapporti tra Stati membri dell’Unione europea.
Peraltro, sull’applicazione della relativa disciplina sono destinate a riflettersi le scelte che sul piano della riforma del sistema di diritto penale sostanziale devono compiersi quanto all’individuazione dei fini da considerarsi obbligatoriamente per l’attivazione di una procedura di riconoscimento, nonché una più generale opzione di valorizzazione del ruolo di concentrazione informativa tipicamente da affidarsi all’autorità amministrativa centrale.

33. (Segue): l’attuazione del principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie nei rapporti con gli altri Stati membri dell’Unione europea

Si tratta delle direttive destinate ad inserire nel codice di rito penale, nell’ambito della futura partizione corrispondente all’attuale XI Libro, un autonomo titolo contenente i principi guida del complesso processo di adattamento normativo necessario per dare attuazione al principio ormai prescelto come modello privilegiato di organizzazione normativa della cooperazione tra Stati membri dell’Unione europea.
Tale nucleo fondamentale di disciplina (gli elementi costituivi del quale si prevede che siano destinati a prevalere sulle fonti normative di pari grado che non introducano deroghe espresse, sì da configurarsi una sorta di “riserva di codice”) si è individuato allo scopo di assicurare unitarietà e coerenza di indirizzo alla produzione normativa finalizzata all’adeguamento del sistema processuale agli obblighi già assunti (in tema di esecuzione di ordini di blocco di beni e di sequestro probatorio, di ordini di confisca di beni, strumenti e proventi del reato, di provvedimenti di imposizione di sanzioni pecuniarie)ovvero da assumersi al termine delle negoziazioni intergovernative attualmente in corso (come nel caso della decisione quadro in preparazione sul cd. mandato probatorio europeo).
Si è, in altri termini, accolta l’idea che se la sede di specifica regolamentazione dei singoli apparati di adattamento normativo interno non può che continuare a ritrovarsi in leggi speciali, il codice debba apprestare un nucleo comune di fondamentali regole procedurali, in sé coerenti alle regole accolte nel sistema di cooperazione fra Stati dell’Unione europea nella prospettiva della progressiva attuazione del principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie e destinate ad applicarsi salvo il caso di espressa, successiva deroga legislativa.
L’enunciazione di un nucleo di regole fondamentali di traduzione interna del principio del mutuo riconoscimento, così come allo stato delineatosi in ambito europeo, non potrà, naturalmente, non riflettersi anche sulla applicazione della disciplina di attuazione Decisione quadro 2002/584/GAI del 13 giugno 2002 sulla esecuzione del mandato d’arresto europeo introdotta con la legge n. 69 del 2005, in relazione a numerosi e non secondari profili di divaricazione dei contenuti di questa dagli obiettivi indicati dall’Unione europea che, ove non suscettivi di adeguata riduzione, dovranno considerarsi nella prospettiva di una speciale manovra di correzione ed integrazione legislativa le linee essenziali della quale sin da ora la Commissione ritiene di poter individuare con riguardo:
a) al ruolo conservato all’autorità centrale nel quadro di relazioni (di trasmissione, corrispondenza, interlocuzione, reciproca informazione) che la decisione quadro dell’Unione vuole invece riservate alle autorità giudiziarie, ancorché la logica di un’integrale “depoliticizzazione” della materia non possa spingersi sino al punto di escludere il pieno e tempestivo coinvolgimento informativo dell’autorità centrale e a non tener conto che soltanto all’autorità politica può riconoscersi un effettivo ruolo di garanzia dell’osservanza delle condizioni eventualmente richieste in casi particolari per l’esecuzione all’estero o nel territorio dello Stato della decisione della quale è stato chiesto il riconoscimento; pur con tali limiti, tuttavia, è evidente la necessità di prevedere che i mandati d’arresto europei possano essere trasmessi dagli Stati di emissione direttamente all’autorità giudiziaria territorialmente competente per l’esecuzione, che l’autorità giudiziaria possa trasmettere i mandati di arresto europei direttamente allo Stato di esecuzione, che l’autorità giudiziaria possa direttamente corrispondere con le autorità degli altri Stati dell’Unione anche ai fini della trasmissione della documentazione e degli accertamenti integrativi e delle ulteriori informazioni che siano eventualmente necessari all’esecuzione del mandato d’arresto (ovvero per dare diretta comunicazione della sospensione o del rinvio dell’esecuzione della consegna o concordare una nuova data di consegna);
b) alla necessità accolta sul piano sopranazionale di prevedere che l’autorità giudiziaria possa dare esecuzione al mandato d’arresto europeo anche nel caso in cui il fatto non sia previsto come reato dalla legge nazionale nelle ipotesi previste dall’art. 2, § 2 della già menzionata decisione quadro del 13 giugno 2002 (e sempre che il massimo della pena o della misura privativa della libertà personale sia non inferiore a tre anni), ripudiando qualsiasi forma di aggiramento del divieto di far ricorso alla clausola di doppia incriminazione (come attualmente invece realizzano le previsioni che tipizzano in una prospettiva interna le trentadue categorie delittuose contemplate dalla norma sopra richiamata, ovvero quelle che danno rilevanza alla mancata conoscenza della norma incriminatrice dello Stato di emissione da parte del cittadino o della persona residente nel territorio dello Stato dei quali sia stata chiesta la consegna o prescrivono forme di sindacato del merito del provvedimento posto alla base della richiesta di consegna ovvero ancora subordino l’esecuzione del mandato alla condizione che la persona della quale è chiesta la consegna non abbia agito in presenza di cause di giustificazione);
c) all’irrinunciabile esigenza di disegnare la successione temporale delle sequenze del procedimento in modo compatibile con l’obbligo di assicurare la consegna nel termine massimo di novanta giorni dalla ricezione del mandato, essendo invece quella attualmente prevista statutariamente indifferente agli obiettivi di tempestività della collaborazione indicati dalla decisione quadro del 13 giugno 2002. In coerenza con il sistema di regole individuato dalla già richiamata Convenzione integrativa del 29 maggio 2000, è poi previsto l’abbandono della clausola di doppia incriminazione al fine dell’esecuzione delle domande presentate da autorità di Stati membri dell’Unione europea.

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