La rassegna di dottrina e giurisprudenza del Corso nazionale di formazione specialistica dell'avvocato penalista organizzato dall'Unione delle Camere penali italiane in collaborazione con il Centro per la formazione e l'aggiornamento professionale degli avvocati del Consiglio Nazionale Forense.

19 dicembre 2007

Sezioni Unite, Sentenza n.46982, udienza del 25/10/2007 - deposito del 18/12/2007 .

da www.cortedicassazione.it

DELITTI CONTRO LA FEDE PUBBLICA –PLURIOFFENSIVITA’ – CONSEGUENZE –RICHIESTA DI ARCHIVIAZIONE – OPPOSIZIONE - LEGITTIMAZIONE

Le Sezioni unite, sulla premessa che ai delitti contro la fede pubblica debba riconoscersi, oltre che il requisito dell’offesa alla fiducia collettiva in determinati atti, anche una ulteriore e potenziale attitudine offensiva in riguardo alla concreta incidenza nella sfera giuridica di un soggetto, hanno statuito il principio secondo cui il soggetto sulla cui posizione giuridica l’atto incide direttamente è legittimato a proporre opposizione contro la richiesta di archiviazione.

Testo Completo:
Sentenza n. 46982 del 25 ottobre 2007 - depositata il 18 dicembre 2007

(Sezioni Unite Penali. Presidente M. Battisti, Relatore V. Romis)

Osserva:

1 - Il 26 aprile 2005 veniva depositato, nell’interesse della S.M.I. – San Marino Investimenti S.A., il cui rappresentante legale era Pasquini Enrico Maria, un esposto-denuncia contro ignoti, con richiesta di sequestro, per un’ipotesi di reato di falso relativo all’intestazione di un pacchetto azionario della s.p.a. Lualex (il 95%, con valore nominale pari a 490.634,05 euro), controversa tra la stessa S.A. S.M.I. e Bozzo Ferdinando. Il P.M. presso il Tribunale di Milano non riteneva di disporre il sequestro e, all’esito delle indagini svolte, avanzava al G.I.P. richiesta di archiviazione del procedimento. Con atto depositato il 9 febbraio 2006 il difensore del legale rappresentante della denunciante S.M.I. S.A. presentava opposizione alla richiesta di archiviazione ex art. 410, comma primo, del codice di procedura penale, sull’asserito rilievo della lacunosità delle indagini, rappresentando la necessità di acquisizioni documentali, assumendo in particolare che la S.M.I. nell’esposto-denuncia aveva precisato di non aver mai sottoscritto un documento per il trasferimento a chicchessia delle azione della Lualex, ad essa S.M.I. fiduciariamente intestate.

Il G.I.P. del Tribunale di Milano, accogliendo la richiesta formulata dal P.M., disponeva, con provvedimento “de plano” in data 22 giugno 2006, l’archiviazione del procedimento

2 - Ha proposto ricorso per cassazione (deducendo che l’archiviazione “de plano” può essere disposta solo quando l’opposizione sia inammissibile e la notizia di reato risulti infondata) il denunziante Pasquini Enrico Maria – nella sua veste di legale rappresentante della S.M.I. S.A. - il quale ha sostenuto la illegittimità della mancata fissazione dell’udienza camerale in presenza di tempestivo atto di opposizione, denunciando altresì vizio di mancanza di motivazione avendo il G.I.P. adottato un prestampato contenente mere formule di stile, nulla argomentando circa la ritenuta inutilità dell’ulteriore attività di indagine richiesta, nonchè relativamente all’inammissibilità dell’opposizione o l’infondatezza della “notitia criminis”.

Il Procuratore Generale presso questa Corte, con la sua requisitoria scritta, ha sollecitato declaratoria di inammissibilità del gravame, richiamando, a sostegno della propria richiesta, il principio di diritto così enunciato dalla Quinta Sezione di questa Corte con la sentenza n. 13 del 25 ottobre 2005-3 gennaio 2006 (P.O. in proc. c/ ignoti): “in tema di delitti contro la fede pubblica il denunciante-danneggiato non ha diritto a ricevere l’avviso della richiesta di archiviazione nè ad opporsi all’archiviazione medesima nè ad intervenire nell’eventuale camera di consiglio: trattasi infatti di reati che offendono direttamente e specificamente l’interesse pubblico – ossia la fiducia nella genuinità materiale e nella veridicità di determinati documenti – e solo mediatamente e di riflesso ledono l’interesse del singolo il quale, pertanto, non riveste la qualità di persona offesa ma semplicemente di danneggiato. Ne consegue che il privato denunziante il quale assuma di essere danneggiato da un reato di falso in atto pubblico non è legittimato a proporre ricorso in cassazione avverso il decreto di archiviazione emesso dal G.I.P.”.

Il difensore del ricorrente ha quindi depositato memoria ex art. 611 c.p.p. finalizzata a contrastare le argomentazioni svolte dal Procuratore Generale nella requisitoria con la quale, come sopra ricordato, è stata sollecitata declaratoria di inammissibilità del gravame. Con tale memoria, in particolare, il ricorrente ha sostenuto il carattere di plurioffensività del delitto di falso in esame, da cui deriverebbe un rapporto di connessione funzionale, come tale tutelabile, tra la tutela generale della fede pubblica e quella particolare di uno specifico interesse; a sostegno della propria tesi il ricorrente così testualmente si è espresso: “limitare l’individuazione del bene giuridico protetto alla sola fede pubblica non sembra sufficiente a determinare il disvalore del falso; infatti è la connessione della fede pubblica all’interesse pregiudicato di volta in volta dall’utilizzo dello specifico documento, che può rendere concreto e aderente alla singola vicenda il valore, indubbiamente astratto e di portata generale, quale è appunto quello della fede pubblica” (pag. 2 della memoria)

3 - Il procedimento è stato assegnato alla V Sezione penale di questa Suprema Corte, la quale, con ordinanza del 30 maggio 2007 (depositata il 22 giugno 2007), ne ha disposto la rimessione a queste Sezioni Unite, ai sensi dell’art. 618 c.p.p.. Ha infatti rilevato la sezione remittente che in ordine al motivo di doglianza, concernente la prospettata illegittimità della mancata fissazione dell’udienza camerale in presenza di tempestivo e formale atto di opposizione alla richiesta di archiviazione del P.M. in materia di reato di falso, si è determinato un contrasto nella giurisprudenza di legittimità: ed invero, mentre alcune decisioni, muovendo dal presupposto della natura plurioffensiva del reato, hanno concluso per il riconoscimento al denunciante della veste di persona offesa – con conseguente diritto di ricevere l’avviso previsto dall’art. 408, comma secondo, del codice di rito, e proporre quindi opposizione alla richiesta di archiviazione del P.M. – altre si sono espresse in senso contrario.

Il Primo Presidente ha fissato l’udienza del 25 ottobre 2007 di camera di consiglio per la discussione del gravame.

La questione sottoposta all’esame di queste Sezioni Unite può così sintetizzarsi: se i delitti contro la fede pubblica tutelino l’interesse pubblico e solo di riflesso l’interesse del singolo al quale, di conseguenza, non verrebbe riconosciuta la qualità di persona offesa, oppure, in quanto reati plurioffensivi, tutelino anche la sfera giuridica del soggetto (denunciante-danneggiato) nei cui confronti il documento o la falsa dichiarazione vengano fatti valere, soggetto che, in tal caso, sarebbe legittimato a proporre opposizione contro la richiesta di archiviazione.

Su detta questione, come richiamato dall’ordinanza di rimessione, è insorto un contrasto nella giurisprudenza delle sezioni semplici di questa Suprema Corte, ed in particolare anche all’interno della stessa Quinta Sezione alla quale, secondo la previsione tabellare, spetta la competenza a decidere i ricorsi in materia di reati di falso.

4.1- Un primo indirizzo interpretativo è seguìto da coloro i quali ritengono che il bene giuridico protetto nelle falsità documentali sia la fede pubblica e in essa si esaurisca: i sostenitori di tale tesi escludono, dunque, che al privato danneggiato dal reato spetti l'avviso della richiesta di archiviazione e la legittimazione a proporre opposizione. In questi termini si esprime la decisione Della Gatta (ordinanza, Sez. V, 27 marzo 2001, p.o. in proc. Della Gatta, dep. 13 luglio 2001, n. 28608, rv. 219639), la quale - premesso che l'opposizione alla richiesta di archiviazione compete unicamente alla persona offesa, che deve essere identificata nel titolare del bene giuridico immediatamente leso dal reato - afferma quanto segue: "poiché l'elemento del danno è del tutto estraneo alla struttura dei reati di falso (la cui obbiettività giuridica consiste nella tutela della genuinità materiale e nella veridicità ideologica di determinati documenti), il privato, anche se - in concreto - risulti ingiustamente danneggiato dalla condotta dell'indagato, non è legittimato alla proposizione del ricorso per cassazione avverso l'ordinanza di archiviazione". Detto principio muove dal presupposto che "per il perfezionarsi del reato è sufficiente il mero pericolo che dalla contraffazione o dall'alterazione possa derivare alla pubblica fede, che è l'unico bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice". Analogamente la sentenza Saccucci (Sez. V, 18 ottobre 2002, dep. il 29 novembre 2002, rv. 222981), per la quale "il denunziante-danneggiato non è legittimato a ricevere l'avviso della richiesta di archiviazione....in quanto si tratta di reati che offendono direttamente e specificamente l'interesse pubblico - costituito dalla fiducia che la società ripone su oggetti, segni e forme esteriori ai quali l'ordinamento riconosce particolare credito - e solo mediatamente e di riflesso ledono l'interesse del singolo il quale, pertanto, non riveste la qualità di persona offesa dal reato". Argomentazioni che sostengono anche le conclusioni della sentenza Cucullo (Sez. V, 16 marzo 2004, dep. il 22 giugno 2004, n. 27967, rv. 228891), per la quale i delitti contro la fede pubblica offendono direttamente l'interesse pubblico costituito dalla fiducia che la società ripone su oggetti, segni e forme esteriori ai quali l'ordinamento riconosce particolare credito e solo di riflesso ledono l'interesse del singolo, il quale, pertanto, non riveste la qualità di persona offesa dal reato: ergo, il denunziante-danneggiato non è legittimato a ricevere l'avviso della richiesta di archiviazione; dette argomentazioni sono altresì proprie della sentenza Zaccaria (Sez. V, 19 settembre 2005, p. o. in proc. Zaccaria, dep. il 16 dicembre 2005, rv. 233208), della sentenza Erdas (Sez. V, 17 febbraio 2005, dep. il 24 marzo 2005, n. 11669, rv. 231497), della sentenza della V Sezione n. 13 del 3 gennaio 2006 (p.o. in proc. ignoti, rv. 232614), della sentenza Scarano (Sez. V, 19 settembre 2005, p.o. in proc. Scarano, dep. il 16 dicembre 2005, rv. 233204). In senso analogo si esprime anche la sentenza Reggiani (Sez. V, 15 gennaio 2007, dep. 9 febbraio 2007, rv. 235864), la quale, in tema di falso in testamento olografo, afferma che nei delitti contro la fede pubblica “deve comunque ritenersi che, solo quando si tratti di reati non perseguibili d’ufficio, il riconoscimento della legittimazione a proporre la querela possa comportare l’equiparazione del danneggiato alla persona offesa anche ai fini processuali”: conseguentemente, stante la procedibilità d’ufficio, viene esclusa la legittimazione del danneggiato, costituito parte civile, a proporre ricorso per cassazione avverso la sentenza di non luogo a procedere, che la legge attribuisce solo alla persona offesa costituita parte civile.

Alla base di questo orientamento vi è, dunque, la nozione di fede pubblica come bene immateriale a carattere collettivo che fa capo all'intera collettività non personificata, a tutti i cittadini ed a ciascuno non uti singulus ma uti civis: il danno sociale del falso si concreta e si manifesta esclusivamente nella c.d. immutatio veri mentre nessun rilievo, ai fini della sua illiceità, ha l'interesse del soggetto danneggiato in concreto dal falso, il quale non essendo titolare dell'interesse protetto dalla norma incriminatrice, non è, con riferimento al problema che in questa sede rileva, persona offesa dal reato e, pertanto, non è legittimato a proporre opposizione alla richiesta di archiviazione.

4.2- Le conclusioni appena esposte non sono condivise da un diverso indirizzo interpretativo, il quale appare orientato a recuperare le fattispecie di falso ad una dimensione di "dannosità". In questo filone si inserisce la sentenza Arnoldi (Sez. V, 12 marzo 2001, p.o. in proc. Arnoldi, dep. il 20 giugno 2001, rv. 219472), la quale afferma che nei delitti contro la fede pubblica, la facoltà di proporre opposizione alla richiesta di archiviazione "può competere anche al denunziante". E ciò in quanto si tratta di reati idonei "a ledere anche la sfera giuridica dei soggetti nei cui confronti l'atto, il documento o la falsa dichiarazione vengono fatti valere", quindi reati aventi "carattere plurioffensivo, che li rende non assimilabili, sotto tale profilo, ai delitti contro l'amministrazione della giustizia", i quali integrano "fattispecie lesive dell'interesse della collettività al corretto procedere della giurisdizione, con la conseguenza che l'interesse del privato può assumere rilievo solo riflesso e mediato" (nella specie il denunciante, avendo scoperto una falsa firma recante il proprio nome e cognome su un modulo di adesione ad un partito politico, caratterizzato da una ben precisa denominazione, aveva presentato atto di denuncia-querela nei confronti dei responsabili territoriali di tale partito; la Suprema Corte ha annullato il decreto di archiviazione del G.I.P., sulla base del principio come enunciato). Nella stessa direzione si pone anche la decisione Moscato (Sez. V, 4 luglio 2005, p.o. in proc. Moscato ed altri, dep. 29 luglio 2005, n. 28712, rv. 232205), la quale afferma che nell'ipotesi in cui il reato di falso (nella specie quello di cui all'art. 479 cod. pen.), leda, oltre l'interesse pubblico, anche diritti soggettivi, il titolare di tali diritti è persona offesa dal falso, con la conseguenza che gli spettano, quale denunciante, le facoltà riconosciutegli nel procedimento penale in ordine alla richiesta di archiviazione ai sensi dell'art. 408, commi 2 e 3 cod. proc. pen.: nella concreta fattispecie si ipotizzava la falsità di un rapporto dei Carabinieri relativo ad un sinistro automobilistico, falsità – come poi affermato dalla Cassazione - che "si riflette sul diritto del ricorrente a non subire gli effetti (patrimoniali) di un evento asseritamente mai verificatosi”, con conseguente legittimazione del denunziante all'esercizio delle facoltà proprie della persona offesa nel procedimento archiviatorio (anche se poi il ricorso è stato dichiarato inammissibile per manifesta infondatezza, sul rilievo che i temi proposti con l'atto di opposizione erano risultati "palesemente estranei all'accertamento del reato di falso ex art. 479 cod. pen." e, quindi, privi dei requisiti tassativamente previsti dall'art. 410, comma 1, cod. proc. pen.", con la conseguente legittimità, nella concreta fattispecie, del provvedimento di archiviazione de plano adottato dal G.I.P.). In conformità si esprime poi la sentenza Ziino (Sez. V, 13 giugno 2006, p.o. in proc. Ziino, dep. l'11 settembre 2006, rv. 235146), la quale afferma che, nei delitti contro la fede pubblica, "la facoltà di proporre opposizione alla richiesta di archiviazione spetta anche al denunziante qualora, in relazione al caso concreto, si accerti che la falsità abbia leso anche la sfera giuridica dei soggetti nei cui confronti l'atto, il documento o la falsa dichiarazione vengono fatti valere, trattandosi di reati plurioffensivi". Più precisamente, la sentenza Ziino, premesso che l'interesse tutelato dal falso documentale è senz'altro la fede pubblica, afferma che "ciò non esclude che la falsa attestazione possa essere per sé direttamente pregiudizievole di un diritto del singolo, la qualcosa va stabilita in concreto". Con la conseguenza che "solo se la giustificazione del decreto de plano fosse stata espressamente e concretamente rapportata all'esclusione di qualità di parte offesa del denunciante, che aveva richiesto di essere avvisato della richiesta di archiviazione del P.M., per l'assenza di incidenza diretta sul suo diritto privato del falso ipotetico, si sarebbe potuto stabilire se il giudice aveva o non violato il suo diritto al contraddittorio, unica ragione che giustifica il ricorso in questa sede": in sostanza, il giudice ha deciso de plano senza previamente verificare se il denunciante, che aveva fatto richiesta ai sensi dell'art. 408, comma 2, cod. proc. pen., avesse realmente diritto all'avviso della richiesta di archiviazione, con conseguente annullamento del provvedimento impugnato. Alle medesime conclusioni perviene la sentenza Consolo (Sez. V, 15 gennaio 2004, dep. il 23 febbraio 2004, rv. 227939), la quale afferma che "il falso in atto pubblico, a seconda del suo tenore, può ledere la certezza di diritti soggettivi, oltre che l'interesse pubblico". Ne consegue che "se l'attestazione contraria al vero concerne un fatto che si connette direttamente ad un diritto soggettivo o al suo esercizio, il titolare del diritto è persona direttamente offesa dal reato cui spettano, quale denunciante, le facoltà riconosciutegli nel procedimento penale a fronte della richiesta di archiviazione del P.M.": nel caso portato all’esame della Suprema Corte, il falso ipotizzato riguardava la dichiarazione dell'atto pubblico che indicava la data di edificazione di una unità immobiliare cui era seguita la demolizione del manufatto, con danno per i muri portanti che interessavano la proprietà del denunziante; la Cassazione ha, quindi, dichiarato inammissibile il ricorso in quanto "nella specie il diritto del ricorrente non è oggetto dell'atto che si assume falsificato, che concerne esclusivamente la proprietà privata del denunciato e non quella del denunciante, laddove le conseguenze di danno nei confronti di quest'ultimo si dicono scaturite da un comportamento ulteriore (demolizioni che hanno pregiudicato parti comuni dell'edificio), sebbene trovi presupposto storico nel tenore dell'atto". Nel medesimo filone si colloca la sentenza Todesca (Sez. V, 5 novembre 2002, p.o. in proc. Todesca, dep. 10 dicembre 2002, n. 43703, rv. 223220), la quale - premesso che l’interesse giuridico protetto dai delitti di falsità in atti ha carattere plurioffensivo - afferma che “riveste la qualità di parte offesa il denunziante di un falso documentale, incidente, anche in via di pericolo, sul suo specifico diritto, con la conseguenza che anche nei suoi confronti il G.I.P. ......deve provvedere a fare notificare l’avviso dell’udienza preliminare” (nella fattispecie il giudice dell’udienza preliminare aveva dichiarato non luogo a procedere nei confronti di un funzionario del Provveditorato agli Studi, il quale aveva omesso ogni verifica su una nota pervenuta all’Ufficio, contenente la falsa attestazione della rinunzia di una docente all’immissione in ruolo per un determinato anno scolastico; la Suprema Corte ha ritenuto che il provvedimento adottato sulla base della falsa attestazione della avvenuta rinunzia alla immissione in ruolo compromettesse anche le effettive funzioni di verità e di certezza, relative alla posizione del docente di cui era stato falsificato l’atto, che derivavano dalla falsa documentazione). Nella stessa direzione è anche la sentenza Ongaro (Sez. V, 19 settembre p.o. in proc. Ongaro 2005, dep. il 22 novembre 2005, rv. 232442), la quale, in tema di commercio di prodotti con segni falsi, sostiene che “il titolare del marchio contraffatto è persona offesa dal reato posto che la norma di cui all’art. 474 cod. pen., oltre alla fede pubblica, tutela anche il diritto all’esclusiva del legittimo titolare: ne consegue che questi, nell’ipotesi di richiesta di archiviazione, ha diritto a ricevere l’avviso di cui all’art. 408 cod. proc. pen.”.

4.3- Come è agevole rilevare, i due orientamenti, appena illustrati, che hanno dato vita al contrasto che ha reso necessario l’intervento di queste Sezioni Unite, muovono dalla diversa interpretazione circa la natura dei delitti contro la fede pubblica ed il bene oggetto della tutela penale in materia: a) il primo indirizzo tende a privilegiare in maniera assoluta la valenza pubblicistica di detta tutela, con esclusivo riferimento alla fede pubblica quale esigenza dei cittadini di poter fare affidamento sulla genuinità e veridicità di atti e documenti che hanno rilevanza pubblica: di talchè l’interesse del privato rileverebbe solo di riflesso, con conseguente impossibilità, per lo stesso, di assumere la veste di parte offesa pur se, in ipotesi, concretamente danneggiato dalla falsità; b) viceversa, il secondo orientamento, pur confermando che nella fede pubblica deve individuarsi il bene primario oggetto di tutela, ritiene tuttavia che, non potendo prescindersi dalla relazione che intercorre tra l’atto non genuino ed il privato, sulla cui sfera giuridica la falsità vada in concreto ad incidere, dovrebbe riconoscersi ai delitti contro la fede pubblica natura plurioffensiva: con la conseguenza che al privato danneggiato da tale reato spetterebbero i diritti e le facoltà previsti per la parte offesa.

5 - Ritengono queste Sezioni Unite che, in presenza di un contrasto interpretativo così delineatosi, ai fini della risoluzione del contrasto stesso, pur relativo ad una questione di carattere processuale, debbano necessariamente prendersi in considerazione soprattutto profili di carattere sostanziale, con specifico riferimento alla natura dei delitti contro la fede pubblica. Ferma restando, evidentemente, la necessità di mantenere distinte le figure della persona danneggiata e della persona offesa dal reato, posto che il legislatore, secondo i casi, ha indicato l’una o l’altra, con l’attribuzione di un ruolo diverso, anche con riferimento a poteri e facoltà: di tal che, ai fini che in questa sede rilevano, con riferimento agli artt. 408 e segg. c.p.p., lo sforzo interpretativo deve riguardare esclusivamente la figura della persona offesa (in relazione ai delitti contro la fede pubblica).

Giova ricordare che il previgente codice Zanardelli risolveva, sul piano normativo, la questione, circa la offensività dei reati di falso, condizionando espressamente la punibilità delle falsità in atti pubblici (artt. 275, 276, 279, 283) e in atti privati (art. 280) alla circostanza che dalla falsificazione potesse "derivare pubblico o privato nocumento". Tale formula è stata poi soppressa nel codice Rocco, che sembrerebbe aver inteso incentrare la tutela su una "fede pubblica" da salvaguardare in modo assoluto: e ciò, malgrado il forte dissenso, pressochè unanime, della dottrina e giurisprudenza dell'epoca, e sebbene nella stessa Relazione ministeriale di accompagnamento al codice è dato leggere che tale omissione "non può assolutamente apparire in contrasto con le fonti e resta perfettamente vero che falsitas non punitur quae non solum non nocuit, sed non erat apta nocere". Tuttavia, nonostante questa indicativa affermazione di principio, circa l'ineludibile vaglio di idoneità offensiva cui dovrebbe essere condizionata la rilevanza penale del falso, per un verso l'assenza di un'espressa previsione sul danno, e, per altro verso, la definizione che nella succitata Relazione viene data della pubblica fede - come "fiducia che la società ripone negli oggetti, segni e forme esteriori (monete, emblemi e documenti) ai quali l'ordinamento giuridico attribuisce un valore importante" (ulteriormente precisata da un passaggio dei lavori preparatori, in cui si afferma che "non si può concepire falsità in atto pubblico che non abbia la possibilità di ledere quell'interesse sociale che si chiama pubblica fede": Lavori preparatori, IV, 373) - hanno forse incoraggiato, anche in sede applicativa, tendenze formalistiche.

E’ da ritenere che il contrasto di cui ci occupiamo non sarebbe mai sorto, se fosse stata adottata l'esplicita previsione sul danno contenuta nel Codice Zanardelli.

Nel vigente codice penale i delitti contro la fede pubblica trovano collocazione nel Titolo VII.

La fede pubblica – nel significato che emerge dalla Relazione al progetto definitivo del codice pe¬nale, cui si è appena fatto cenno - costituisce dunque un vero e proprio bene giuridico, ancorchè di natura immateriale e collettiva, dotato di una sua autonomia, tutelato dai delitti in argomento con riferimento alla certezza ed alla speditezza del traffico economico e giuridico.

Così definita la nozione di fede pubblica, da tutti unanimemente condivisa anche in dottrina, da più parti è stato tuttavia fatto rilevare come in realtà il falso non risulti quasi mai fine a se stesso, costituendo, il più delle volte, solo il mezzo per conseguire altro obiettivo che costituisce il vero scopo rispetto alla “immutatio veri”. Ed è stato quindi sottolineato che, se il perseguimento di tale fine si riflette in modo incisivo sulla sfera giuridica di un soggetto, non è possibile ignorare, sul piano giuridico, tale ulteriore conseguenza, e non consentire, al soggetto che quella “immutatio veri” ha concretamente subìto, di dialogare nel processo con una veste qualificata.

6 - Tutto ciò premesso, ritengono queste Sezioni Unite che ai delitti contro la fede pubblica debba riconoscersi, oltre ad un’offesa alla fiducia che la collettività ripone in determinati atti, simboli, documenti, etc. – bene oggetto, senza dubbio, di primaria tutela dei delitti in argomento - anche una ulteriore e potenziale attitudine offensiva, che può rivelarsi poi concreta in presenza di determinati presupposti avuto riguardo alla reale e diretta incidenza del falso sulla sfera giuridica di un soggetto il quale, in tal caso, è di conseguenza legittimato a proporre opposizione contro la richiesta di archiviazione.

Molteplici sono gli argomenti che sorreggono e confortano l’individuazione del bene protetto dai delitti contro la fede pubblica – con riferimento al principio di offensività – nei termini così precisati.

6.1 - Quanto ai profili di natura sostanziale, meritano attenzione, ai fini che qui interessano, e sotto differenti aspetti, le categorie del falso grossolano e del falso innocuo.

Il falso grossolano è quello che si presenta così evidente da risultare inidoneo ad ingannare chicchessia: il che dovrebbe essere sufficiente a farlo considerare inoffensivo, a prescindere, cioè, da qualsiasi altra valutazione circa la sua eventuale idoneità a porre in pericolo anche ulteriori interessi. Nella prassi giudiziaria, laddove la falsità risulti macroscopica, ed “ictu oculi” percepibile, il fatto viene di regola considerato penalmente irrilevante (Sez. 5, n. 11498/90, imp. Casarola, RV. 185132) proprio perché in¬capace di ingenerare errore nei terzi, circa l'affidabilità del documento (o del segno, ecc.): in detta ipotesi, per la valutazione di inoffensività del fatto, è evidentemente sufficiente, dunque, considerare il bene giuridico rappresentato dalla pubblica fede.

In estrema sintesi, può qualificarsi come falso grossolano il falso inoffensivo rispetto al bene "fede pubblica", proprio per l'inidoneità dello stesso a trarre in inganno la collettività; inidoneità che, derivando dalle modalità della falsificazione – prevalentemente di natura materiale - comporta una valutazione giudiziale in punto di fatto.

Si parla, invece, di falso innocuo, per indicare - in generale - il falso che risulti "inoffensivo per la concreta inidoneità ad aggredire gli in¬teressi da esso potenzialmente minacciati" (così come precisato da autorevole esponente della dottrina): con conseguente necessità, per l'interprete, di un accerta¬mento in concreto, in relazione alle peculiarità del singolo caso, onde verificare i possibili effetti della falsità con riferimento a quella deter¬minata situazione giuridica interessata dalla falsità. Un falso - pur astrattamente idoneo ad ingannare il pubblico – rivelatosi però privo di qualsiasi concreta incidenza sulla sfera giuridica di chicchessia, dovrebbe essere valutato penalmente irrilevante, così come affermato in giurisprudenza (Sez. 5, n. 7875/87, imp. Dell’Acqua, rv. 176302; Sez. 5, n. 421/07, imp. Scaricabarozzi, rv. 206630) e sostenuto in dottrina: e non mancano Autori secondo i quali il falso innocuo rappresenta una cate¬goria più estesa del falso grossolano, in quanto comprensiva non solo di quest'ul¬timo, ma anche di tutte le falsità incapaci di nuocere a qualsiasi soggetto.

In sostanza, il falso innocuo può definirsi tale in due diversi significati.

In senso lato, il falso innocuo abbraccia anche il falso grosso¬lano, non potendo certo ipotizzarsi un falso grossolano che non sia nel contempo anche innocuo.

Può parlarsi di falso innocuo in senso stretto, ove si voglia considerare la sua inoffensività non con riferimento al bene "fede pubblica", bensì in relazione ad un interesse ulteriore e connesso, tutelato dalla singola fattispecie incriminatrice ove alla stessa si riconosca natura plurioffensiva: l'innocuità del falso, cioè, può risultare anche al di fuori delle ipotesi di falso grossolano, nel caso in cui risulti esclusa - in forza di una valutazione giudiziale in punto di di¬ritto, questa volta, e non di fatto - l'effettiva e concreta esposizione a pericolo di quei beni ulteriori rispetto alla fede pubblica, che, per i sostenitori della tesi della plurioffensività, si assumono oggetto di tutela da parte delle fatti¬specie “de quibus”.

La nozione di falso innocuo, in particolare, sembra dunque confortare l’indirizzo interpretativo – che, come sopra anticipato, queste Sezioni Unite ritengono condivisibile – secondo cui ai delitti contro la fede pubblica deve riconoscersi, in primo luogo e soprattutto, un’offesa alla fiducia che la collettività ripone nella genuinità ed autenticità di atti e documenti di rilevanza pubblica, ma, altresì, una ulteriore, e potenziale, attitudine offensiva che può concretizzarsi nei confronti di una determinata situazione giuridica.

6.2 - Un punto di rottura con una visione formalistica, ed assolutamente pubblicistica, dei delitti contro la fede pubblica, è sicuramente rappresentato dall’importante innovazione normativa costituita dall’art. 493 bis cod. pen. – introdotto dall’art. 89 della legge 24 novembre 1981, n. 689 – che ha subordinato al regime della perseguibilità a querela della persona offesa la punibilità delle ipotesi di falso in atti privati di cui agli articoli 485, 486, 488, 489 e 490 cod. pen. (si procede tuttavia di ufficio se i fatti riguardano un testamento olografo). L’introduzione della procedibilità a querela - che rappresenta la tipica espressione della disponibilità individuale delle conseguenze anche sanzionatorie della lesione dell’interesse protetto – ha fatto emergere la lesività di tipo privatistico sottostante ai reati di falso, segnando un rafforzamento della teoria della plurioffensività. Commentando tale novella legislativa, in dottrina fu subito evidenziato che si trattava di una previsione di “notevole importanza sul piano ricostruttivo” e che ad essa andava “riconosciuto non tanto il merito di avere definitivamente sepolto l’aspirazione ad una generalizzazione pubblicistica dell’interesse tutelato, che fosse idonea a fondare l’unità delle categorie delle falsità documentali (già da tempo abbandonata assieme al concetto di pubblica fede), quanto piuttosto quello…..di avere formalizzato attraverso l’introduzione della perseguibilità a querela l’identificazione dell’offesa per questi reati con la lesione dell’interesse o degli interessi sottostanti al documento falsificato”, posto che è “la titolarità di questi ultimi a legittimare alla presentazione della querela”. In altri termini, tale legittimazione “può essere affermata solo in virtù della titolarità da parte del soggetto dello specifico interesse a cui l’atto era chiamato a dare attuazione ovvero alla cui lesione la falsificazione di quell’atto era destinato”. In questo senso, la sentenza De Simone (Sez. V, 7 febbraio 1992, dep. il 27 marzo 1992, rv. 189707) - muovendo evidentemente dal presupposto della individuazione della legittimazione alla querela solo con riferimento allo specifico interesse al quale l’atto era destinato a dare attuazione ovvero alla cui lesione la falsificazione dell’atto era finalizzata - afferma che “per la perseguibilità del reato di foglio firmato in bianco. ….il diritto di querela compete non soltanto al soggetto della cui firma in bianco si sia abusato, ma anche ad ogni altro soggetto che abbia ricevuto un danno o sia rimasto sottoposto a potenziali effetti pregiudizievoli, anche sul piano non patrimoniale, dell’atto affetto da falsità”. Nella stessa direzione si pone la sentenza Schiavone (Sez. V, 6 giugno 1996, dep. il 20 luglio 1996, rv. 206290) la quale - premesso che il delitto di cui all’art. 485 cod. pen. richiede, oltre la formazione della scrittura privata, l’uso di questa – precisa che assume la veste di persona offesa in tale reato, e quindi la titolarità del diritto di querela, pure il soggetto che risenta un danno in conseguenza di tale uso”. Princìpi ribaditi anche dalla sentenza Tomaselli (Sez. V, 24 febbraio 2003, dep. il 18 marzo 2003, rv. 224263), che, in tema di reati di falsità in titoli di credito, sostiene quanto segue: “per persona offesa dal reato deve intendersi non soltanto il soggetto al quale sia stata falsamente attribuita l’emissione dell’atto falsificato, ma anche la persona che abbia ricevuto comunque un danno per l’uso che in concreto sia stato fatto del titolo” (nella specie la Suprema Corte ha riconosciuto la qualità di persona offesa, legittimata a presentare la querela, ex art. 493 bis cod. pen., al beneficiario che aveva presentato all’incasso un assegno falsificato). A conclusioni analoghe perviene anche la sentenza Cali (Sez. V, 26 novembre 1997, dep. il 20 gennaio 1998, rv. 209884), in cui, in tema di falsità in scrittura privata, si afferma che persona offesa, come tale legittimata alla presentazione della querela, è non solo la persona della quale sia stata falsificata la firma, ma anche ogni altro soggetto che abbia ricevuto un danno per l’uso che in concreto sia stato fatto della scrittura (fattispecie in tema di falso in cambiali).

Nel quadro così delineato resta difficile individuare quale sia il ruolo della fede pubblica, dato che l’area della persona offesa sembrerebbe estendersi fino a comprendere chiunque abbia ricevuto un danno. Fatto sta che si tratta di reati aggregati e classificati sotto la categoria dei delitti contro la fede pubblica, la quale dunque, in tutta evidenza, non può considerarsi, quanto alle ipotesi di falso in atti privati, l’unico bene protetto, posto che il danno evidenziato dalle decisioni appena citate è per l’appunto un danno patrimoniale. E, difatti, il passo immediatamente successivo a queste affermazioni lo si trova nella sentenza Di Guglielmo (Sez. V, 23 maggio 2006, p.o. in proc. Di Guglielmo, dep. il 24 luglio 2006, n. 25617, rv. 234522), la quale non solo costituisce specificazione e applicazione di questi princìpi ma anche ulteriore rafforzamento, affermando che “nei delitti contro la fede pubblica, ed in particolare in quelli a querela della persona offesa, il reato di falso, oltre l'interesse pubblico, lede anche i diritti della parte lesa, cui di conseguenza spettano le facoltà riconosciute in tema di archiviazione del procedimento alla persona offesa". A sostegno di questa conclusione la sentenza Di Guglielmo afferma che "dopo la introduzione dell'art. 493 bis cod. pen. (casi di perseguibilità a querela) per effetto della legge n. 689 del 1981, ….il pregiudizio nei delitti di falso documentale non si esaurisce nella lesione della pubblica fede, vale a dire nel danno sociale che si ricollega all'alterazione della verità e, quindi, alla stessa condotta di falso, ma comprende anche l'offesa di una specifica situazione probatoria di un soggetto determinato"; in altri termini, l'attribuzione del potere di querela comporta il riconoscimento della qualità di persona offesa al soggetto che dal reato ha ricevuto danno. Con conseguente rilevanza dell'interesse concreto alla non falsità del documento; rilevanza resa palese, per così dire, dall’assoggettamento della falsità, sia pure in scrittura privata, al regime della punibilità a querela.

Posto che le ipotesi di reato qui in esame rimangono, comunque, apparentate alle altre ipotesi di falso riunite attorno ad un unico bene, sembra che la nuova formulazione normativa in esame costituisca comunque un rafforzamento della teoria della plurioffensività. E, difatti, si è puntualmente rilevato in dottrina che “per chi sostiene la teoria della natura plurioffensiva di questi reati, una tale innovazione legislativa potrebbe essere letta come la conferma o la presa d’atto dell’esistenza, accanto alla fede pubblica, dell’interesse di volta in volta tutelato dal singolo documento, nella cui titolarità trova origine la legittimazione alla presentazione della querela”. Si è, ancora, affermato che “riguardata da questo punto di vista, la differenza con i falsi in atto pubblico, stante l’identità della struttura tipica dei fatti, risiede unicamente nella diversa natura degli atti o, meglio, nella diversità delle funzioni ad essi assegnate, che comporta una collocazione dei relativi interessi in una dimensione pubblica o almeno diffusa”. Di talchè, con specifico riferimento alla questione che in questa sede rileva, ci si può chiedere se la diversa natura degli atti - scrittura privata e atto pubblico - comporti nel secondo caso l’elusione, la fine dell’interesse privato. Certamente, la sussistenza, con riguardo all’atto pubblico, (soprattutto) di un interesse pubblico o collettivo è tale da giustificare il differente trattamento sanzionatorio (da uno a sei anni di reclusione, mentre per la scrittura privata da sei mesi a tre anni) e il differente regime di procedibilità, previsti dalle norme incriminatrici in considerazione; ma, anche alla luce di quanto si è fin qui detto – e richiamando altresì tutte le considerazioni svolte in particolare esaminando le figure del falso grossolano e del falso innocuo – non si individua alcuna valida ragione per affermare che detto interesse pubblico sia tale da giustificare anche l’azzeramento, sempre ed in assoluto, dell’interesse privato nel caso di falso in atto pubblico.

6.3 - Conclusivamente, deve, dunque, affermarsi, il seguente principio di diritto:

“i delitti contro la fede pubblica tutelano anche il soggetto sulla cui concreta posizione giuridica l’atto incide direttamente, soggetto che, in tal caso, è legittimato a proporre opposizione contro la richiesta di archiviazione”.


7 - Nella fattispecie in esame non può assolutamente dubitarsi della lesione concreta, che alla sfera giuridica della S. A. S.M.I. (legalmente rappresentata dal denunciante Pasquini Enrico Maria) potrebbe derivare da un eventuale reato di falso, relativamente alla intestazione di un pacchetto azionario della s.p.a. Lualex (il 95%, con valore nominale pari a 490.634,05 euro) controversa tra la stessa denunciante e Bozzo Ferdinando, così come prospettato nella denuncia: ne deriva che, in applicazione del principio quale sopra enunciato, deve certamente riconoscersi al denunciante la veste di parte offesa, con conseguente suo diritto a proporre opposizione, e con obbligo, per il G.I.P., di valutare l’opposizione stessa e provvedere motivatamente al riguardo.

Per quanto si rileva dagli atti, il denunciante (avendo ricevuto avviso della richiesta di archiviazione del P.M.) ha presentato formale atto di opposizione – con argomentate richieste di ulteriori indagini, anche specificamente indicate, in relazione al reato ipotizzato e con riferimento alle dichiarazioni rese dal Bozzo alla Polizia Giudiziaria - ed il G.I.P. ha deciso in conformità alla richiesta del P.M., con provvedimento adottato “de plano”, con l’uso di un modulo prestampato, senza prendere in alcun modo in esame la proposta opposizione: e giova in proposito ricordare che, per giurisprudenza consolidata di questa Corte, “qualora sia stata proposta opposizione alla richiesta di archiviazione formulata dal P.M., il G.I.P., ai sensi dell’art. 410 cod. proc. pen., può provvedere <>, esclusivamente se ricorrono due condizioni: a) inammissibilità dell’opposizione; b) infondatezza della notizia di reato, e di entrambe deve dare atto in motivazione” (in termini, “ex plurimis”, cfr. Sez. V, N. 6792/99, cc. 14/12/1998, imp. Massone, RV.212434).

L’impugnato provvedimento deve essere quindi annullato senza rinvio, con trasmissione degli atti, per quanto di competenza, al G.I.P. del Tribunale di Milano, il quale si atterrà al principio di diritto quale enunciato da queste Sezioni Unite.

P. Q. M.

Annulla senza rinvio il provvedimento impugnato e dispone trasmettersi gli atti al Tribunale di Milano.

7 dicembre 2007

Sezioni Unite, sentenza n.45583: Pena -limite al cumulo materiale- riduzione per il giudizio abbreviato - ordine di applicazione.

da www.cortedicassazione.it

SENTENZA N. 45583 UD. 25/10/2007 - DEPOSITO DEL 06/12/2007

PENA – CONCORSO DI REATI E DI PENE – LIMITE AL CUMULO MATERIALE – RIDUZIONE PER IL GIUDIZIO ABBREVIATO – ORDINE DI APPLICAZIONE

La riduzione di pena per il giudizio abbreviato deve essere effettuata dal giudice dopo che la pena è stata determinata in osservanza delle norme sul concorso di reati e di pena stabilite dagli artt. 71 ss c.p., fra le quali vi è anche la disposizione dell’art. 78, limitativa del cumulo materiale, per cui la pena della reclusione, in tal caso, non può essere superiore ad anni trenta.

Testo Completo:
Sentenza n. 45583 del 25 ottobre 2007 - depositata il 6 dicembre 2007
(Sezioni Unite Penali, Presidente M. Battisti, Relatore G. Canzio)

RITENUTO IN FATTO

1. – Con sentenza del 22/2/2005 il G.u.p. del Tribunale di Busto Arsizio dichiarava Andrea Volpe e Pietro Guerrieri responsabili, in concorso tra loro e con altri imputati giudicati separatamente, dei reati di omicidio in danno di Fabio Tollis e Chiara Marino e porto illegale di arma da taglio e oggetti atti ad offendere (capo I), duplice tentativo di omicidio in danno del Tollis e della Marino e illegale detenzione di eroina (capi M-N), nonché il Volpe dei reati di omicidio in danno di Mariangela Pezzotta, occultamento di cadavere, detenzione e porto illegali di armi comuni da sparo e munizioni, frode processuale (capi A-B-C-D), furto in abitazione (capo E), rapina e armi (capo G), danneggiamento (capo H), istigazione al suicidio di Andrea Bontade (capo P): reati commessi, tutti, nel contesto delle attività criminose della setta denominata “Bestie di Satana”. Il G.u.p. condannava quindi: - il Volpe alla pena di anni 30 di reclusione, con le attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti e la continuazione tra i distinti gruppi di reati di cui ai capi A-B-C-D, ai capi E-G e ai capi I-M-N-P, con determinazione delle pene, in relazione a ciascun gruppo e previa riduzione di un terzo per il rito abbreviato, in anni 16 di reclusione (capi A-B-C-D), anni 2 e mesi 4 di reclusione (capi E-G), mesi 4 di reclusione (capo H), anni 20 di reclusione (capi I-M-N-P), con finale contenimento della pena nella misura indicata dall’art. 78 c.p.; - il Guerrieri alla pena di anni 16 di reclusione, con le attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti e la continuazione tra i reati sub I-M-N, applicata la diminuente del rito. Più precisamente, per quanto attiene alla determinazione della pena, il primo giudice, per il Volpe, operava il cumulo materiale delle pene, prima quantificate all’interno di autonome sequele di continuazione, e perveniva alla pena di anni 38 e mesi 8 di reclusione, già computata la diminuente del rito, applicando poi l’art. 78 c.p. e giungendo alla pena finale di anni 30 di reclusione; mentre, per il Guerrieri, determinava la pena per il reato più grave in anni 21 di reclusione, aumentata di anni 3 per la continuazione, e sulla pena di anni 24 applicava la riduzione di un terzo per il rito, irrogando così la pena finale di anni 16 di reclusione.
2. – La Corte d’assise d’appello di Milano, con sentenza del 16/6/2006, in parziale riforma della decisione impugnata: - relativamente al Volpe, assolveva l’imputato dal delitto di frode processuale (capo D) siccome persona non punibile ai sensi dell’art. 384 c.p., riqualificava come tentativo di lesioni il tentato omicidio in danno del Tollis e della Marino contestato al capo M, estendeva la continuazione tra l’omicidio Pezzotta e i reati di cui ai capi A-B-C anche al furto in abitazione e alla rapina di cui ai capi E-G, fissando la pena per tali reati in anni 25 e mesi 10 di reclusione, rideterminava in anni 28 di reclusione la pena per il duplice omicidio Tollis e Marino e per i reati di lesioni tentate in danno dei medesimi, di tentato omicidio in danno della Marino e di istigazione al suicidio del Bontade (capi I-M-N-P), quindi, stabilita la pena complessiva di anni 54 e mesi 4 di reclusione e limitata la stessa ai sensi dell’art. 78 c.p. ad anni 30, la riduceva ulteriormente, per effetto del rito abbreviato, ad anni 20, così sovvertendo l’ordine applicativo seguito dal primo giudice; - relativamente al Guerrieri, rigettata la richiesta di nuova perizia psichiatrica, riqualificato nei sensi anzidetti il tentativo di omicidio in danno di Tollis e Marino (capo M) e dichiarate le attenuanti generiche prevalenti sulle aggravanti, riduceva la pena ad anni 12 e mesi 8 di reclusione; - confermava, nel resto, la sentenza appellata.
3. – Hanno proposto ricorso per cassazione il P.G. presso la Corte d’appello di Milano e il difensore del Guerrieri.
3.1. - Il P.G. ha denunziato, ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. b) ed e) c.p.p., inosservanza o erronea applicazione della legge penale, mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, deducendo:
- che la Corte territoriale aveva omesso di motivare sulla sussistenza, in concreto, degli elementi costitutivi della frode processuale, prima ancora di riconoscere la causa di giustificazione ex art. 384 c.p., che peraltro non può essere accordata quando la situazione di pericolo sia stata volontariamente cagionata dall’autore del reato: il che era avvenuto nel caso di specie, perché il Volpe agì per assicurarsi l’impunità dell’omicidio Pezzotta;
- che le contravvenzioni ex artt. 699 c.p. e 4 L. n. 110/75 (capo I) erano estinte per prescrizione, risalendo al 17/1/1998 l’epoca della loro commissione;
- che, quanto alla riqualificazione in termini di tentate lesioni dell’originaria imputazione di omicidio tentato (capo M), l’incendio dell’autovettura era idoneo ad attentare all’incolumità dei due giovani ed a cagionarne la morte, obiettivo questo perseguito dagli imputati;
- che, circa il criterio di determinazione della pena per il Volpe, la Corte territoriale avrebbe dovuto procedere prima alla diminuzione ex art. 442 c.p.p. di un terzo della pena per i delitti come ritenuti in continuazione, quindi alla sommatoria delle pene e, infine, praticarne il contenimento ai termini dell’art. 78 c.p., non rivestendo tale norma natura “sostanziale”, siccome mero criterio moderatore del cumulo materiale, e provvedendosi in fase di esecuzione a siffatta operazione di contenimento per ultimo, sicché l’opposta interpretazione comporterebbe un’irragionevole disparità di trattamento sanzionatorio, oltre a tradurre la scelta del rito “in una patente di quasi totale impunità e in un incentivo a delinquere”;
- che, in ordine alla ritenuta prevalenza delle attenuanti generiche per il Guerrieri, sembrava inadeguatamente motivato il criterio enunciato dalla Corte territoriale di differenziare maggiormente la posizione di tale imputato rispetto al Volpe, al quale era stata inflitta una pena definita dalla stessa Corte troppo mite.
3.2. – Il difensore del Guerrieri ha denunciato, ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. b), d) ed e) c.p.p., inosservanza o erronea applicazione della legge penale, mancata assunzione di prova decisiva e manifesta illogicità della motivazione, sviluppando una serie di motivi in punto di: vizio parziale di mente dell’imputato, affetto da disturbo della personalità e destabilizzato dall’interazione col gruppo satanico, sotto il profilo della denegata rinnovazione dell’istruzione mediante perizia psichiatrica collegiale; affermazione di colpevolezza sia per l’omicidio che per il tentato omicidio, in quanto l’imputato non aveva partecipato alla materiale esecuzione, né procurato le armi, né cooperato all’occultamento dei cadaveri, né istigato i correi, né agevolato l’esecuzione dei delitti; insussistenza della premeditazione e delle altre aggravanti; insussistenza del fatto lesivo di cui al capo M per inidoneità della condotta e comunque erronea qualificazione giuridica della stessa come lesioni tentate anziché incendio; riconoscimento, in relazione alla detenzione di sostanza stupefacente (capo N), della diminuente del fatto di lieve entità ex art. 73, comma 5 d.P.R. n. 309/90; eccessivo contenimento della diminuzione operata per le attenuanti generiche ed eccessivo aumento per la continuazione; incongruità del trattamento sanzionatorio, con riguardo alla condotta processuale, all’incensuratezza, alla succubanza rispetto al gruppo satanico, all’impegno risarcitorio e alla sperequazione rispetto al Volpe; prescrizione delle contravvenzioni di cui al capo I.
4. – Il difensore del Volpe, a sua volta, nel replicare al motivo di ricorso del P.G. concernente i rapporti fra diminuente del rito e criterio moderatore di cui all’art. 78 c.p., ha osservato che la tesi sostenuta dal P.G. darebbe luogo ad un’ingiustificata disparità di trattamento, vanificando l’effetto premiale ed equiparando, nel caso di reati le cui pene in cumulo materiale siano superiori a trent’anni di reclusione, la posizione dell’imputato giudicato col rito ordinario a quella dell’imputato giudicato col rito speciale, ed ha inoltre rilevato che nessuna comparazione può farsi con la fase esecutiva, dal momento che, nei casi di concorso di reati e di pene, in detta fase vi sono più pene mentre in sede di cognizione ve n’è una sola, e l’art. 442, comma 2 c.p.p. parla di riduzione della pena e non già delle pene.
5. - La Prima Sezione penale, con ordinanza del 30/3 – 25/6/2007, afferma di non condividere il costante indirizzo interpretativo, secondo cui la riduzione di pena per il giudizio abbreviato dev’essere eseguita dopo che la pena sia stata determinata secondo i criteri stabiliti dalle norme sostanziali, tra le quali vi è la disposizione dell’art. 78 c.p., sul duplice rilievo che il limite assoluto di anni trenta non è assimilabile alle norme che presiedono la dosimetria della pena, prescindendo da qualsiasi riferimento alle componenti materiali e soggettive del reato, e che nella fase dell’esecuzione l’applicazione del medesimo criterio segue necessariamente la riduzione di pena ex art. 442 c.p.p., sicché non sembra ipotizzabile una differente soluzione per il giudizio di cognizione.
La concreta possibilità dell’insorgere di un contrasto di giurisprudenza nei termini illustrati ha pertanto indotto il Collegio, ai sensi dell’articolo 618 c.p.p., a rimettere il ricorso alle Sezioni Unite cui è stato assegnato dal Primo Presidente per l’odierna udienza pubblica.
CONSIDERATO IN DIRITTO

6. - Osserva innanzi tutto il Collegio che risultano privi di pregio i profili, meramente fattuali e sprovvisti del requisito di adeguata specificità delle ragioni di diritto, delle censure svolte dalla difesa del Guerrieri circa il negato riconoscimento del vizio parziale di mente, il positivo apprezzamento delle prove di responsabilità e l’entità del trattamento sanzionatorio, nonché delle critiche mosse dal ricorrente P.G. alla riqualificazione in termini di tentate lesioni dell’originaria imputazione di omicidio tentato di cui al capo M, nonché al giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche elargite al Guerrieri. La Corte d’assise d’appello, nel condividere sostanzialmente il ragionamento probatorio del giudice di primo grado, ha rigettato la richiesta di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale per l’espletamento di perizia psichiatrica, rilevando con congrua motivazione che la perizia era stata già effettuata in sede di incidente probatorio da un collegio di periti, i quali avevano escluso la sussistenza del vizio parziale di mente; ha ritenuto che il Guerrieri avesse dato un notevole contributo alla commissione del duplice omicidio Tollis e Marino, scavando, alcuni giorni prima dell’agguato, la fossa destinata ad accoglierne i corpi, così rafforzando il proposito criminoso dei correi; in ordine al tentativo di omicidio di cui al capo M, pur considerando provato che il Guerrieri avesse inserito il petardo nel serbatoio della benzina dell’autovettura, al cui interno si trovavano il Tollis e la Marino, ha sostenuto, sulla plausibile premessa in fatto che il serbatoio non sarebbe potuto esplodere per deflagrazione della benzina, che l’azione era solo in grado di cagionare un incendio di modestissime proporzioni dell’autovettura, con conseguente rischio di lesioni e non di offesa alla vita delle vittime; ha rilevato che le dichiarazioni accusatorie del Volpe e del Magni costituissero prove sufficienti del coinvolgimento del Guerrieri nell’ulteriore tentativo di omicidio della Marino mediante la somministrazione di un’overdose di eroina; ha ritenuto la sussistenza delle aggravanti del numero delle persone, dell’essersi avvalso di minori (i coimputati Maccione e Magni), della premeditazione, essendo stati i delitti omicidiari deliberati ben prima della loro commissione, dei motivi abietti e futili, costituiti dal fatto che le due vittime ostacolavano i riti della setta satanica, e di aver agito con crudeltà per le modalità raccapriccianti del duplice omicidio.
La Corte territoriale ha, pertanto, efficacemente evidenziato, con puntuale e adeguato apparato argomentativo, le ragioni del giudizio positivo di colpevolezza dell’imputato in ordine ai delitti contestati e della diversa qualificazione giuridica del tentativo di omicidio di cui al capo M, enunciando analiticamente le fonti probatorie, gli elementi e le circostanze rilevanti a tal fine ed apprezzandone, senza contraddizioni o salti logici, la significativa convergenza: motivazione, questa, coerente con la ricostruzione fattuale degli episodi criminosi e non sindacabile in sede di controllo di legittimità sul discorso giustificativo della decisione, soprattutto quando i ricorrenti, come nella specie, non criticano la violazione di specifiche regole inferenziali preposte alla formazione del convincimento del giudice, ma si limitano in realtà a sollecitare un non consentito riesame del merito delle vicende criminose attraverso la rilettura del materiale probatorio.
Quanto, infine, alle contrapposte doglianze dei ricorrenti riguardanti l’adeguatezza della pena inflitta al Guerrieri, appare corretto e insindacabile in sede di legittimità l’argomentato giudizio della Corte territoriale che, pur negando l’attenuante della minima importanza del contributo concorsuale dell’imputato e, relativamente all’episodio dell’acquisto di eroina da iniettare alla Marino, quella della lieve entità del fatto, ha motivatamente ritenuto prevalenti, tuttavia, le attenuanti generiche in considerazione della fragile personalità del Guerrieri, dell’impegno risarcitorio, della collaborazione processuale e dell’opportunità di differenziarne il trattamento sanzionatorio rispetto a quello del Volpe.
Di talché, le censure dei ricorrenti circa pretese violazioni di legge e carenze motivazionali della sentenza impugnata, relativamente ai punti suindicati, risultano infondate.
Deve invece darsi atto dell’erronea conferma da parte dei giudici d’appello della condanna per le contravvenzioni ex artt. 699 c.p. e 4 L. n. 110/75, contestate agli imputati unitamente all’omicidio Tollis e Marino (capo I), che erano estinte per prescrizione, risalendo al 17/1/1998 l’epoca della loro commissione. Sicché la sentenza impugnata, limitatamente a questo capo d’imputazione, va annullata senza rinvio, eliminandosi la relativa pena di giorni dieci di reclusione (giorni 15 meno un terzo per la diminuente del rito) solo per il Guerrieri, attesa l’irrilevanza di un’analoga statuizione riduttiva (giorni venti di reclusione: giorni 30 meno un terzo per la diminuente del rito) sulla complessiva misura della pena detentiva inflitta al Volpe in applicazione del criterio moderatore stabilito dall’art. 78 c.p..
7. - Merita, a questo punto, di essere preso in considerazione il primo motivo di ricorso con il quale il P.G. deduce che la Corte territoriale ha omesso di motivare in ordine alla sussistenza, in concreto, degli elementi costitutivi della fattispecie di frode processuale di cui al capo D, prima ancora di riconoscere al Volpe la causa di giustificazione ex art. 384 c.p., che peraltro non può essere accordata quando la situazione di pericolo sia stata volontariamente cagionata dall’autore del reato: il che era avvenuto nel caso in esame, perché il Volpe agì per procurasi l’impunità del più grave delitto di omicidio in danno della Pezzotta.
Secondo l’impostazione accusatoria, accolta dal giudice di primo grado, il reato previsto dagli artt. 374, comma 2 e 61 n. 2 c.p. si sarebbe sostanziato in due condotte, poste in essere dal Volpe subito dopo l’uccisione della Pezzotta e al fine di garantirsi l’impunità di tale delitto: l’essersi adoperato per eliminare le tracce di sangue e l’avere portato il veicolo Fiat Uno e gli effetti personali della vittima in prossimità di un canale, nell’intento di gettarli nel canale e di simulare il suicidio o la volontaria scomparsa della Pezzotta (capo D).
La Corte d’assise d’appello, per contro, ha osservato che, avendo l’imputato commesso il fatto perché costretto dalla necessità di salvare sé medesimo da un grave e inevitabile nocumento nella libertà e nell’onore, “la non punibilità della condotta, in presenza della causa di giustificazione prevista dall’art. 384 c.p., rende superfluo soffermarsi ad esaminare se la condotta dell’imputato presenti, astrattamente, gli estremi del reato previsto dall’art. 374 c.p.” e, di conseguenza, ha assolto il Volpe “perché non punibile ai sensi dell’art. 384 c.p.”.
Sono ben note le profonde divergenze ermeneutiche, sia in dottrina che negli indirizzi giurisprudenziali, circa la valenza da attribuire, ai fini dell’applicabilità dell’esimente anche con specifico riguardo alla frode processuale, al requisito della non volontaria causazione della situazione di pericolo (per essere questa derivata, come nel caso in esame, dalla precedente commissione di un reato da parte dello stesso soggetto), contrapponendosi alla lettura della norma in chiave (soggettiva) di inesigibilità, e quindi alla configurazione dell’esimente come causa di esclusione della colpevolezza, l’interpretazione della stessa in termini oggettivi, quale ipotesi speciale dello stato di necessità, come tale riconducibile alla categoria delle cause di esclusione dell’antigiuridicità del fatto.
E però, la quaestio juris sottoposta allo scrutinio delle Sezioni Unite, pur articolata dal ricorrente P.G. secondo la prospettazione suindicata, deve ritenersi priva di rilevanza nel caso concreto.
Dalla lettura di entrambe le sentenze di merito e dell’atto di appello dell’imputato s’evince che lo stesso giorno dell’omicidio il Volpe venne fermato e, nel corso dell’immediata ispezione dei luoghi all’interno dello chalet ove il crimine era stato eseguito, furono immediatamente ritrovate sia l’arma del delitto, una pistola Smith & Wesson, che una carabina cal. 22 con i relativi munizionamenti, mentre della Fiat Uno, con a bordo gli indumenti personali della vittima, si riferisce soltanto, senza trarne alcuna significativa inferenza, che essa venne rinvenuta poco lontano, incidentata e posta trasversalmente su un ponte; la consulenza tecnica successivamente espletata dal R.I.S. di Parma accertava a sua volta che, quanto all’attività di ripulitura della scena del delitto emersa nell’ispezione, le tracce di sangue sul pavimento erano state eliminate “in maniera del tutto grossolana” con stracci, spazzoloni e detersivi, recanti visibili tracce di sostanze ematiche, e che a sparare era stato sicuramente il Volpe, alla luce delle particelle di polvere da sparo trovate sulle sue mani e sui suoi indumenti. La necessaria verifica ex actis dei presupposti fattuali – pure pretesa dall’appellante, ma ingiustificatamente pretermessa dalla Corte di merito – consente pertanto di affermare, con valutazione ex ante e in concreto, che difettano ictu oculi, nella specie, i requisiti individuati, da un lato, nella significativa rilevanza della condotta di artificiosa immutazione di luoghi e cose per la ricostruzione dei fatti e per la formazione del convincimento del giudice sul relativo thema probandum e, dall’altro, nell’obiettiva idoneità delle materiali, e tuttavia ictu oculi superficiali, alterazioni del contesto probatorio a trarre in inganno i destinatari delle stesse, cioè il giudice o il perito. Non si dubita che l’astratta fattispecie del reato - di pericolo e a dolo specifico - previsto dall’art. 374, comma 2 c.p. possa astrattamente configurarsi, anche in veste di tentativo, nelle condotte d’immutazione artificiosa di luoghi, cose e persone realizzate anteriormente al procedimento penale, perfino se attuate subito dopo la commissione del reato ed anteriormente all’attività di polizia giudiziaria in relazione agli eventuali e probabili atti di ispezione (cui sono peraltro assimilabili gli accertamenti e i rilievi urgenti della polizia giudiziaria ex art. 354 c.p.p., diretti ad assicurare e conservare le tracce e le prove del reato: Cass., Sez. III, 9/7/1996, Perrotti, rv. 206678), esperimento giudiziale e perizia. In linea di fatto, tuttavia, l’evidente difetto di potenzialità ingannatoria della condotta ne esclude in radice la concreta pericolosità per l’interesse protetto dalla norma incriminatrice, che è costituito dalla genuinità di taluni, specifici mezzi di prova, fonti del convincimento del giudice nel processo penale, in funzione della corretta formazione delle ragioni del decidere (Cass., Sez. III, 24/1/1979, Zarrelli, rv. 141368; Sez. VI, 24/5/1985, Sampò, rv. 170698; Sez. I, 24/10/1985, Franzé, rv. 171911; Sez. VI, 6/4/1988, Pispero, rv. 180874; Sez. VI, 6/11/1998, Scialpi, rv. 213432). D’altra parte, la grossolanità dei concitati e maldestri gesti di ripulitura delle tracce, siccome compiuti dagli autori dell’omicidio, senza apprezzabili soluzioni di continuità, nel medesimo contesto spazio-temporale dell’efferato delitto di sangue, ne svela, insieme con la sostanziale contiguità degli atti, il difetto della pur necessaria alterità, perché si possa attribuire autonomo rilievo alla descritta condotta e configurare il concorso materiale dei reati di omicidio e di frode processuale. A ben vedere, infatti, oggetto dell’attività d’indagine, che giusta l’astratta figura di reato potrebbe essere fuorviata dalla cancellazione delle tracce, è invece, in concreto, la ricostruzione dell’intero contesto della vicenda criminosa, che, anche secondo il senso comune e la diffusa esperienza giudiziale, abbraccia nella sua prospettiva storico-fenomenica anche quei gesti. Considerate le esigenze d’economia processuale sottese alla previsione di cui alla lettera l) dell’art. 620 c.p.p., la sentenza impugnata va pertanto annullata senza rinvio nei confronti del Volpe relativamente al reato di frode processuale, poiché dal medesimo testo delle decisioni di merito si desume l’impossibilità di rinvenire ed utilizzare ulteriori emergenze processuali e di pervenire altrimenti, neppure sulla base di una rinnovata valutazione dei fatti da parte del giudice di rinvio, a una conclusione diversa dall’assoluzione dell’imputato con l’ampia formula liberatoria “perché il fatto non sussiste”.
8. - Le Sezioni Unite sono chiamate a rispondere al quesito interpretativo “se la riduzione di pena per il giudizio abbreviato debba essere eseguita dal giudice dopo la determinazione della pena effettuata in applicazione della disciplina del cumulo materiale e, in particolare, della disposizione dell’art. 78 c.p., per la quale non può essere superato il limite di trent’anni”. Il Collegio rimettente afferma di non condividere il costante indirizzo interpretativo, secondo cui la riduzione della pena per il giudizio abbreviato, risolvendosi in un'operazione puramente aritmetica di natura processuale, logicamente e temporalmente dev’essere eseguita dopo la determinazione della pena effettuata secondo i criteri e nel rispetto delle norme sostanziali, tra le quali vi è la disposizione dell'art. 78 c.p. diretta a temperare il principio del cumulo materiale delle pene, per le seguenti ragioni:
- la disposizione che stabilisce il limite assoluto di anni trenta, fissato per il concorso delle pene principali, detentive e temporanee, irrogate per i delitti non è assimilabile, sotto alcun profilo, alle norme che presiedono la dosimetria della pena, prescindendo da qualsiasi riferimento materiale e soggettivo, che non sia il rilievo del dato meramente aritmetico che la somma delle pene a carico della medesima persona ecceda la misura di anni trenta;
- nella fase dell’esecuzione il giudice non può che prendere in considerazione, nell’osservanza del canone d’intangibilità del giudicato, la pena concretamente inflitta al condannato e, nel caso di condanna pronunciata in esito al giudizio abbreviato, la sanzione già ridotta di un terzo ex art. 442 c.p.p., cui segue l’applicazione del criterio moderatore dell’art. 78 c.p., sicché non sembra ipotizzabile una discriminata soluzione a seconda che il medesimo criterio trovi applicazione nel giudizio di cognizione piuttosto che in quello di esecuzione.
Le Sezioni Unite ritengono, per contro, di riaffermare la soluzione positiva, unanimemente offerta al quesito interpretativo dalla giurisprudenza di legittimità (Cass., Sez. I, 7/4/1994, Pusceddu, rv. 197840; Sez. V, 9/12/2003 n. 18368, Bajtrami, rv. 229229; Sez. I, 10/3/2004 n. 15027, Pasinelli, in Cass. pen., 2005, 2287), anche se necessitano di essere rivisitate e puntualizzate le ragioni di ordine logico-giuridico che la giustificano, alla stregua delle lucide osservazioni critiche dell’ordinanza di rimessione.
9. - Il giudizio abbreviato, nello schema delineato dal vigente regime di cui agli artt. 438 e ss. c.p.p., si configura come procedura semplificata a definizione anticipata nell’udienza preliminare, subordinata all’opzione negoziale “sul rito”, la cui scelta da parte dell’imputato risulta favorita da una serie di incentivi premiali quale, innanzi tutto, la diminuzione di un terzo della pena per il reato ritenuto in sentenza in caso di condanna: si realizza così una commistione assolutamente originale tra condotte processuali ed effetti indiretti, ma automatici, sul trattamento sanzionatorio dell’imputato in caso di condanna, ispirata al fine pratico di assicurare, nel sinallagma fra beneficio premiale e disincentivazione del dibattimento, una deflazione e una migliore efficienza del sistema processuale (C. cost., n. 277 e n. 284 del 1990).
Una diminuente di natura “processuale”, dunque, le cui caratteristiche (non attiene alla valutazione del fatto-reato ed alla personalità dell’imputato; non contribuisce a determinarne in termini di disvalore la quantità e gravità criminosa; consiste in un abbattimento fisso e predeterminato, connotato da automatismo senza alcuna discrezionalità valutativa da parte del giudice; é applicata dopo la delibazione delle circostanze del reato e della continuazione; si sottrae ontologicamente a qualsiasi apprezzamento di valenza ex art. 69 c.p.) si presentano tuttavia strettamente collegate con effetti di sicuro rilevo dal punto di vista “sostanziale”, risolvendosi comunque in un trattamento penale di favore (Cass., Sez. Un., 21/5/1991, Volpe; Sez. Un., 6/3/1992, P.G. in proc. Piccillo; Sez. Un., 27/10/2004 n. 44711, P.G. in proc. Wajib).
10. - Con riguardo alle concrete modalità di computo della riduzione della pena nel giudizio abbreviato, oltre alla generica previsione della direttiva n. 53 della l. delega n. 81 del 1987 <>, si rinvengono nel sistema codicistico taluni, specifici, riferimenti testuali.
Dispone l’art. 442, comma 2 c.p.p. che <> è diminuita di un terzo e, nella Relazione al Progetto preliminare del nuovo codice di rito (p. 106), si legge che “questa diminuzione va apportata sulla pena determinata in concreto dal giudice, nel senso che essa si applica dopo che sia stata effettuato il giudizio di comparazione tra le circostanze”.
Secondo l’art. 187 disp. att. c.p.p., ai fini dell’applicazione della disciplina del concorso formale e del reato continuato da parte del giudice dell’esecuzione, si considera violazione più grave quella per la quale è stata inflitta la pena più grave <>, e altrettanto univoche sono sul punto le Osservazioni del Governo al Progetto preliminare del d.lgs. 28 luglio 1989, n. 271 (in Documenti giustizia, 1990, fasc. 2-3, 179): “la prescrizione è stata ritenuta opportuna con specifico riferimento al giudizio abbreviato, dove la circostanza che la riduzione di un terzo dipende dalla scelta del rito e quindi da una scelta meramente processuale avrebbe potuto far argomentare che la pena in concreto era quella precedente rispetto a detta riduzione”.
Appare inoltre fortemente significativa la vicenda della disciplina dei delitti puniti con la pena dell’ergastolo. Ripristinata dall’art. 30, comma 1 lett. b), l. n. 479 del 1999 l’originaria previsione codicistica dell’art. 442, comma 2 secondo periodo (travolto per eccesso di delega da C. cost., n. 176/91), per cui, per i delitti puniti con la pena dell’ergastolo, <>, il legislatore ha ritenuto necessario, da un lato, chiarire con norma di natura interpretativa che l’espressione <> deve intendersi riferita all’ergastolo senza isolamento diurno e, dall’altro, laddove la pena sia ai sensi dell’art. 72 c.p. l’ergastolo con l’isolamento diurno, stabilire che <> (art. 7, commi 1 e 2, d.l. n. 341 del 2000, conv. in l. n. 4 del 2001). L’esplicita formulazione letterale della disposizione mostra la chiara voluntas legis di fare propria la soluzione interpretativa, per la quale “sarebbero da applicare dapprima le disposizioni sul concorso dei reati e solo successivamente, sulla pena così risultante, andrebbe operata la diminuzione per la scelta del rito” (v., in tal senso, la Relazione ministeriale, accompagnatoria del disegno di legge di conversione del d.l. n. 341 cit.).
Sempre muovendo da considerazioni conseguenti all’analisi del testo normativo, merita infine di essere sottolineato che la formula <>, impiegata nell’art. 442, comma 2 c.p.p., trova agevole riferimento, in caso di pluralità di reati, nel secondo comma del successivo art. 533 (pure richiamato dall’art. 442, comma 1), il quale testualmente recita: <>: scansione, questa, da cui si desume che, con riguardo alla condanna concretamente inflitta, la commisurazione delle singole componenti della pena complessiva attiene ad una fase precedente la deliberazione finale.
Simili rilievi esegetici, che si armonizzano peraltro con le intenzioni del legislatore, orientano già verso la risposta da dare al quesito interpretativo, postulando in definitiva che l’operazione riduttiva per la scelta del rito costituisca un posterius rispetto alle altre, ordinarie, operazioni di dosimetria della pena, che la legge attribuisce al giudice.
11. - Il linguaggio normativo del codice di rito si adegua perfettamente, del resto, alla grammatica delle regole stabilite dagli articoli 71 ss. c.p. per la disciplina sostanziale del concorso di reati e di pene. Il legislatore, pur avendo adottato il principio del “cumulo materiale limitato” (Relazione ministeriale sul Progetto del codice penale, Libro I, p. 127), considera come <> (artt. 73, comma 1, e 76, comma 1), e non come mera somma aritmetica delle pene applicate per ciascun reato, la pena complessiva inflitta in virtù della concorrenza di pene detentive temporanee della stessa specie, irrogate per i singoli reati in concorso: e ciò tanto nel caso in cui più reati siano stati giudicati con unica sentenza o decreto (art. 71), quanto nel caso in cui nei confronti della stessa persona siano intervenute più condanne, pronunciate con distinti sentenze o decreti (art. 80). Il temperamento più rilevante alla regola del cumulo materiale, onde evitare che la sommatoria, nel caso di concorso di pene derivante da un concorso di reati preveduto dall’art. 73, conduca all’irrogazione di pene detentive temporanee eccessive, in pratica “a durata illimitata e quindi in via di fatto perpetua”, come l’ergastolo, rispetto alla “breve vita dell’uomo”, è dettato peraltro, per considerazioni di tipo umanitario, dall’art. 78 c.p., in ordine al quale la citata Relazione ministeriale (p. 130) parla di un doppio limite massimo: il primo, variabile e proporzionale, del quintuplo della pena più grave, come determinata in concreto, fra le pene concorrenti; il secondo, assoluto e fisso, di saturazione delle pene, per il quale la pena da applicare non può comunque eccedere trent’anni per la reclusione e sei anni per l’arresto; l’uno destinato a funzionare per le pene più brevi e i minori reati e l’altro per le più gravi pene e i maggiori reati. E’ certo, in particolare, che il limite dei trent’anni di reclusione opera uniformemente, quale che sia l’eccedenza della pena detentiva, tanto se il cumulo materiale abbia dato come risultato una pena superiore a detto limite solo di qualche anno, quanto se abbia dato come risultato una pena superiore per molti anni. Ma non sembra lecito sostenere (per inferirne – come propongono sia il P.G. ricorrente che il Collegio rimettente – la pregiudizialità della riduzione di pena per il rito abbreviato rispetto al contenimento finale della stessa) che il criterio moderatore del cumulo materiale di cui all’art. 78 c.p., siccome non inerente ai tradizionali indici del concreto disvalore del fatto-reato nelle sue componenti oggettive e della personalità del reo, resti estraneo alla disciplina “sostanziale” della commisurazione della pena.
Ed invero, oltre all’effettiva incidenza che ha sulla determinazione complessiva del trattamento sanzionatorio, il suddetto criterio, essendo diretto a temperare il cumulo materiale delle pene nel caso di concorso di reati preveduto dall’art. 73 c.p. ed anche nel caso di aumento della pena base derivante dalla continuazione, costituisce pur sempre, nonostante la sua applicazione sia indifferente all’eccedenza quantitativa, espressione della finalità rieducativa della pena in relazione ad una speranza di vita futura, da libero, del condannato: l’applicazione rigida e automatica dell’addizione aritmetica delle varie pene potrebbe infatti condurre alla esorbitante condanna ad una pena complessiva superiore alla previsione di vita del condannato, frustandosi così il principio rieducativo di cui all’art. 27 Costituzione (Cass., Sez. I, 16/3/2005 n. 16461, P.M. in proc. Coraci, rv. 231580). Che la disposizione dell’art. 78 c.p., segnando il limite dell’esercizio della potestà punitiva statuale nell’irrogazione delle pene detentive temporanee, appartenga legittimamente all’area delle regole di natura sostanziale del codice penale sul concorso dei reati e delle pene lo si desume altresì dalla disciplina del reato continuato. Il terzo comma dell’art. 81 c.p. pone, infatti, un limite ulteriore rispetto alla previsione del primo comma, nel senso che la pena, pure aumentata fino al triplo di quella che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave, tuttavia <>, sicché devono intendersi richiamate, in funzione moderatrice dell’aumento di pena per la continuazione, tutte le disposizioni degli artt. 71 ss. c.p. sul cumulo materiale, col temperamento stabilito dall’art. 78 c.p. (Cass., Sez. I, 11/3/1981, Polelli, rv. 149476; Sez. V, 4/12/1981, Bottari, rv. 151654). Ebbene, va sottolineato in proposito che non si è mai dubitato in dottrina e in giurisprudenza (v., per tutte, Cass., Sez. I, 29/1/1993, El Bakali, rv. 195960) che l’aumento per la continuazione - determinato, come si è visto, anche in ossequio al limite quantitativo fissato ai sensi dell’art. 78 c.p. - debba precedere la riduzione finale di un terzo, che opera sulla pena determinata in concreto per tutti i reati che hanno formato oggetto del giudizio abbreviato e che abbiano dato luogo alla configurazione del reato continuato. Va infine rilevato che la soluzione alternativa condurrebbe all’inaccettabile esito della sterilizzazione del criterio derogatorio di cui all’art. 73, comma 2 c.p., secondo il quale <>: la previa riduzione di un terzo della pena della reclusione per il rito abbreviato non consentirebbe mai, in tal caso, di raggiungere la soglia fissata dalla suddetta disposizione per l’applicazione sostitutiva dell’ergastolo.

12. - Le precedenti riflessioni sembrano dunque convergere univocamente nel senso che la riduzione di pena conseguente alla condanna nel giudizio abbreviato debba essere applicata dopo la determinazione del trattamento sanzionatorio, da effettuarsi nel rispetto dei limiti di natura sostanziale posti dalla legge penale a temperamento del principio del cumulo materiale delle pene, e perciò anche in osservanza del disposto dell’art. 78 c.p., con riferimento al limite massimo dei trent’anni di reclusione. L’opposta soluzione ermeneutica darebbe luogo, viceversa, ad un’ingiustificata disparità di trattamento, vanificando (come nella specie) l’effetto premiale della riduzione di un terzo per la scelta del rito ed equiparando, nel caso di reati le cui pene in cumulo materiale sono superiori a trent’anni di reclusione, la posizione dell’imputato giudicato col rito ordinario a quella dell’imputato giudicato col rito abbreviato. Neppure può invocarsi – come argomenta invero inadeguatamente il P.G. ricorrente – che la scelta del rito abbreviato si tradurrebbe in tal modo “in una patente di quasi totale impunità e in un incentivo a delinquere”. Per un verso, proprio l’assolutezza del criterio moderatore dell’art. 78 c.p., per la sua intrinseca funzione, rende irrilevanti le grandezze eccedenti da contenere e l’ampiezza degli scostamenti tra la misura dell’entità originaria e quella finale, siccome contenuta, della pena. Per altro verso, mette conto di osservare che non sussisteva alcun impedimento, nel caso in esame, per una più rigorosa dosimetria della pena, atteso che i giudici di merito, all’esito di un diverso itinerario valutativo e comparativo delle circostanze, avrebbero potuto irrogare al Volpe, per così efferati delitti omicidiari, pene ben più severe di quelle inflitte in concreto, pervenendo comunque, pur con la diminuente del rito, alla pena della reclusione di anni trenta o dell’ergastolo, in sostituzione dell’ergastolo o rispettivamente dell’ergastolo con isolamento diurno. Di talché, ferma restando de jure condendo la potestà del legislatore di graduare la misura della riduzione di pena per il rito abbreviato secondo la diversa gravità dei delitti e delle pene applicate (con particolare riguardo ai più gravi delitti di sangue), il rilievo del ricorrente P.G. in ordine ad una pretesa spinta criminogena della soluzione avversata sembra piuttosto frutto di un estremo ma tardivo ripensamento in ordine all’inusitata mitezza del trattamento sanzionatorio applicato al Volpe, ormai non più rimediabile in sede di legittimità in difetto di appello prima e di ricorso per cassazione poi, sul punto della “pena giusta”, da parte del rappresentante della pubblica accusa.
13. - L’opposta soluzione interpretativa, circa l’ordine della sequenza logico-temporale di applicazione delle disposizioni degli artt. 78 c.p. e 442, comma 2 c.p.p., troverebbe peraltro conferma, ad avviso del ricorrente P.G. e del Collegio rimettente, nella diversa disciplina che al fenomeno sarebbe riservato in executivis: in questa sede, se ai fini del contenimento del cumulo ai sensi dell’art. 78 c.p. non si può che prendere in considerazione la pena concretamente inflitta e pertanto, nel caso di condanna pronunciata in esito a giudizio abbreviato, la sanzione già ridotta di un terzo, risulta evidente che l’applicazione del criterio moderatore dell’art. 78 c.p. segue necessariamente la già disposta riduzione della pena ai sensi dell’articolo 442, comma 2 c.p.p..
Né - si avverte - sarebbe ragionevole ipotizzare una discriminata soluzione in ordine al trattamento sanzionatorio, a seconda che il criterio moderatore operi nel giudizio di cognizione piuttosto che nella fase dell’esecuzione, considerato che la celebrazione del processo unitario e cumulativo a carico del medesimo imputato per più reati, a fronte della separazione dei procedimenti, è un evento condizionato dal concorso di circostanze meramente accidentali. Ritengono le Sezioni Unite che l’argomento critico, pur enfatizzato dall’obiettiva discrasia delle regole applicative nei distinti giudizi di cognizione e di esecuzione, non coglie tuttavia nel segno, attesa la razionalità della diversa disciplina. Ai fini dell’esecuzione di <>, stabilisce l’art. 663, comma 1 c.p.p., in perfetta sintonia con il disposto dell’art. 80 c.p., che <>. Di talché, nell’assoluto difetto di previsione derogatoria nelle disposizioni del decimo libro del codice di rito, stante il canone d’intangibilità del giudicato e il carattere eccezionale della potestà del giudice dell’esecuzione, tassativamente circoscritta ai soli casi previsti dalla legge, in punto di rideterminazione della pena, la diminuente del rito speciale è applicabile dal giudice della cognizione, ma non può mai essere applicata nel procedimento di esecuzione di pene concorrenti, inflitte al medesimo imputato in distinti e autonomi procedimenti (Cass., Sez. I, 11/10/1995, Tasca, rv. 203035). La ratio legis dell’art. 442, comma 2 c.p.p. è, d’altra parte, quella di garantire all’imputato “in ogni singolo processo” un vantaggio conseguente alla scelta strategica del rito alternativo in ordine a tutte le imputazioni contestate in quello specifico processo, e questo vantaggio viene assicurato in ciascuno dei processi celebrati con tale rito e conclusisi con la condanna, all’esito di ognuno dei quali si determina <> applicando la relativa diminuente; quest’ultima opera, dunque, in modo identico nei confronti di tutti coloro che si trovano nel medesimo contesto processuale, ma non può, viceversa, per alcun profilo essere duplicata in sede esecutiva, laddove si debba procedere al cumulo materiale o giuridico delle pene inflitte per più reati in distinti procedimenti, nei quali l’imputato ha di volta in volta ritenuto di attivare, o non, la scelta deflativa del rito speciale (v., al riguardo, Cass., Sez. I, 24/2/2006 n. 11108, Guidotto, rv. 233541). Trattasi dunque di disparità di moduli applicativi nelle sequenze procedurali di determinazione della pena, che trova solida e razionale base giustificativa, oltre che nell’oggettiva diversità - non di mero fatto bensì giuridica - delle situazioni processuali (processo unitario e cumulativo o pluralità di processi in tempi diversi, per più reati, contro la stessa persona; giudizio di cognizione o di esecuzione), anche e soprattutto nell’efficacia preclusiva derivante dal principio d’intangibilità del giudicato. D’altra parte, pur essendo indubbio che il limite quantitativo nell’irrogazione delle pene detentive temporanee, nei termini fissati dall’art. 78 c.p., operi anche nella fase dell’esecuzione, giusta il disposto dell’art. 80 c.p., questa Corte è ripetutamente intervenuta per circoscriverne la portata e il perimetro applicativo, nel senso che l’obbligatorietà della formazione del cumulo nell’esecuzione di pene concorrenti non significa affatto che un soggetto, il quale abbia riportato più condanne a pene detentive temporanee, non possa rimanere detenuto nel corso della sua vita per un periodo eccedente quello massimo indicato in trent’anni, essendo tale limite, per evidenti esigenze di prevenzione speciale, riferibile solo alle pene inflitte per i reati commessi prima dell’inizio della detenzione (ex plurimis, v., da ultimo, Cass., Sez. I, 23/4/2004 n. 26270, Di Bella, rv. 228138; Sez. V, 11/6/2004 n. 39946, Serio, rv. 230135).

14. - A conclusione delle suesposte considerazioni ed alla stregua dell’analisi logico-sistematica della normativa va, pertanto, enunciato il seguente principio di diritto riguardo al quesito interpretativo sottoposto al vaglio delle Sezioni Unite: “La riduzione di pena, nella misura prevista dall’art. 442, comma 2 c.p.p. in caso di condanna nel giudizio abbreviato, dev’essere effettuata dal giudice dopo che la pena è stata determinata in osservanza delle norme sul concorso di reati e di pene stabilite dagli artt. 71 ss. c.p., fra le quali vi è anche la disposizione dell’art. 78, limitativa del cumulo materiale, per cui la pena della reclusione, in tal caso, non può essere superiore ad anni trenta”.
E, poiché occorre riconoscere che la ratio decidendi della sentenza impugnata risulta del tutto coerente col principio di diritto suindicato, il ricorso del P.G., sul punto, dev’essere rigettato. Il Volpe va infine condannato alla rifusione delle spese sostenute nel presente grado di giudizio dai familiari di Fabio Tollis, costituitisi parti civili, che si liquidano come in dispositivo.

P. Q. M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti del Volpe relativamente al delitto di frode processuale di cui al capo D) perché il fatto non sussiste, nonché nei confronti di entrambi gli imputati relativamente alle contravvenzioni di cui al capo I) perché estinte per prescrizione, eliminando la relativa pena di giorni dieci di reclusione per il Guerrieri. Rigetta nel resto i ricorsi del Guerrieri e del Procuratore Generale presso la Corte d’appello di Milano. Condanna il Volpe alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili nel presente giudizio, liquidate in euro 2.000,00, oltre accessori come per legge.

30 novembre 2007

Al via il Corso 2007-2008

Da www.camerepenali.it

Al via l'XI Corso Nazionale di Formazione Specialistica.

Nei prossimi giorni verrà pubblicato il bando dell'XI Corso Nazionale di Formazione Specialistica dell'Avvocato Penalista che si terrà nel periodo febbraio - settembre 2008.

Il termine per la presentazione delle domande scadrà il prossimo 7 gennaio.

Al Corso possono partecipare gli avvocati che:

  • presentino una dichiarazione di prevalenza dell’attività penalistica, sottoscritta dall’interessato e, per conferma del suo contenuto, dal Presidente della Camera Penale competente per territorio o, in mancanza, dal Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati;
  • esercitino l’attività professionale nel settore penale da almeno cinque anni o, alla data di pubblicazione del bando, abbiano conseguito l’attestato di proficua frequenza ad un corso organizzato da una Camera Penale territoriale.
  • Nell’ammissione delle domande saranno preferiti i concorrenti che non abbiano mai frequentato la Scuola Centrale di Formazione Specialistica per l’avvocato penalista in anni precedenti rispetto a coloro che l’abbiano già frequentata.

    Per motivi didattici e organizzativi, il numero massimo di partecipanti è fissato in 200.

27 novembre 2007

IL PROTOCOLLO D'INTESA C.N.F. - U.C.P.I.: PRIMI CRITERI PER LA SUA ATTUAZIONE

Da www.camerepenali.it

All'esito del seminario di lavoro svoltosi il 10 novembre scorso, la Giunta UCPI ha adottato i criteri disciplinanti, fino al 31 luglio 2007, la materia della formazione continua ed ha istituito una commissione destinata a riorganizzare l'intera struttura della formazione UCPI



Delibera sulla Formazione Continua:

La Giunta U.C.P.I., riunita in Roma il 23 novembre 2007,

Visto

Il Regolamento sulla formazione continua approvato dal C.N.F. in data 13.7.2007; il Protocollo d’intesa sottoscritto in data 17.10.2007 fra U.C.P.I. e C.N.F. in materia di formazione continua; la mozione approvata in data 21 ottobre 2007 dal Congresso Straordinario di Treviso sempre in materia di formazione continua;

rilevato

che, alla luce dell’obbligo formativo introdotto dal citato regolamento ed allo scopo di aggiornare la funzione formativa dell’U.C.P.I. e delle camere penali territoriali, è in corso la rielaborazione delle relative strutture della formazione penalistica;

stabilisce

che, fino al 31 luglio 2008, al fine dell’applicazione del Regolamento e del Protocollo citati, siano rispettati i seguenti criteri: A) quanto alla Scuola centrale di formazione specialistica per l’avvocato penalista: 1) fra i requisiti di ammissione alla scuola, da indicarsi nel relativo bando, siano previsti: - la presentazione di una dichiarazione di prevalenza dell’attività penalistica, sottoscritta dal candidato e, per conferma del suo contenuto, dal Presidente della Camera Penale competente per territorio o, in mancanza, dal Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati; - l’esercizio dell’attività professionale nel settore penale da almeno cinque anni o l’aver conseguito l’attestato di proficua frequenza ad un corso organizzato da una camera penale territoriale; 2) nella ammissione a detta Scuola siano preferiti i concorrenti che non abbiamo mai frequentato la Scuola centrale di formazione specialistica per l’avvocato penalista in anni precedenti, rispetto a coloro che l’abbiano già frequentata; B) quanto alle Scuole territoriali: sono confermati i criteri fissati dal Regolamento delle Scuole U.C.P.I. approvato dalla Giunta U.C.P.I. con delibera in data 6 novembre 2005. Ciò vale, allo stato, anche per i corsi organizzati a norma dell’articolo 29 disp. att. c.p.p., per i quali venga richiesto il riconoscimento al fine del conseguimento di crediti formativi; C) quanto agli “eventi formativi” diversi dalle scuole, previsti dal Regolamento sulla formazione continua approvato dal C.N.F., e che possono essere organizzati da singole camere penali o da più camere penali congiuntamente: 1 – i relatori – docenti devono essere scelti fra avvocati di consolidata esperienza professionale e docenti universitari, e, per esigenze particolari, da magistrati ed esperti; 2 – i contenuti devono vertere su temi di attualità giuridica e professionale del settore penalistico e materie ausiliarie; 3 – l’impostazione degli eventi deve avere carattere teorico-pratico, con obiettivi di approfondimento dei temi trattati;

stabilisce inoltre

- che la funzione di controllo sulle attività formative di cui alle lettere B) e C) è esercitata dalla Giunta U.C.P.I., attraverso una propria commissione, alla quale i responsabili delle dette attività formative devono trasmettere la richiesta di riconoscimento della singola attività formativa, corredata della documentazione relativa alla natura e alla durata dell’attività ed ai nominativi dei relatori – docenti, nonché l’indicazione delle modalità predisposte per il controllo e la rilevazione della partecipazione all’evento formativo e per il rilascio dei relativi attestati; - che la Giunta U.C.P.I., attraverso detta commissione, una volta ricevuta la richiesta e la documentazione sopra indicata, attribuisce ad ogni singola attività formativa per cui se ne faccia richiesta il numero dei crediti con essa conseguibili, in conformità al Regolamento sulla Formazione Continua; - che le attività formative per cui venga richiesta l’attribuzione di crediti devono avere carattere non oneroso, allo scopo determinando la contribuzione richiesta ai partecipanti con il limite massimo del solo recupero delle spese vive sostenute. Roma, il 24 novembre 2007
La Giunta U.C.P.I.

19 novembre 2007

Le osservazioni dell'UCPI sul "pacchetto sicurezza"



Dal sito dell'UCPI
OSSERVAZIONI
SUL «PACCHETTO SICUREZZA»




I : Introduzione
1- L’UCPI esprime una posizione di forte dissenso nei confronti del c.d. pacchetto sicurezza, laddove prevede misure destinate a riconfigurare istituti e meccanismi della giustizia penale del nostro Paese.
Osserva come, per l'ennesima volta, un potere politico incapace di programmare una crescita sociale strategica - fondata sulla promozione di adeguati standards di qualità di una convivenza democratica chiamata a confrontarsi con i problemi posti dai flussi migratori e, più in generale, dal multiculturalismo etnico - abbia deciso di affidare agli strumenti più obsoleti e controversi di una repressione penale d'antan (incriminazione di condotte espressive di disagio sociale, inasprimenti sanzionatori per fatti colposi, limitazioni di garanzie costituzionali processuali e potenziamento della prevenzione ante delictum) la funzione di contenere le ansie di una condizione di insicurezza collettiva, per molti versi alimentata dalla enfatizzazione mediatica di episodi che, pur nella oggettiva carica di efferatezza, appartengono, purtroppo, a ‘costanti’ nella storia della criminalità. Si ripropone, in tal modo, una concezione della penalità di stampo illiberale, paternalistico e populista, in quanto irriducibilmente simbolica ne è la funzione: il prospettato intervento di restrizioni di libertà e garanzie individuali, infatti, non trae origine da valutazioni concernenti la effettiva indispensabilità di tali misure ai fini del contenimento di determinati fenomeni criminali, bensì risponde ad esigenze di mera rassicurazione sociale, a loro volta funzionali ad una comunicazione puramente demagogica tra potere politico e società.

2 - Da tempo, la più avvertita riflessione teorica ha smascherato l'ipocrisia ideologica e l'efficacia criminogena di politiche criminali orientate in questa direzione. L'una risiede nel fatto che tali politiche - anziché rimuovere le cause strutturali delle situazioni che dichiarano di voler contrastare - si limitano semplicemente ad occultarle, finendo in tal modo per consentire al fenomeno criminoso di continuare a proliferare. La seconda fonda sulla considerazione che un disegno di penalizzazione concernente le aree della marginalità deviante, non accompagnato da interventi di riduzione del disagio sociale sottostante, rischia di generare effetti criminogeni.
La conferma di tale aberrante impostazione emerge tra le righe della premessa teorico-concettuale esplicitata nel preambolo del "pacchetto", su cui l’UCPI ritiene che sia urgente fare chiarezza in quanto il suo accoglimento - sul piano culturale e su quello dell'azione parlamentare - rischia di segnare l'avvio di una inquietante involuzione autoritaria nella politica criminale del nostro Paese. Ci si riferisce all'assunto secondo cui la sicurezza costituisce un diritto fondamentale dell'Unione Europea. L’UCPI reputa questa affermazione foriera di pericoli per il sistema delle garanzie penali e processual-penali dello Stato di diritto, ove il significato del concetto di sicurezza venga delineato quale rovescio speculare della nozione di ‘insicurezza sociale’. Se, infatti, la ‘sicurezza’ sia intesa quale assenza di ‘tranquillità sociale’ e, in tale sua conformazione, la si voglia qualificare come ‘diritto fondamentale’ la cui attuazione va perseguita attraverso gli strumenti del diritto e della procedura penale, non è difficile pronosticare l'eclissi del sistema di giustizia penale fondato sui principi costituzionali. Al riguardo, non c'è chi non veda come il ‘campo semantico’ presidiato da quel concetto sia così vago, ed intriso di condizionamenti emotivo-sociali, da risultare incompatibile con i caratteri che definiscono - per i costituzionalisti e i penalisti contemporanei - rispettivamente le nozioni di ‘diritto fondamentale’ e di ‘bene giuridico’. La sicurezza intesa quale positiva percezione di tranquillità - ovvero, in negativo, quale sua mancanza - non può configurare un ‘diritto fondamentale’ e neppure un ‘bene giuridico’. Non l'uno, perché essa non riflette una ‘situazione di valore’ riferibile alla persona umana, avente una autonoma portata rispetto alle classiche libertà individuali ed immediatamente giustiziabile. Non l'altra, perché priva dei caratteri di determinatezza ed afferrabilità, senza cui non si dà legittimo oggetto di tutela penale; tutt’al più, essa potrebbe costituire una mera ratio di tutela, vale a dire una unità teleologica di sintesi posta a fondamento di un articolato complesso normativo. Fondato, allora, è affermare che l'odierno concetto di ‘sicurezza’ rappresenti la versione lessicalmente aggiornata della nozione di ‘ordine pubblico’, vale a dire del famigerato referente di legittimazione del diritto penale di marca autoritaria e degli interventi repressivi di eccezione.

3 - Un esame del “pacchetto” porta a ritenere che, effettivamente, il legislatore - non potendo più spendere sul ‘mercato’ della produzione penale il concetto di ordine pubblico, perché ‘moneta priva di valore legale’ - si sia determinato a veicolarne i contenuti attraverso il nuovo passepartout del concetto di ‘sicurezza’. E che con tale concetto si sia voluto far riferimento ad entrambe le accezioni della nozione di ordine pubblico (quella ‘ideale-normativa’ e quella ‘empirico-materiale’) è assunto che risulta convalidato dall'esame del “pacchetto”. L'accezione ideale-normativa del concetto di ordine pubblico si ritrova nelle “Disposizioni in materia di certezza della pena”, ove, evidentemente, si allude al rafforzamento del diritto del singolo e della collettività di vedere rispettate le norme. L'accezione empirico-materiale della nozione è riflessa nelle “Disposizioni per il contrasto della illegalità diffusa”, ove viene introdotta la fattispecie di “impiego di minori nell'accattonaggio”, ampliata l'aggravante prevista dall'art. 112, n. 4, c.p., estesa la portata del delitto di danneggiamento e irrigidito il contenuto sanzionatorio della sospensione condizionale della pena per quest’ultima ipotesi. Occorre, dunque, smascherare la mistificazione che si aggira dietro l'impostazione del “pacchetto” ed affermare con nettezza illegittimità ed inutilità di norme coercitive con funzione di tutela della ‘sicurezza’. Ribadendo, così, che il solo significato che consente di accreditare la sicurezza nella categoria dei diritti fondamentali è quello che ne fa un corollario logico delle libertà individuali: non avrebbe senso alcuno proclamare queste ultime se non si garantisse ai loro titolari la sicurezza del relativo godimento.


II : I profili di illegittimità costituzionale

Sono da ribadire le osservazioni già svolte dall’U.C.P.I. nel documento presentato alla Commissione Affari Costituzionali del Senato il 6 novembre 2007. Al di là dì ogni giudizio circa l'opportunità politica e la ragionevolezza delle norme contenute nel D.L. 1 novembre 2007 n.181, modificativo del D.lgs. n.30 del 6 febbraio 2007, l'Unione Camere Penali Italiane intende sottoporre all'esame della Commissione Affari Costituzionali taluni profili di illegittimità costituzionale presenti nella normativa.

1. - La genericità dei "motivi imperativi di pubblica sicurezza". I “motivi imperativi di pubblica sicurezza” che legittimano l'immediata esecuzione da parte del Questore del provvedimento di allontanamento adottato dal Prefetto sono così definiti: “quando il cittadino dell'Unione o un suo familiare, qualunque sia la sua cittadinanza, abbia tenuto comportamenti che compromettono la tutela della dignità umana e dei diritti fondamentali della persona ovvero l'incolumità pubblica, rendendo la sua permanenza sul territorio nazionale incompatibile con l'ordinaria convivenza” (art. 20 comma 7 ter D.Lgs, n.30/2007 come modificato dall'art. 1, lett. e) del D.L. n. 181/2007). L'assoluta genericità di tali motivi e la discrezionalità (ai limiti dell'arbitrio) insiti nella formula normativa si pongono in palese contrasto con la previsione dell'art. 13 comma 3 della Costituzione, che legittima l'adozione di provvedimenti provvisori, limitativi della libertà personale, da parte dell'autorità di pubblica sicurezza soltanto “in casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge”. Il principio costituzionale di tassatività, introdotto proprio in ragione della eccezionalità dell'attribuzione all'autorità di pubblica sicurezza di siffatti poteri, impone certamente che le ipotesi legittimanti un simile eccezionale potere siano normativamente definite in maniera specifica, dettagliata, ed ancorata a parametri certi. Così è per esempio nelle ipotesi già regolate dal D. Lgs. n.286/1998 all'art. 13 comma 2, laddove l'esercizio in via provvisoria di poteri limitativi della libertà personale è vincolato alla ricorrenza di fattispecie precisamente determinate e oggettivamente verificabili.

2) - La rilevanza del comportamento del “familiare”. Fra i “motivi imperativi di pubblica sicurezza” che legittimano l'immediata esecuzione del provvedimento di allontanamento il decreto legge attribuisce rilevanza ai “comportamenti” tenuti dal “familiare” del soggetto destinatario del provvedimento (art. 20 comma 7 ter D.Lgs. n.30/2007 come modificato dall'art. 1, lett. e) del D.L. n.181/2007). Una simile previsione viola apertamente il principio di “personalità” legittimante ogni compressione del bene primario della libertà personale, talché non possono darsi limitazioni di essa in ragione di comportamenti tenuti da soggetti diversi dal destinatario del provvedimento di allontanamento.

3) - La mancanza di ogni vaglio giurisdizionale nelle ipotesi previste dai commi 8 e 9 dell'art. 20 del D.Lgs. n.30/2007. I commi 8 e 9 dell'art. 20 prevedono che qualora il destinatario di un provvedimento di allontanamento rientri nel territorio nazionale sia “nuovamente allontanato con provvedimento immediato”; quando il medesimo si trattenga nel territorio dello stato oltre il termine portato dalla intimazione, il questore disponga “l'esecuzione immediata del provvedimento di allontanamento dell'interessato dal territorio nazionale”. In entrambe le ipotesi l'immediata esecuzione del provvedimento di allontanamento, esercitabile tramite l'accompagnamento coattivo alla frontiera, non è presidiata da alcun controllo giurisdizionale. Si darà dunque l'ipotesi di soggetto che, colpito da un provvedimento di allontanamento con termine per adempiere (privo dunque di qualsivoglia garanzia di giurisdizionalità), venga poi nuovamente rintracciato sul territorio nazionale e dunque accompagnato coattivamente alla frontiera, senza che, neppure in questo caso, sia attivato un controllo giurisdizionale. Sul punto è noto l'orientamento della Corte Costituzionale, la quale, pronunciatasi più volte (fra le tante si vedano Corte Cost. n. 151 del 2001 e n. 222 del 2004) in materia di legittimità costituzionale del D. Lgs. 286/1998, ha ritenuto che il provvedimento di accompagnamento alla frontiera investa la libertà personale e pertanto richieda la piena operatività del controllo giurisdizionale previsto dall'art. 13 Cost. In conseguenza di tali pronunce lo stesso legislatore è intervenuto sul testo sopra citato, modificandolo nel senso di subordinare al pieno controllo giurisdizionale l'esecutività del provvedimento di accompagnamento. Consapevole di tale necessità la nuova normativa contempla, mediante il richiamo all'art. 13 comma 5 bis del D.Lgs, n.286/1998, il ricorso al procedimento di convalida ivi previsto, ma si limita a rendere operativa tale previsione nelle sole ipotesi previste dal comma 7 bis dell'art. 20. Le ipotesi di accompagnamento immediato previste dai commi 8 e 9 dell'art. 20 restano dunque prive di controllo giurisdizionale ed introducono pertanto in capo alla autorità di pubblica sicurezza un potere di compressione della libertà personale (l'accompagnamento alla frontiera) in aperta violazione del dettato dell'art. 13, comma 3, della Costituzione.

4. - La irragionevolezza della attribuzione della competenza al Giudice di Pace, contemplata dall'art. 20, comma 7 bis, come modificato dall'art. 1 lett. e) del D.L. 181/2007. Se è vero che il "giudice di pace" è "autorità giudiziaria" e dunque astrattamente soddisfa i requisiti previsti dal dettato costituzionale, non vi è dubbio che l'attribuzione a tale organo giudiziario dei poteri di convalida del provvedimento immediatamente limitativo della libertà personale sia scelta assolutamente "irragionevole" (come già lo era quella operata con l'art. 1 della Legge 12.11.2004 n.271, modificativa del D. Lgs. n.286/1998) alla luce delle finalità sottostanti l'istituzione del giudice di pace e l'attribuzione ad esso di competenza in materia penale, nonché dei limiti posti dalla normativa ai poteri sanzionatori esercitabili da tale organo di giustizia. Sotto il primo profilo non può sottacersi come il giudice di pace nasca come organo di composizione bonaria di conflitti fra privati e tale caratteristica conservi anche laddove ad esso sia consentito l'esercizio di poteri giurisdizionali in materia penale. Una simile funzione, che permea il ruolo di tale organo giudiziario (si consideri al riguardo non soltanto che dinanzi al Giudice di Pace il legislatore ha previsto come obbligatorio il tentativo di conciliazione, ma che tutti i delitti oggetto della competenza per materia del G.d.P. sono caratterizzati dalla procedibilità a querela), si connota di un carattere di assoluta eterogeneità rispetto a quella attribuita ad esso dal Decreto Legge, la quale si esplica nell'ambito di una categoria di controversie insorgenti tra la pubblica autorità nell'esercizio di funzioni pubblicistiche ed i privati, all'interno delle quali viene in rilievo la categoria potere pubblico-soggezione e le cui situazioni non sono nella disponibilità delle parti.
Ed irragionevole appare una simile attribuzione di competenza, destinata a legittimare l'immediato allontanamento dal territorio nazionale con il necessario conseguente esercizio di poteri di coercizione della persona, laddove si abbia a mente che al giudice di pace, nell'ambito della normativa che ne delinea le funzioni in materia penale, non è consentito infliggere sanzioni che comportino un immediato potere di coazione fisica sulla persona.

III : Le disposizioni di diritto penale
1. - L’'introduzione della fattispecie di “impiego di minori nell'accattonaggio” va decisamente censurata. Al riguardo, va rammentato che il reato (contravvenzionale) di mendicità era previsto dall'art. 670 c.p.: al primo comma si puniva la mendicità semplice; al secondo la mendicità c.d. molesta o invasiva. Mentre la prima fu cancellata dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 519/95, per la ragione che la condotta vietata, risolvendosi in una richiesta di aiuto, non esprimeva alcun contenuto di aggressione ad alcun bene giuridico, la seconda è stata abrogata con la legge 25 giugno 1999, n. 205. La nuova incriminazione, dunque, interviene in un ambito di assai dubbia legittimità sul piano costituzionale e di irragionevolezza politico-criminale. Ed invero, se l'accattonaggio non definisce un'area di meritevolezza penale - come ha statuito la Corte Costituzionale - non si vede come possa trovare piena giustificazione la punizione per il solo fatto che tale condotta venga realizzata avvalendosi di minori. Il contrario punto di vista dovrebbe far leva sulla enunciazione di un assunto palesemente irrazionale, e, dunque, contrario alla logica di funzionamento di un ordinamento giuridico: vale a dire quello secondo cui sarebbe legittimo punire una condotta - mezzo finalizzata al conseguimento di un risultato giuridicamente irrilevante. D'altra parte, va sottolineata la contrarietà della odierna incriminazione al principio solidaristico che permea i rapporti tra Stato ed individuo nel sistema dei valori costituzionali. Al riguardo, va tenuta in debita considerazione - ancora una volta sulla scia di quanto hanno affermato i giudici costituzionali nella decisione innanzi citata - che le condotte, di cui si vorrebbe reintrodurre la punibilità, sono pur sempre espressione di disagio e marginalità socio-economica, conseguentemente, uno Stato ispirato dalla logica solidaristica dovrebbe, rispetto ad esse, promuovere misure di aiuto e sostegno, anziché reagire con strumenti repressivi.

2. - Parimenti negativo è il giudizio riguardo a tutte le disposizioni che prevedono aumenti edittali di pena. Per un verso, va sottolineato che la revisione delle comminatorie edittali si limita ad accentuare la forbice tra il minimo ed il massimo della pena ampliando, così, la discrezionalità commisurativa del giudice. È facile prevedere che, in tal modo, si moltiplicheranno esclusivamente le disparità di trattamento, senza peraltro che si incrementi l'efficacia general-preventiva, nel suo aspetto di deterrenza poiché - in mancanza di una riforma complessiva della commisurazione della pena - la prassi si attesterà su risposte punitive di esiguo spessore. Va, ancora una volta, ribadito che un sistema penale di matrice liberal-democratica e, quindi, conforme alle direttive della extrema ratio e della proporzionalità, deve puntare -secondo la sempre attuale lezione di Beccaria - su pene miti, ma certe, e non su sanzioni draconiane ma di incerta applicazione. Peraltro, è il caso di evidenziare come, nella odierna cornice costituzionale, l'aspirazione alla certezza della pena va intesa nel senso della effettività delle finalità preventive (di natura positiva) da perseguire e non, invece, quale arcaica pretesa alla indefettibilità della esecuzione, così come vorrebbe una superata concezione retributiva.

3. - Irragionevole, è, poi, la previsione dell'art. 590 bis laddove, per i delitti di lesioni colpose ed omicidio colposo, commessi con violazione delle norme sulla circolazione stradale, si introduce una limitazione al giudizio di comparazione delle circostanze attenuanti con quelle aggravanti.

4. - Contrarietà va manifestata anche rispetto alla introduzione del delitto di adescamento di minorenni, per palese indeterminatezza dell’enunciato normativo. Si fa, invero, riferimento all’intrattenimento di una relazione tale da carpire la fiducia del minore. Si tratta di una struttura normativa che appare, oggettivamente, insuscettibile di tassativa applicazione; essa presenta più di un aspetto di analogia con fattispecie che la Corte Costituzionale ha cancellato dal nostro ordinamento, sul presupposto della loro "non provabilità processuale" (cfr sentenza n. 96/1981).

IV : Le disposizioni sul processo penale

Le disposizioni che prevedono interventi sul processo penale sono censurabili sia per la loro disorganicità, sia per l'impianto complessivo, che intacca la struttura accusatoria del processo (ampliando, ad esempio, le ipotesi di incidente probatorio). Le singole disposizioni, poi, specialmente quelle in tema di libertà personale, incidono pesantemente su principii e valori costituzionali. In particolare:

A) Quanto all'ampliamento della possibilità di applicare misure cautelari

1. E' inaccettabile l'ampliamento indiscriminato dei casi in cui si può procedere alla applicazione di misure cautelari (consentendone l'emissione, tra l'altro, anche in caso di pericolo di reiterazione di fatti non specifici o non connotati da uso di violenza), di fatto violando la regola generale secondo cui la applicazione delle stesse deve costituire un’ 'extrema ratio’;
2. La possibilità di considerare la personalità dell'individuo - ai fini della valutazione del parametro della concretezza e attualità della pericolosità sociale in sede cautelare - anche sulla base di semplici "precedenti giudiziari" aprirà la strada all'arbitrio e alla utilizzazione di informazioni di polizia incomplete o parziali, ovvero fondate su semplici sospetti o annotazioni sommarie;
3. La disposizione che consente, sia pure solo in alcuni casi (in particolare per i recidivi specifici infraquinquennali), di applicare la misura cautelare all'esito della sentenza di primo grado o di appello valutando anche la sussistenza di "elementi sopravvenuti" (tra i quali potrà rientrare la stessa sentenza non irrevocabile) implica, di fatto, un automatismo nella valutazione de libertate che non può considerarsi accettabile e che fa trapelare una chiara sfiducia nella magistratura, cui sottrae facoltà discrezionali.
Tale disposizione si pone inoltre in contrasto con il principio della presunzione d'innocenza ed è connotata dall'evidente finalità politica di compiere surrettiziamente un primo passo in direzione del principio della immediata esecutività delle sentenze di primo grado, notoriamente propugnato da ambienti ministeriali che rappresentano le posizioni della magistratura associata;
4. L'ampliamento sostanzialmente indiscriminato (previsto nel nuovo testo dell'art. 275 c.p.p.) delle ipotesi di obbligatorietà della custodia in carcere, ponendo a carico dell'interessato la prova "diabolica" dell'insussistenza di esigenze cautelari quale sola possibilità di evitare l'applicazione della misura inframuraria, rappresenta un preoccupante ritorno ad ipotesi di "cattura obbligatoria" di cui al vecchio codice di ispirazione autoritaria. Ipotesi tanto più inaccettabili in quanto non consentono una valutazione discrezionale del giudice sulle esigenze cautelari caso per caso.La disposizione in parola incide sulla presunzione di non colpevolezza ed inoltre, in virtù dell'ampio ventaglio d'ipotesi criminose per cui è prevista la obbligatorietà della custodia in carcere (che prevedono pene diverse e variegate) la norma contrasta anche con il principio d'uguaglianza, assimilando ingiustificatamente ipotesi delittuose che prevedono sanzioni estremamente diversificate sotto il profilo quantitativo;

B) Quanto all'accoglimento dell'appello del pubblico ministero in sede di appello de libertate ed alla sua immediata esecutività:

1. L'abrogazione dell' art. 310, co. 3 c.p.p., diretta a determinare la immediata esecutività dell'eventuale accoglimento dell'appello del pubblico ministero da parte del Tribunale del riesame contrasta con finalità costituzionalmente rilevanti, ed in particolare con il principio del favor libertatis, come riconosciuto dalla Corte Costituzionale. In una sua decisione (ord. 20 luglio 1994, n. 324) la Corte, ritenendo legittimo proprio il vigente testo dell'art. 310 co. 3 c.p., ha rimarcato la rilevanza costituzionale della sospensione della decisione di accoglimento dell'appello del pubblico ministero sino alla decisione definitiva.

C) Quanto all'ampliamento dei casi in cui potrebbe procedersi ad incidente probatorio:

1. L'ampliamento in parola (nei processi a carico dei cosiddetti soggetti deboli, anche maggiorenni) contrasta con plurime decisioni della Corte Costituzionale che hanno escluso la incostituzionalità delle disposizioni che limitano ai reati sessuali ed ai minorenni l'incidente probatorio dichiarativo (Corte Cost., 18 dicembre 2002, n. 529);
La stessa Corte (9 maggio 2001, n. 114) ha anche chiarito come, per reati diversi da quelli "sessuali" esistano istituti diversi dall'incidente probatorio diretti ad assicurare la tutela del testimone e la genuinità della prova (art. 472 comma 4 c.p.p., il quale consente al giudice di procedere a porte chiuse; l'art. 498 comma 4 c.p.p., il quale impedisce alle parti di condurre direttamente l'esame incrociato del minore; l'art. 498 comma 4 bis c.p.p. introdotto dall'art. 13 comma 6 l. n. 269 del 1998);
2. Va ricordato che l'ampliamento dell'incidente probatorio altera il sistema accusatorio, trasformando il G.I.P. in una figura assimilabile al vecchio giudice istruttore e derogando inaccettabilmente alla assunzione della prova in dibattimento. In tal modo si determina una minorata difesa delle parti, poiché le indagini preliminari, nel momento della celebrazione dell'incidente probatorio, possono non essere complete (o integralmente note alle parti).

D) Quanto all'ampliamento di casi per procedere a giudizio immediato:

1. L'ampliamento dei casi di giudizio immediato per gli indagati in stato di custodia cautelare la cui misura cautelare sia stata confermata in sede di riesame o che non abbiano attivato la relativa procedura ex art. 309 c.p.p., sacrifica anzitutto il filtro dell'udienza preliminare, che è configurata da numerose sentenze di legittimità come una garanzia per l'indagato. Sembra chiara l'intenzione dei proponenti la modifica di celebrare processi sbrigativi e sommari;
2. Le disposizioni in questione contrastano inoltre con la giurisprudenza della Corte di Cassazione, che richiede l'evidenza della prova per procedersi legittimamente a giudizio immediato.
In proposito, è inaccettabile che la decisione sfavorevole in sede di riesame sia assimilata alla "prova evidente" (posto tra l'altro che, dopo la stessa, all'interno dei 180 giorni che renderebbero possibile richiedere il giudizio immediato, potrebbe verificarsi un'attenuazione del quadro indiziario sulla base di successive indagini).
Sconcertante, poi, che sia assimilata alla evidenza probatoria la non proposizione della richiesta di riesame, quasi configurando il mancato esercizio di tale facoltà come un comportamento ammissivo che consente, appunto, di non celebrare l'udienza preliminare e di procedersi a giudizio immediato.

E) Quanto alla abolizione del patteggiamento in appello:

1. Anche tale disposizione riflette esigenze demagogiche degli ideatori del "pacchetto sicurezza", sopprimendo uno di quegli istituti che consentivano una deflazione processuale e, nel contempo, la definizione più rapida del procedimento con la irrogazione di una sanzione certa e comunque "controllata" dall'accusa e dal giudice.
L'esigenza di "velocizzare" il processo qui viene meno, denunziando il vero intento del disegno di legge, che è quello di fungere da specchietto per le allodole nei confronti della pubblica opinione.

F) Quanto alla sospensione della esecuzione della pena irrogata:

1. Non è accettabile l'esigenza di esemplarità sottesa alla disposizione (diretta a modificare l'art. 656 co. 9 c.p.p.), che trascura la possibilità che vi siano casi in cui l'esecutività della sentenza meriti l'attesa di una preventiva decisione della magistratura di sorveglianza, manifestando in tal modo, tra l'altro, una palese sfiducia nei giudici;
2. Questa ed altre disposizioni del pacchetto sicurezza traggono una qualche apparente legittimazione dalla lunghezza sproporzionata dei tempi del giudizio e, in questo caso, del procedimento di sorveglianza (è noto che la magistratura di sorveglianza si pronunzia a volte due o tre anni dopo il passaggio in giudicato delle sentenze di condanna).
Invece di operare in termini seri (stanziamenti economici; strutture; numero dei magistrati) per consentire che la valutazione del giudice di sorveglianza avvenga in tempi rapidi dopo la astratta eseguibilità della sanzione (e risolvere dunque in tal modo il problema "di sicurezza" e della certezza della pena), si dà in definitiva per scontato che il condannato resterebbe libero per anni dopo il passaggio in giudicato della sentenza. Sicché si prevede sic et simpliciter l'automatica esecuzione della sanzione, magari verso individui che hanno commesso reati anni e anni prima -visti i tempi del nostro processo- e che soggettivamente potrebbero essere recuperati in ossequio al disposto dell'art. 27 Cost.
3. Non va dimenticato, infine, che il tasso di recidiva è tra i più bassi per i soggetti ammessi ai benefici della legge penitenziaria: ulteriore ragione per avere perplessità verso disposizioni quali quella che si vorrebbe introdurre.
V : Le disposizioni sulla criminalità organizzata

La legge delega per l’emanazione di un testo unico delle disposizioni in materia di misure di prevenzione, seppure ispirata da condivisibili propositi iniziali, quali sono quelli di dare "una sistemazione organica alla materia", frutto di una stratificazione di norme elaborate nel corso degli ultimi 50 anni, e di prevedere anche per le misure di prevenzione, analogamente a quanto avviene per gli illeciti penali, che venga affermato il principio di legalità, sembra tuttavia improntata a principi di forte stampo autoritario che ledono fortemente le primarie garanzie di natura processuale e costituzionale.
Per la prima volta si è introdotto il concetto di "pericolosità del bene" in ragione del suo vincolo di strumentalità con l'azione criminale, cosicché si potrà sequestrare un bene ritenuto frutto di attività illecita anche quando lo stesso non sia più nella disponibilità del soggetto “pericoloso”.
Si prevede, quindi, la possibilità di irrogare disgiuntamente le misure di prevenzione patrimoniale, disancorandole da soggetti dediti alla commissione di reati e basando tali misure su sbiaditi elementi di fatto.
Tale situazione, però, rischia di creare non pochi problemi allorquando il bene, reimmesso nel circuito economico, sia divenuto di proprietà di chi lo ha acquistato, magari dopo diversi passaggi, in perfetta buona fede e senza il più pallido indizio circa la sua provenienza delittuosa.
Una maggiore tutela del diritto di proprietà e del terzo acquirente in buona fede andrebbe senz'altro garantita, specie quando il bene non è stato destinato ad alcuna attività pericolosa per la collettività.
Altre disposizioni che lasciano più che perplessi e che, anzi, appaiono addirittura inquietanti, sono quelle concernenti la c.d. "denuncia di assoggettamento" che diventa una vera e propria imposizione e coartazione della volontà, ove si consideri che, allorquando essa non interviene da parte dell'imprenditore, in tutti quei casi in cui si ritiene che costui abbia subito un sopruso e sia vittima di reati da parte della delinquenza organizzata, scatterà il sequestro e la confisca di prevenzione della sua azienda "salvo che i titolari d'impresa non collaborino concretamente con l'autorità di polizia o l'autorità giudiziaria".
Si tratta di un vero e proprio ricatto operato dallo Stato nei confronti dell'imprenditore che si troverà spogliato dei suoi beni ove non decida di collaborare con la giustizia.
Ancora, estremamente penalizzante è la previsione della "obbligatorietà delle investigazioni patrimoniali e dell'esercizio dell'azione di prevenzione" "dopo l'esercizio dell'azione penale".
Molto più adeguato ed opportuno sarebbe far scattare l'azione di prevenzione soltanto dopo che sia intervenuto almeno il rinvio a giudizio da parte del GUP in modo che si operi un controllo giurisdizionale circa la fondatezza dell'azione penale.
Inefficace appare, inoltre, la tutela riservata ai terzi creditori che interviene soltanto all'esito della eventuale applicazione della misura stessa anziché prima dell'applicazione.
Inaccettabili infine le disposizioni che limitano per taluni reati o soggetti l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, che ledono il diritto di difesa per taluni imputati.

VI : Le disposizioni sulla Banca dati del DNA

1. - Uno dei disegni di legge del c.d. pacchetto sicurezza ha per oggetto l’adesione al Trattato di Prum (un accordo di cooperazione per contrastare terrorismo, criminalità e migrazione illegale concluso il 27.5.2005 tra sette paesi dell'Unione europea) e l'istituzione della banca dati del DNA. Attesa l’appartenenza dell'Italia all'Unione europea e l'ampio dibattito che sul punto si è sviluppato in questi anni, l'istituzione della banca dati del DNA è argomento sul quale non è storicamente sostenibile una posizione pregiudizialmente contraria. La complessità delle problematiche collegate a detta istituzione impone tuttavia di valutare con particolare cautela le soluzioni che legislativamente vengono avanzate. Per questa ragione l’UCPI nel proporre alcune prime osservazioni sul merito non può che manifestare sostanziali perplessità su alcune scelte di fondo che attengono al come è prevista l'effettuazione del prelievo, a chi vi deve essere sottoposto, e a coloro che potranno accedere alla consultazione dei dati raccolti.

2. - L'art. 9 comma 4 prevede che i soggetti individuati dalla stesso articolo siano ‘sottoposti a prelievo di campioni di mucosa del cavo orale’. Tale modalità è passibile di alcune osservazioni critiche. Anzitutto il prelievo, per poter essere effettuato, impone di aprire la bocca e la conseguente introduzione di strumento idoneo all'operazione (tampone boccale) e, in caso di rifiuto, l'operazione coattiva non potrà che essere connotata da uso di violenza e in violazione della dignità della persona (il prelievo con puntura digitale di comune uso sanitario è certamente meno invasivo). Inoltre, l'assenza di specificazione delle misure adottabili per ottenere il prelievo in caso di rifiuto è anch'essa in contrasto con l'articolo 13 della Costituzione ed è già stata oggetto di censura nella sentenza della Corte Costituzionale 9 luglio 1996 n.238.
L'art. 9 prevede che il prelievo possa essere effettuato solo per delitti non colposi per i quali è consentito l'arresto facoltativo in flagranza: questa regola presenta però eccezioni (ad esempio l'esclusione dei reati commessi da pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione) che risultano difficilmente intelleggibili.
Del tutto ingiustificato pare l'assoggettamento al prelievo di tutte le persone sottoposte a misura cautelare, tenuto conto che, come spesso accade, potrebbero essere scarcerate dopo pochi giorni per insussistenza della gravità degli indizi, mentre evidente è il rischio di un utilizzo ancor più spregiudicato di quello attuale delle misure privative della libertà personale al fine di ottenere le condizioni di diritto per eseguire i prelievi.

3. - Sulla stessa pericolosa impostazione si inserisce l'art. 13, che prevede la cancellazione dei dati e la distruzione dei campioni biologici dopo l'assoluzione con sentenza definitiva con la sola formula perchè il fatto non sussiste. Lo stesso articolo prevede che in tutti gli altri casi il profilo del DNA resti inserito nella banca dati nazionale per 40 anni e la conservazione del campione biologico per 20 anni.
Nella relazione illustrativa in ordine al tempo di conservazione si legge: ‘è evidente che il funzionamento della banca dati del DNA è legato al fenomeno della recidiva: le possibilità che il profilo del DNA di un soggetto arrestato per i reati previsti dalla presente legge sia riconosciuto corrispondente alle tracce di un altro reato aumentano in proporzione alla ampiezza del lasso temporale in cui tale confronto è possibile; al di sotto di un limite minimo la banca dati nazionale del DNA potrebbe risultare inutile (tenendo conto di un primo periodo in cui il soggetto rimane detenuto)’. Si è ritenuto di riportare in modo testuale il contenuto della relazione sul punto perché sintetizza una summa di ragionamenti inconferenti: non si comprende invero come possa rilevare il fenomeno della recidiva per soggetti assolti con formula diversa dal fatto non sussiste. Pare pertanto di poter ricavare, in assenza di spiegazioni adeguate, una preoccupante volontà di estendere i casi non solo del prelievo ma anche della conservazione, con il rischio - neppure tanto remoto - di schedature generali che non possono e non devono trovare giustificazioni nella generica necessità di una più efficace persecuzione dei reati.

4. – L’art. 12 disciplina il trattamento dei dati e l’accesso alla banca dati. La previsione dell’accesso è argomento di fondamentale interesse anche per i difensori. A tal proposito la norma prevede che l’accesso sia consentito alla polizia giudiziaria e all’autorità giudiziaria, ma nulla è detto con riferimento ai difensori.
Secondo l’UCPI la materia necessita di una previsione specifica. E’ evidente che gli avvocati difensori devono poter accedere alla banca nell’ambito delle investigazioni difensive e non è possibile accontentarsi del cenno riservato dalla relazione in cui si legge “le richieste potranno pervenire soltanto dalle forze di polizia, dall’autorità giudiziaria, nonché, nei limiti della legislazione, dai difensori nel quadro delle investigazioni difensive”. Non può essere ritenuto casuale che solo quest’ultima parte non sia stata trasfusa nella norma ma venga richiamata solo nella relazione.
Da questi primi spunti risulta evidente che debbano essere apportate significative modifiche per rendere la proposta accettabile e conforme al nostro dettato costituzionale.


Roma, 19 novembre 2007


La Giunta dell’Unione Camere Penali
A cura del Consiglio di gestione della Scuola centrale di formazione specialistica per l'avvocato penalista .

Il Comitato di gestione

  • Avv. Ettore Randazzo, responsabile nazionale delle Scuole dell'UCPI
  • Avv. Beniamino Migliucci, delegato della Giunta dell'UCPI
  • Avv. Valerio Spigarelli
  • Avv. Carmela Parziale
  • Avv. Vincenzo Comi

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