La rassegna di dottrina e giurisprudenza del Corso nazionale di formazione specialistica dell'avvocato penalista organizzato dall'Unione delle Camere penali italiane in collaborazione con il Centro per la formazione e l'aggiornamento professionale degli avvocati del Consiglio Nazionale Forense.

25 ottobre 2007

CASSAZIONE O TERZA ISTANZA? . Relazione dell'Avv. Valerio Spigarelli, Foro di Roma.

CASSAZIONE O TERZA ISTANZA?
Relazione dell’Avvocato Valerio Spigarelli

Considerazioni introduttive.

L’immanenza della questione del ruolo della Corte di Cassazione tra funzione nomofilattica e giudizio nel caso concreto.

La problematica del ruolo della Corte di Cassazione nell’esercizio della giurisdizione penale e, con essa, l’interrogativo che dà il titolo a questo intervento, resi particolarmente attuali a seguito delle modifiche apportate dalla L. 46/2006 alla lettera e) dell’art.606 comma 1 c.p.p., sono da sempre oggetto di esame e di studio da parte degli operatori del diritto.
Dalla risposta fornita di volta in volta dal legislatore dipende infatti la disciplina del limiti del sindacato del Supremo collegio nell’ordinamento processuale; dai diversi orientamenti della dottrina sul punto dipendono la critica, le proposte di riforma ovvero il consenso alle scelte del legislatore; dagli indirizzi della stessa Suprema Corte dipende il concreto atteggiarsi dei limiti del suo sindacato in sintonia o meno con le intenzioni del legislatore.
In estrema sintesi, la soluzione è diversa a seconda del peso che si dà alle singole componenti in gioco, quali l’esigenza di uniforme applicazione del diritto, la ragionevole durata del processo, la garanzia dei diritti individuali e del diritto di difesa in particolare, la compressione del rischio dell’errore giudiziario.1

Ed allora, per affrontare questa tematica è, anzitutto, indispensabile analizzare – alla luce delle radici dell’odierna Corte di Cassazione e delle modifiche normative via via intervenute – il vero senso dell’espressione “vaglio di legittimità” e in che misura esso possa comprendere anche un’analisi di possibili errori nella valutazione della prova espressi nella motivazione del provvedimento che avanti alla Corte viene esaminato.
La premessa concettuale riposa nel fatto che, da tempo, nel diritto vivente la legittimità non si pone in alternativa assoluta ed inconciliabile con una “terza istanza”, ovvero, come il vaglio della Corte di Cassazione possa, entro certi limiti, estendersi al travisamento del fatto come accertato nel giudizio anche senza snaturare la propria funzione.
La sintesi perfetta di tale questione si trova nelle parole di autorevole dottrina, secondo cui: “Quanto ai profili attinenti il “ruolo” della Cassazione (…), la contrapposizione in forma alternativa di diversi modelli di Corte Suprema è operazione prettamente teorica, mentre nella realtà della nostra esperienza giuridica (…) la Cassazione penale assolve funzioni partecipi, nello stesso tempo, di più tipologie astratte.

Non è dunque in questione, da questo punto di vista, una drastica scelta tra le due possibili alternative teoriche della Cassazione penale come giudice supremo di pura legittimità, ovvero come giudice di terza istanza che garantisce la decisione del singolo caso.

Piuttosto, l’indicazione prevalente è per una equilibrata soluzione di compromesso, che tenda cioè a contemperare i valori della certezza giuridica e dell’eguaglianza di trattamento, potenziati da un auspicato rilancio della funzione nomofilattica, con l’altrettanto importante obiettivo di scongiurare il rischio di singole decisioni arbitrarie o ingiuste – senza che ciò debba, peraltro, comportare un eccessivo sconfinamento nella valutazione delle questioni di merito.”2
Un’opinione, questa appena richiamata, non a caso espressa in un momento di passaggio tra il vecchio ed il nuovo codice di rito, nell’ambito di un lavoro collettivo che, sintetizzando antiche problematiche e rinnovate soluzioni, aveva giocoforza riproposto – direttamente o meno – una riflessione sul modello astratto al quale la Corte, ed il relativo grado di giudizio, dovevano ispirarsi.
Del resto la stessa distinzione fa riferimento ad una contrapposizione il cui senso, in un sistema che comunque impone l’obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali nella carta fondamentale ed ammette il sindacato sulla illogicità della sentenza, ben può essere sfumato.
Appare infatti indubitabile che lo stesso punto di raccordo tra la funzione nomofilattica della Corte di Cassazione e l’esigenza di una valutazione sul giudizio di responsabilità nel caso concreto è dato, ovviamente, dal controllo sulla motivazione della decisione oggetto di esame, funzione che appare – e soprattutto si è dimostrata nel tempo - incomprimibile.
Il convincimento di chi scrive, al riguardo, coincide con quello ben più autorevole di un giurista, e avvocato, che riteneva il controllo della motivazione “una delle più importanti funzioni della cassazione” 3, conclusione condivisibile in assoluto ed ancor di più oggi in un sistema in cui il giudizio di primo grado è sovente affidato a giudici non togati o monocratici
Insomma, la tesi che si coltiva è quella secondo cui nel nostro sistema opera da tempo un modello che, se non rispondente alla terza istanza, poiché vede comunque inibita una rivalutazione del merito, si potrebbe definire tendenzialmente tale, dove l’estensione o meno dei poteri di controllo sono stati determinati, nelle diverse fasi storiche, proprio dalla giurisprudenza della Corte.

Non è un’opinione originale né nuova, per la verità, poiché si avvicina a quella espressa con molta forza e coerenza da altri, in passato, che, nel reclamare un giudizio pieno di terza istanza aveva concluso che in realtà la Corte era “già arbitro di contenersi come organo di terza istanza”4.
Peraltro anche la dottrina più attenta ai limiti del controllo di legittimità ha sottolineato che “da istituto concepito essenzialmente con funzioni di tutela di diritto oggettivo, la Corte di Cassazione si è trasformata in istituto con funzioni di tutela della legalità della decisione e dunque, anche, e soprattutto, del diritto della parte coinvolta nel processo. Ciò non significa che il richiamo all’art. 65 dell’ordinamento giudiziario sia divenuto inattuale e che non vi sia un’esigenza, anche di ordine costituzionale, di assicurare «l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge»; significa solo che la funzione nomofilattica della Corte non deve essere enfatizzata al punto di far dimenticare il ruolo che, anche per effetto dell’art. 111 Cost., ha assunto in maniera sempre più ampia il ricorso per cassazione come mezzo di tutela ultima degli interessi delle parti coinvolte del processo.” 5.
Va da sé che la tesi accolta da chi scrive è quella di chi, comunque, non condivide un modello di Corte Suprema in cui lo jus constitutionis imperi e il diritto del singolo sia solo l’occasione della disputa. Tanto più che la materia che occupa è quella del processo penale, nel quale la soggezione alla legge, ed anche il controllo di legalità, è strettamente connesso alla possibilità di controllo delle prove. Per dirla con Ferrajoli “E’ chiaro che il giudizio sulla motivazione è un tutt’uno con il giudizio di legalità e che il controllo sulla consistenza (non delle prove) ma del ragionamento probatorio è un tutt’uno con le garanzie di legalità espresse dai tre classici brocardi nulla poena sine crimen, nulla poena sine lege, nulla poena e nullum crimen sine judicio”6.
Ma non solo. Il recepimento di un modello ove la nomofilachia sia realmente oggetto preminente del giudizio è fondato inevitabilmente su di una selezione dei ricorsi, il che appare impraticabile nell’attuale quadro costituzionale e foriero di una caduta del controllo di legalità de jure condendo. Peraltro, molto di quanto era possibile fare per rafforzare la nomofilichia, in un sistema che comunque rende libero l’interprete di adottare o meno il precedente giurisprudenziale, è stato fatto al momento della riforma del codice di rito. Al riguardo è appena il caso di richiamare quelle norme, 610 comma secondo, 618 c.p.p. e 172 e 173 terzo comma disp. di attuazione, che hanno evidentemente rafforzato le funzioni delle SS.UU. ovvero quel che è stato fatto al momento in cui si è istituito uno screening preliminare di ammissibilità della cui efficienza, talvolta draconiana, non è da dubitarsi.
In base a tali premesse di seguito si approfondiranno in particolare le tematiche sul vizio della motivazione, censurabile ex art.606 lett. e), esaminando in particolare modo la questione del travisamento del fatto e dei limiti alla sua ricorribilità.

In questa ottica si affronterà quindi la questione relativa alla possibilità che censure avanzate di fronte alla Corte di Cassazione (e rientranti appieno nei limiti del suo sindacato) siano da questa valutabili anche – e, in alcuni casi, soltanto – attraverso la verifica degli atti processuali, evidenziando l’esistenza nel nostro sistema processuale di un ruolo della Cassazione quale giudice facti ex actis già prima che la limitazione introdotta dal legislatore del 1988 “al testo del provvedimento impugnato”, con riferimento all’ipotesi di cui all’art.606 lett. e), venisse rimossa ad opera della L. 46/2006. Sulla scorta di queste considerazioni, sarà dunque possibile definire il ruolo del giudizio di cassazione nell’ambito del sistema, vieppiù alla luce della novella dell’art. 606 lett. e) operata dalla L. 46/2006 che ha dato veste normativa ad una regola che non solo storicamente esisteva già, e in alcuni casi veniva applicata persino nel vigore della precedente formulazione, ma che, soprattutto, lungi dal rappresentare uno stravolgimento della funzione della Cassazione, è perfettamentein linea con i limiti del suo sindacato così come da tempo riconosciuto e praticato.
Del resto, un esame ai dibattiti svolti al momento della introduzione del codice vigente, svela come il tema del confronto tra i due sistemi sia approdato costantemente a quello del tipo di vaglio di legittimità più che alla realistica probabilità dell’adozione di un sistema radicalmente diverso.


Le origini del giudizio di cassazione: la nomofilachìa come strumento per la difesa della egemonia del potere legislativo..

Il primo istituto collegabile alla nostra Corte di Cassazione, è la Cour de Cassation, che nasce da una deliberazione del senato consulto del 28 floreale anno II (18 maggio 1803). Attraverso questa trasformazione, il Tribunal de Cassation, sorto durante la rivoluzione francese, entra a pieno titolo all’interno del panorama giuridico nella veste di supremo organo giurisdizionale dell’ordinamento giudiziario.7
L’istituzione della Cassation, ed in particolare la funzione di armonizzazione, rispondeva “ad un disegno ideologico teso a difendere e promuovere il nuovo ordine giuridico che si è voluto sostituire all’antico” ed il giudizio “di terzo grado veniva derubricato in un giudizio di cassation essenzialmente per avere la garanzia che l’attività di uniformazione giurisprudenziale desse concretezza al diritto positivo nazionale emanato dal legislatore”8 .
Se l’affermazione non suonasse irriverente, si potrebbe concludere che la cassazione nasce come strumento di controllo politico (recte: del potere legislativo) sull’operato dei giudici.
Sta di fatto, come riassume Cordero 9, che neppure ai suoi albori, e nonostante le intenzioni dei suoi inventori, la Cassazione era “un organo poliziesco – legislativo, come velleitariamente pretendono i costituenti” ciò “è chiaro fin dall’atto costitutivo..”; così come è chiaro che, una volta venuta alla luce, essa inneschi un conflitto con chi l’ha creata : è la storia di un conflitto “ le assemblee vogliono una Cassation che non giudichi, ridotta puro controllo della fedeltà testuale; l’organo sviluppa funzioni giusdicenti”.
In ogni caso a quell’idea si deve la codificazione e, parallelamente, la Cassazione, così come essa si è venuta concretando e consolidando fino al nostro tempo; ed è una idea permanente, che si riflette nell’art.65 dell’Ordinamento giudiziario italiano che definisce la Corte di Cassazione quale “organo supremo della giustizia che assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale”, parole nelle quali avvertiamo l’enfasi e l’eco lontana della rivoluzione francese.
Anche in Italia la nascita della Cassazione si accompagna ad identica tensione antigiurisprudenziale, anche se condita da minori speranze nei confronti della pratica attuabilità della nomofilachìa10 che, per il vero, nel corso del tempo ha registrato alterne vicende finanche all’interno del supremo collegio11, affrontate nel codice dell’1988 attraverso la introduzione di norme specifiche tese a rafforzare proprio tale funzione12.Va sottolineato che, nel caso della Cassazione italiana, la funzione storicamente preminente, prima ancora che l’armonizzazione della legge, fu quella del concorso alla creazione del processo di unità nazionale del diritto.13

Progressivamente, “caduto il mito della oggettività della legge e della funzione dichiarativa della interpretazione”14 alla formale divisione tra il processo e il giudizio di Cassazione, si è sovrapposta una materiale ingerenza nel giudizio del caso concreto da parte di questo organo. Tale trasformazione è testimoniata, da un lato, dalla costante aspirazione delle parti a riproporre alla Corte il giudizio di fatto, forzando o raggirando la lettera della legge, dall’altro attraverso la stessa tendenza della Corte ad invadere il terreno del fatto. Come risulterà dalla analisi successivamente svolta, questo fenomeno è dimostrato sia dalla giurisprudenza formatasi nel vigore del codice del 1930, sia in quella formatasi dopo l’entrata in vigore di quello del 1988, anche se con particolari caratteristiche.
Questo sommario excursus vale solo ad evidenziare come il riferimento al caso concreto ed alla sua soluzione, secondo le regole del giudizio proprio della Corte di legittimità, oltre che coevo alla nascita dell’istituto, sia da sempre il frutto della autonomia della giurisdizione.
Quanto invece alla più specifica questione in ordine alla funzione preminente della nostra cassazione, così come individuata al momento del mutamento dell’ordine costituzionale, è stato sottolineato “l’insuccesso di ogni tentativo, operato in sede costituente, per definire come organo esclusivamente nonofilattico la Corte di Cassazione: dall’art.12 dell’originario progetto Calamandrei – che prevedeva espressamente “al vertice dell’ordinamento giudiziario, unica per tutto lo Stato,…la Corte di Cassazione istituita per mantenere l’unità del diritto nazionale attraverso l’uniformità della interpretazione giurisprudenziale e per regolare le competenze dei giudici” – ai numerosi emendamenti aggiuntivi – che suppergiù dello stesso tenore vennero presentati – nessuno sortì l’effetto di tradursi in una disposizione del testo costituzionale” 15.
Rilievo dirimente in ordine al fatto che, a Costituzione invariata, quella nomofilattica non possa costituire l’unica funzione della cassazione.


Il controllo della Corte di Cassazione sul vizio motivazionale della sentenza quale scelta sistematica.

Il punto di raccordo tra la funzione nomofilattica della Corte di Cassazione e l’esigenza di un vaglio critico sul giudizio di responsabilità nel caso concreto è dato, ovviamente, dal controllo sulla congruità della motivazione.
Come già richiamato nel capitolo introduttivo, secondo il disposto di cui all’art. 111 Cost., infatti, da un lato “tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati”, dall’altro, “contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari e speciali, è sempre ammesso ricorso in cassazione per violazione di legge”.

Il collegamento tra le due enunciazioni evidenzia dunque la stretta connessione tra la funzione assegnata alla Corte di Cassazione e l’obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, sottolineando come il giudizio di cassazione non possa limitarsi al momento dell’applicazione della norma giuridica, ma debba inevitabilmente estendersi al giudizio storico o di fatto, attraverso l’analisi del percorso argomentativo mediante il quale il giudice è pervenuto alla decisione nel merito.

Ed infatti, essendo la motivazione il limite fondamentale al principio del libero convincimento del giudice, è proprio su di essa che si incentra la verifica del giudice di legittimità della valutazione delle prove 16.
E’ stato più volte sottolineato che l’obbligo di motivazione trova le sue radici nella combinazione tra principio di legalità e la soggezione del giudice alla legge prevista dall’art.101 della Costituzione.

Ove poi si volga lo sguardo al codice di rito attualmente vigente, appare evidente che la previsione generale viene accolta ed esaltata da quelle norme che, nel riconoscere il principio del libero convincimento quale canone di valutazione della prova, danno contenuto rinnovato all’obbligo di motivazione.
Ci si riferisce in particolare al disposto dell’art.192 c.p.p., a proposito del quale, nella Relazione al progetto preliminare del codice si afferma “decisamente nuovo è, però, il raccordo tra il principio il convincimento del giudice e obbligo di motivare: su di un piano generale, esso mira a segnalare, anche a livello legislativo, come la libertà di apprezzamento della prova trovi un limite in principi razionali che devono trovare risalto nella motivazione; sotto il profilo più strettamente operativo, il nesso vuol far risaltare il contenuto della motivazione in fatto, che si esprime nella enunciazione dei criteri di valutazione (massime di esperienza) utilizzati per vagliare il fondamento della prova.”

E’ proprio l’obbligo contenuto nell’art.192 c.p.p., laddove impone espressamente al giudice di valutare la prova“ dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati” ovvero detta precisi criteri di limitazione della prova indiziaria o della dichiarazioni rese da particolari soggetti, a dimostrare quanto il legislatore si curi di evitare che l’attività giurisdizionale non trasmodi nell’arbitrio ma resti legata a criteri di valutazione verificabili.

Peraltro l’obbligo di motivazione trova espressione puntuale nel codice proprio in relazione agli atti tipici che la Costituzione richiama: sentenze ed ordinanze riguardanti la libertà personale. In questo senso, al di là della enunciazione generica dell’art.125 c.p.p., è lo specifico disposto degli artt. 292 e 546 c.p.p., che impone al giudice di dar conto non solo dei motivi in fatto o in diritto che hanno portato alla decisione ma anche delle ragioni per le quali non ritiene attendibili le prove contrarie ovvero non rilevanti gli elementi forniti dalla difesa.

E’ qui, con particolare riguardo al modello processuale adottato, che l’obbligo in questione si incontra con le ragioni dell’imputato ed il suo specifico diritto alla prova. In un sistema quale quello vigente, in cui la prova è un diritto del singolo e le previsioni normative includono norme volte a regolare i criteri di utilizzabilità e valutazione, il giudice ha l’obbligo di valutare le prove assunte su iniziativa delle parti, e dunque l’esame della conformità del prodotto/sentenza secondo le regole del diritto risulta esaltato e naturalmente affidato ad un controllo di legittimità.

In questo panorama le modifiche intervenute proprio con riguardo all’art.111, con la costituzionalizzazione del giusto processo, approdo ultimo di una concezione garantistica propria della nostra civiltà giuridica, nel rafforzare e connotare il diritto alla prova, hanno anche imposto come necessario corollario “l’obbligo del giudice di valutare le prove assunte ad iniziativa delle parti e di fornire motivazione giustificativa di tale valutazione”.17

Peraltro va sottolineato che anche coloro che più avvertono il rischio della perdita delle caratteristiche della funzione della cassazione, non possono fare a meno di considerare che “ se non vanno sottolineati gli eccessi occorre prendere atto che l’intervento della Corte Suprema è sentito come una esigenza ineludibile di tutela, più che dell’ordinamento giuridico, delle parti, cui si vuole assicurare una applicazione della legge corretta ed uniforme e dunque anche una parità di trattamento: un’ultima istanza di diritto, che per essere effettivamente tale deve essere affrancata dalle valutazioni di merito”18.

Se, dunque, questo principio può dirsi indiscusso, problematico appare invece il modo in cui attuare il sindacato, poiché questo è l’ambito in cui si rischia maggiormente uno sconfinamento nel merito, precluso alla Corte di Cassazione. È inoltre sempre con riferimento a tale controllo che entra maggiormente in discussione lo stesso ruolo della Corte, dal momento che i modi e le forme di censura del vizio di motivazione da un lato sono rimessi al legislatore, dall’altro assumono in concreto diverse connotazioni, a seconda dell’orientamento dottrinario e giurisprudenziale accolto.


Il vizio della motivazione nel vecchio codice di rito.

Sul tema del controllo sulla motivazione il codice del 1930 prevedeva espressamente le ipotesi di mancanza ovvero di contraddittorietà della motivazione, rientranti nell’inosservanza di legge processuale e costituenti dunque cause di nullità della sentenza. Il vizio motivazionale, infatti, veniva censurato attraverso il combinato disposto degli artt. 524 n. 3, che prevedeva il ricorso per cassazione per violazione di norma processuale stabilita a pena di nullità, e l’art.475, che sanciva la nullità della sentenza per mancanza o contraddittorietà della motivazione.

Secondo l’orientamento maggioritario della giurisprudenza, non essendo il giudizio di cassazione un terzo grado di giurisdizione di merito, non potevano essere dedotti in sede di ricorso per cassazione vizi inerenti l’accertamento dei fatti, a cui il giudice di merito fosse pervenuto attraverso la valutazione delle prove, rientrando tale attività nel suo potere discrezionale. Questo accertamento era dunque sottratto “al sindacato di legittimità” non potendo gli apprezzamenti del giudice del merito “essere investiti dalla censura di difetto o contraddittorietà della motivazione solo perché contrari agli assunti del ricorrente, essendo ammissibile il solo controllo estrinseco della congruità e logicità della motivazione.”19

Un diverso orientamento, invece, attribuiva alla Cassazione anche una funzione di controllo “teso ad accertare – attraverso la censura della mancanza o della contraddittorietà della stessa (motivazione della decisione n.d.r.) – se, del convincimento che si è formato, il giudice abbia indicato le ragioni, e se queste ultime siano plausibili, in quanto fondate su tutto il materiale probatorio (c.d. principio di completezza), siano aderenti a quest’ultimo (c.d. principio di correttezza), sicché le conclusioni risultino il frutto di sillogismi logicamente ineccepibili e di massime d’esperienza riconosciute come tali da chiunque e generalmente accettate (c.d. principio di logicità)”20

Quest’ultimo orientamento ampliava dunque il concetto di contraddittorietà, intendendola non più solo come inconciliabilità fra due o più passaggi della motivazione, ma anche come inconciliabilità di tutta o di parte della stessa con la logica, ossia con quei principi che presiedono al retto svolgimento di un pensiero e che costituiscono il limite, rectius, la modalità di realizzazione della libertà di convincimento del giudice.21

Significativa a questi fini è in particolare la decisione secondo cui “la mancanza di motivazione, quale vizio che, infirmando la sentenza in uno dei suoi elementi costitutivi, la rende denunciabile per cassazione, sussiste quando: a) il giudice non siasi curato di indicare gli elementi dai quali ha tratto il proprio convincimento (difetto di motivazione intrinseca); b) siasi limitato ad un esame sommario e superficiale degli elementi stessi senza una approfondita disamina logico-giuridica (motivazione così detta apparente); c) abbia trascurato di prendere in considerazione elementi di decisiva rilevanza, tali, cioè, da far ritenere che, ove li avesse esaminati, avrebbe potuto pervenire a diversa conclusione (difetto di motivazione estrinseca); d) nella valutazione di tutti gli elementi acquisiti singolarmente e nel loro complesso, partendo da premesse accettabili, sia pervenuto a conclusioni aberranti secondo la comune logica, o abbia palesato perplessità (dubbio di confusione di idee) nel pervenire alle conclusioni adottate.
In particolare, per quanto concerne le suindicate ipotesi di cui alle lettere b) e c), manca la motivazione quando il giudice abbia omesso di prendere in esame specifiche deduzioni fatte dalle parti su punti decisivi, o sia venuto meno all’obbligo di valutare criticamente i vari elementi del processo, come accade allorché si limiti a citare come prova le deposizioni raccolte senza procedere all’esame critico di esse ove le stesse siano resistite da precisi altri elementi sui quali sia stata richiamata la sua attenzione e che dimostrerebbero la infondatezza di quelle o l’equivoco nel quale i testimoni sarebbero incorsi, o ancora valorizzi esclusivamente gli elementi di accusa, tacendo completamente su quelli di difesa, o, infine, in un processo indiziario, si limiti ad enunciare gli elementi di accusa, senza esaminarli in se stessi e in relazione con quelli di difesa ed alle possibili diverse ricostruzioni del fatto”.22

Una trattazione a parte, merita nell’ambito del tema generale del vizio di motivazione censurabile in sede di legittimità, la problematica relativa al travisamento del fatto, in virtù della particolare rilevanza che assume sulla questione dei limiti e della natura del controllo della Corte di Cassazione nel sistema processuale penale23.
Questa situazione può realizzarsi in tre distinte ipotesi, conseguenti alla supposizione di una prova inesistente, alla negazione di una prova risultante invece dagli atti, e allo scorretto apprezzamento di una o più prove.
Il legislatore del 1930 aveva respinto l’ipotesi di prevedere espressamente questa tipologia di vizio tra i casi di ricorso in cassazione, per la preoccupazione “con una simile disposizione…di aprire la via ad indagini di fatto” per le quali “la Corte Suprema manca(va) non solo di competenza funzionale, ma altresì di mezzi adeguati”24.

Ciononostante la giurisprudenza della Corte di Cassazione, sia pure con frequenti oscillazioni, aveva progressivamente annoverato anche il travisamento tra i vizi della motivazione rilevabili in sede di legittimità, ritenendo che esso potesse costituire causa di nullità della sentenza per difetto della motivazione, deducibile in sede di legittimità, in virtù del combinato disposto degli artt.475 comma 1 n. 3 e 524 comma 1 n. 3 c.p.p. 1930, a condizione che il contrasto tra rappresentazione giudiziale e realtà processuale fosse manifesto e cadesse su fatti decisivi per il giudizio.25

Fu dunque la giurisprudenza a porre le basi per una più penetrante estensione della verifica del caso singolo; questo avvenne a causa della “struttura del vizio motivazionale”, così come concepito dal codice allora vigente e coincise con un particolare passaggio storico in cui diversi avvenimenti da un lato trasformarono la stessa struttura della magistratura e d’altro indebolirono la funzione nomofilattica anche attraverso l’istituzione della Corte Costituzionale 26. Fu proprio in questa fase storica che la Cassazione venne accusata di aver invaso la sfera di controllo propria del giudice di merito, abbandonandosi ad una rielaborazione del materiale probatorio già da quest’ultimo valutato e perdendo la caratteristica di giudice di legittimità assegnatale dall’ordinamento.27


La riforma del 1988 con riguardo alla problematica in discussione e la soluzione adottata dal legislatore.

Le problematiche inerenti al ricorso per vizio di motivazione ed al ruolo rivestito dalla Corte di Cassazione, rimaste senza una soluzione definitiva nella vigenza del codice del 1930, non trovarono piena considerazione nelle direttive della legge delega del 1987.28 Tale silenzio venne interpretato dal legislatore delegato come il segnale della volontà di riaffermare la tradizionale funzione nomofilattica della Suprema Corte come organo preposto ex art. 65 Ord. Giud, ad assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge.29
Il legislatore delegato intervenne, quindi, con riguardo alla disciplina dei vizi della motivazione, da un lato per arginare lo sconfinamento nel merito della Corte, dall’altro, tuttavia, mostrando di apprezzare l’indirizzo che nella vigenza del vecchio codice aveva sottolineato come il controllo sulla motivazione non potesse arrestarsi alla sola contraddittorietà, ma dovesse necessariamente investire anche il profilo della logicità.

Si chiariva infatti, nella Relazione al progetto, sia che la mancanza di motivazione doveva essere costituita da una “effettiva omissione e non, come oggi (nel vigore del vecchio codice n.d.r.) si tende ad affermare, anche da una mera insufficienza di motivazione” sia che “all’espressione «se…è contraddittoria la motivazione dell’art. 475 n. 3, c.p.p.» viene contrapposta l’espressione « manifesta illogicità della motivazione » chiarendo da un lato (…) che il sindacato della Corte di Cassazione si estende alla logicità della motivazione, come anche oggi si ritiene da parte della giurisprudenza, in genere attraverso un’interpretazione estensiva della contraddittorietà, dall’altro, però, che tale sindacato non può spingersi oltre la soglia della manifesta illogicità, cioè non può giustificare la sostituzione dei criteri e delle massime di esperienza adottati dai giudici di merito con quelli prescelti invece dalla Cassazione” 30

Dopo aver così rimodellato il concetto di vizio di motivazione, venne aggiunta infine l’ulteriore previsione che esso dovesse risultare “dal testo del provvedimento impugnato”.

Questa limitazione venne vista favorevolmente da una parte della dottrina e dalla giurisprudenza della Suprema Corte. Se la prima ebbe modo di osservare come il nuovo codice avesse mantenuto tra i casi di ricorso il vizio di motivazione “prevedendo un sindacato, anche sulla logicità, che è coerente con il dettato costituzionale e dà luogo ad un opportuno annullamento in situazioni sintomatiche di una difettosa attività di giudizio; al tempo stesso, però, ha cercato di evitare taluni eccessi oggi presenti nelle decisioni della Corte di cassazione, dando a questa uno strumento che le consentirà di contenere i ricorsi e di individuare agevolmente quelli inammissibili”31 , la seconda dichiarò manifestamente infondate le eccezioni di illegittimità costituzionale della citata disposizione sostenendo come “lungi dall’essere in contrasto con il principio di ragionevolezza, la scelta del legislatore sia la più ragionevole possibile. Non può esservi scelta più ragionevole che quella di ammettere solo due gradi di giurisdizione di merito invece di tre; nulla di più ragionevole che presumere fondate (invece che infondate) le decisioni dei giudici di merito, nulla di più ragionevole che mantenere la Corte di Cassazione come istanza di mera legittimità; nulla di più ragionevole che contrastare l’ipertrofia decisionale non produttiva di migliore giustizia”32.

Per la verità questo indirizzo giurisprudenziale si poneva come significativa deviazione rispetto al parere che, nell’identica materia, i vertici della Cassazione avevano rilasciato sul progetto del codice33.
In ogni caso, all’indirizzo citato in precedenza si contrappose, però, l’opposto parere secondo cui il legislatore, nel tentativo di razionalizzare le disciplina e di restituire alla Corte il ruolo che sembrava aver perduto, non aveva trovato la soluzione più idonea a realizzare il ricercato equilibrio tra vaglio di legittimità e verifica della correttezza della decisione concreta.

Quel che veniva posto in rilievo era che il limite all’esercizio del controllo della Cassazione non poteva che essere legato esclusivamente alla “natura” del vizio rilevabile. Una volta definite le tipologie di vizio censurabile, da parte dei critici si riteneva irragionevole prevedere che la Cassazione potesse o meno espletare il suo sindacato a seconda che il vizio censurato, pur rientrando in una di tali tipologie, emergesse o meno dal testo del provvedimento impugnato, poiché “questo elemento di differenziazione non giustifica la disparità di trattamento, giacché esclude la sindacabilità del provvedimento proprio nei casi più gravi e, cioè, in quelli in cui il giudice di merito non si sia preoccupato di giustificare la grave violazione di legge effettuata” 34.

In tale contesto si sottolineava che l’accesso agli atti era comunque necessario per la verifica di altri vizi rientranti nel sindacato della Corte di Cassazione come emerge altresì da altre disposizioni normative che non fanno riferimento a tale divieto, e che non si ritiene debbano soggiacere alla limitazione di cui all’art. 606 lett. e).L’esempio richiamato era all’art.606 lett. c), in ordine alla declaratoria di inutilizzabilità della prova, o, ancora, all’art.606 lett. d) con riferimento alla valutazione della mancata assunzione della prova richiesta dalla parte ai sensi dell’art. 495 comma 2 c.p.p. e della sua decisività.
In entrambi i casi, infatti, il sindacato della Corte non può svolgersi se non attraverso l’esame degli atti del processo, al fine di verificare nel primo caso la modalità di assunzione della prova, nel secondo caso la sua effettiva mancata assunzione nonché decisività.

In questi casi ritenere operante il divieto in questione35 si risolveva, come parte della dottrina rilevava, nel paradosso di applicare tali disposizioni nel solo caso “inverosimile ed invero eccezionale che un giudice condanni sulla base di una prova che dalla stessa motivazione risulti inutilizzabile o condanni in seguito alla mancata assunzione di una prova richiesta dalla parte ex art. 495 comma 2 c.p.p. e che dalle stesse argomentazioni della sentenza impugnata risulti decisiva”.36

Era inoltre opinione consolidata, in dottrina e in giurisprudenza, che la prova inventata fosse equiparabile a quella assunta contra legem e dovesse essere oggetto pertanto del medesimo trattamento sanzionatorio.37, sicché un provvedimento che si fondasse su di essa sarebbe impugnabile per violazione degli artt. 191 e 526 c.p.p..38
Ebbene, essendo questo vizio censurabile sotto il profilo dell’inosservanza di norma processuale stabilita a pena di nullità ex lett. c) dell’art.606 c.p.p., l’esame del fascicolo processuale era pacificamente consentito dal codice di rito, diversamente da quanto previsto per il difetto di motivazione, non implicando alcuna valutazione di merito da parte dalla Corte 39.

Peraltro anche l’istituto dell’“immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità” di cui all’art.129 c.p.p., applicabile in ogni stato e grado del processo e quindi anche alla Corte di cassazione, poteva prevedere una verifica degli atti processuali dai quali poter dedurre tali cause.40

La previsione normativa di cui all’art. 606 lett. e) nella vecchia formulazione: problemi applicativi e di coerenza del sistema. La Cassazione come giudice facti ex actis

È opportuno ripercorrere, sia pur brevemente, il dibattito che ha interessato dottrina e giurisprudenza sul tema della limitazione al testo del provvedimento impugnato del vizio di motivazione operato dal legislatore del 1988, da un lato perché esso è lo specchio delle diverse concezioni del ruolo della Cassazione quale giudice del caso concreto, dall’altro perché il medesimo dibattito investe, sia pure simmetricamente, la eliminazione di questo limite ad opera della legge Pecorella.

Si è detto come la previsione di cui all’art.606 lett. e), nella formulazione ante riforma, rischiasse di spostare il nodo del problema relativo alla natura del controllo di legittimità della Corte di Cassazione esclusivamente sulla “intoccabilità” degli atti processuali – come se accedere ad essi significasse, di per sé, scendere nel merito – con l’effetto di rendere insindacabili gravi violazioni del diritto di difesa in generale, e del diritto alla prova in particolare.
Il vizio che risultava in special modo pregiudicato era quello relativo alla omessa valutazione di una prova a difesa, nel caso in cui dell’esistenza della stessa non vi fosse traccia nella sentenza oggetto di ricorso.41

Si presentava dunque la necessità di ovviare alla rilevata contraddizione tra l’art.546, comma 1, c.p.p. che stabilisce l’obbligo per il giudice del merito di indicare nella sentenza le prove poste a base della decisione e le ragioni le quali ritiene non attendibili le prove contrarie e l’art.606 lett. e) c.p.p., che impediva a tale obbligo di esplicarsi nella sua piena cogenza, lasciando senza rimedio la sua eventuale violazione qualora essa non emergesse dal testo del provvedimento.42

Un orientamento sviluppatosi nel primo periodo di vigenza del nuovo codice, si era posto il problema della eventuale sindacabilità di tale vizio alla stregua di altre norme, ammettendo la possibilità di ricorrere all’art. 606 lett. c) – alla luce del combinato disposto degli artt.546, commi 1 e 3 e 125 comma 3 c.p.p. – osservando al riguardo come l’art.125 comma 3 c.p.p. richieda a pena di nullità che sentenze e ordinanze siano motivate, sicché l’inosservanza, anche parziale, di tale prescrizione, come nel caso del mancato esame di una prova, costituirebbe causa di invalidità della decisione.43

Questa soluzione era stata accolta anche da una giurisprudenza, sia pure minoritaria, della Corte di Cassazione, che proprio in base alle norme sopra citate affermava “la possibilità di comparazione della motivazione del provvedimento impugnato con i documenti del processo”44 .

La prevalente giurisprudenza di legittimità, aderiva tuttavia all’indirizzo più restrittivo, secondo cui all’art.606 lett. e) c.p.p. il legislatore aveva inteso ricondurre tutte le ipotesi di vizio motivazionale censurabili in cassazione, e pertanto il limite del testo del provvedimento impugnato non potesse essere superato attraverso il richiamo a disposizioni normative diverse, che tale limite non prevedessero.45

Vi era poi chi ammetteva la ricorribilità ex art.606 comma 1 lett. c) solo nel caso in cui nel giudizio di merito la prova pretermessa fosse stata posta dalla parte a fondamento della propria richiesta e il mancato rispetto dell’obbligo motivazionale così sorto fosse stato oggetto di doglianza nell’atto di impugnazione. In questo caso veniva quindi ammesso in sede di legittimità un raffronto tra i motivi di appello e il testo della decisione di secondo grado.46

Questo contrasto interpretativo venne infine risolto dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che, chiamate a pronunciarsi in proposito, affermarono che il difetto di motivazione, pur costituendo fonte di invalidità della sentenza, potesse essere dedotto in cassazione esclusivamente alla stregua della lett. e) dell’art. 606 comma 1 c.p.p., dovendosi ritenere che tale norma operasse come una previsione specifica che rendeva inapplicabile la disposizione di carattere generale della lett. c), anche perché se “rispetto alla mancanza di motivazione la lettera c) concorresse con la lettera e) dovrebbe giungersi alla conclusione che il ricorso immediato contro le sentenze, escluso per la lettera e) dell’art. 569 comma 3, resterebbe proponibile per la lettera c)”.47


La progressiva erosione del divieto di accesso agli atti ad opera della giurisprudenza della Corte di Cassazione.

La soluzione adottata dalle Sezioni Unite con riferimento alla censurabilità del vizio di motivazione aveva lasciato in piedi, con riferimento alla norma in questione, quei dubbi di costituzionalità e di coerenza con il sistema che avevano spinto i fautori dell’orientamento poi disatteso a forzare il dato letterale della norma.
In particolare, continuava a porsi il problema se fosse o no compatibile con gli artt. 3 e 24 della Costituzione la disparità di trattamento in ordine alla ricorribilità in cassazione del travisamento del fatto e dell’omessa valutazione della prova a seconda che essi emergessero o meno dal testo del provvedimento impugnato.
Questa limitazione incideva infatti proprio su quel diritto alla prova che il nuovo codice, privilegiando il modello accusatorio, aveva inteso garantire in misura ancor più pregnante rispetto all’ordinamento processuale abrogato.
Si affermava, in proposito, che “il diritto alla prova ha acquisito un significato ed una portata di rilevanza molto più accentuati di quelli riscontrabili nel precedente sistema processuale penale: pertanto, la sua menomazione appare ancor più pregiudizievole per l’attuazione del diritto di difesa. Ne segue che il mancato controllo non solo sulla logicità ma addirittura sull’esistenza della parte di motivazione in cui si enuncino le ragioni che hanno portato il giudice a disattendere le prove a difesa, può vanificare il diritto alla prova e, pertanto, il diritto di difesa”.48

Sotto un diverso profilo, la mancata cogenza dell’obbligo motivazionale con riferimento a tali ipotesi presentava inoltre un problema di legittimità in relazione all’art.111 della Costituzione, che tale obbligo impone.49
Su di un altro versante la Corte di Cassazione progressivamente riconsiderava i limiti del proprio sindacato, aggirando il limite del divieto dell’accesso agli atti attraverso un concetto più ampio di mancanza di motivazione, tale da ricomprendere – correttamente – non soltanto la mancanza di uno o più passaggi argomentativi necessari per pervenire alla decisione finale, ma altresì la mancata risposta a specifiche doglianze contenute nell’atto di impugnazione e dotate del requisito della decisività., con la conseguenza di ritenere “non (…) precluso al giudice di legittimità l’esame dei motivi di appello, al fine di valutare la completezza dell’apparato argomentativo della sentenza di secondo grado, con riferimento a specifiche doglianze formulate con i motivi di appello e dotate del requisito della decisività”.50

Questo principio veniva quindi esteso, nella nota sentenza Andreotti51, al possibile esame delle memorie difensive presentate al giudice di merito, onde evitare la disparità di trattamento ipotizzabile nel caso in cui fosse stato il pubblico ministero ad impugnare la sentenza di assoluzione, l’imputato, nel giudizio di secondo grado, avesse evidenziato l’esistenza di prove di innocenza diverse da quelle valutate dal giudice di primo grado, e la Corte di appello avesse del tutto omesso di menzionarle nella propria motivazione della sentenza di condanna.

Se con riferimento all’omessa motivazione questa apertura giurisprudenziale poteva essere sufficientemente risolutiva delle problematiche poste dalla limitazione al testo del provvedimento impugnato di cui all’art.606 lett. e), altrettanto non poteva dirsi nel caso del travisamento del fatto, residuando almeno due ipotesi in cui continuava ad essere necessario il riferimento agli atti travisati52, e dunque impossibile dedurre tale vizio in sede di legittimità, stante il tenore letterale della norma.


La riforma operata con la Legge n. 46/2006. Il dibattito e le decisioni giurisprudenziali in merito alle modifiche apportate con la legge Pecorella come esempio delle diverse concezioni sul ruolo della Cassazione.

La tematica sulla natura, il ruolo, il modello di controllo della Corte di Cassazione si è infiammata nel corso della vicenda parlamentare, invero contrastata, della legge dovuta alla iniziativa dell’On. Pecorella.
E’ noto come la prima formulazione del provvedimento, per quel che concerne il tema in esame, prevedesse la modifica delle lettere d) ed e) dell’art. 606 c.p.p. disponendo la ricorribilità per cassazione nella ipotesi di “mancata assunzione di una prova decisiva quando la parte ne ha fatto richiesta, sempre che la stessa fosse ammissibile” (lett.d) ovvero quando “manca o e contraddittoria o è manifestamente illogica la motivazione” (lett.e).

Così formulata la previsione normativa veniva immediatamente osteggiata da molti commentatori e fatta oggetto dei rilievi critici del Capo dello Stato, che rinviava alle Camere la prima stesura del provvedimento. Va notato che nel relativo messaggio il Presidente della Repubblica, in tutto recependo i rilievi critici che erano stati esternati dai vertici della Corte di Cassazione, sottolineava che le modificazioni approvate generavano “un’evidente mutazione delle funzioni della Corte di Cassazione, da giudice di legittimità a giudice merito, in palese contrasto con quanto stabilito dall’articolo 111 della Costituzione, che, al penultimo comma, dispone che “contro le sentenze e contro i provvedimenti pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso per in Cassazione per violazione di legge (sottolineatura nel testo n.d.r)53.
Nello stesso messaggio, inoltre, si rimarcava come il nuovo assetto del giudizio di cassazione potesse, anche attraverso la vanificazione del ruolo della settima sezione, porsi in contrasto con il principio del buon andamento della pubblica amministrazione.
Rinviata la legge alle Camere essa veniva modificata secondo l’attuale formulazione.
Fin dall’entrata in vigore, la nuova formulazione dell’art.606 c.p.p. è stata oggetto di un atteggiamento, a voler essere cauti, assai rigoroso da parte della giurisprudenza per quel che riguarda l’ammissibilità del ricorso ai sensi della lettera e). Se da un lato alcune pronunzie hanno dettato un decalogo di operatività della normativa in senso restrittivo, richiedendo anche taluni requisiti che dal testo della norma non appaiono, quali ad esempio l’onere da parte del ricorrente di “dare la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato nonché della effettiva esistenza dell’atto processuale su cui tale prova si fonda”54, ovvero comunque hanno sottolineato che il dato travisato deve possedere la forza di “disarticolare l’intero ragionamento probatorio”55; altra parte della giurisprudenza ha anche operato una sostanziale interpretazione abrogatrice della normativa transitoria56 negando la proponibilità dei motivi nuovi dalla stessa previsti nel caso di inammissibilità dei motivi principali anche fondata sulla medesima situazione che le nuove disposizioni avevano innovato.
Entrambe queste opzioni giurisprudenziali sono state commentate in senso negativo dalla dottrina, quale indice chiaro di una reazione di chiusura della giurisprudenza rispetto alla novità legislativa 57.
Questi indirizzi sono stati comunque superati, quanto alla radicalità degli effetti, dalla interpretazione espressa in diverse sentenze che hanno negato che l’espressione “altri atti del processo” si possa riferire agli atti probatori ma debba intendersi esclusivamente a quelli dai quali “risultino domande o eccezioni dalle quali derivava per il giudice un dovere di decisione che si assume violato” e che comunque anche dopo la riforma “ rimane estraneo al controllo di legittimità quello “sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati processuali”58 .Opinione, questa, espressa in dottrina anche da alcuni autori59, che muove dalla impossibilità di valutazione di un singolo dato se non vagliato nel complesso del panorama probatorio e che dunque sottolinea come, ammettendo tale possibilità, se ne trarrebbe una – insostenibile anche dal punto di vista costituzionale – mutazione genetica della Corte di Cassazione in giudice di merito.

Diverso è invece stato l’atteggiamento della restante dottrina che ha sottolineato altri aspetti di criticità della riforma, legati semmai alla problematica della materiale insostenibilità, da parte del sistema giudiziario nel suo complesso, della innovazione siccome destinata a rendere ancor più lunghi i tempi del processo. Ha scritto al riguardo Lozzi che “per quanto concerne la modifica della lettera e), va rilevato come tale modifica indubbiamente faccia venir meno i problemi di legittimità costituzionale.. . ma, nel contempo, rappresenti un ritorno al passato, posto che il mancato riferimento al testo del provvedimento impugnato ripristina completamente una mancata valutazione della mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione rapportata agli atti del processo e, quindi, la legittimità di una cognitio facti ex actis da parte della Corte di cassazione, rendendo estremamente più agevole la ricorribilità in cassazione per vizio di motivazione. Ciò ovviamente a scapito di una durata ragionevole del processo.”60

Ed allora non può non essere rimarcato come il dibattito che occupa in ordine ai nuovi limiti del controllo della Corte di cassazione in base alla nuova formulazione all’art. 606 lett. e) investa non soltanto le implicazioni pratiche della modifica normativa, ossia le concrete possibilità per il ricorrente di dedurre o meno una determinata censura, o l’aumento del carico di lavoro per la Corte e le implicazioni dello stesso sulla ragionevole durata dei processi, ma soprattutto il “ruolo” della Cassazione, rectius il contenuto del giudizio di legittimità. Se, infatti, da parte di alcuni sembra essersi attribuito alla novella legislativa una portata tale da trasformare la Cassazione in terza istanza di merito, vi è un orientamento che – nell’intento di vanificare la portata innovativa della norma –finisce per porre in discussione lo stesso “ruolo” della cassazione, quale giudice della legittimità della motivazione, come delineato non solo dall’odierno legislatore ma in decenni di elaborazioni dottrinarie e giurisprudenziali.

Al contrario, il senso della nuova formulazione della lettera e) dell’art. 606 c.p.p. è quello del recupero di quello stesso controllo della patologia della motivazione che veniva ammesso nella vigenza del vecchio codice con riferimento al travisamento del dato processuale, restituendogli quella pienezza applicativa che la limitazione al solo testo del provvedimento impugnato gli aveva sottratto. In tal modo non si introduce alcun obbligo di rilettura del complesso dei dati processuali per verificare la correttezza dell’opzione prescelta dal giudice, nel caso in cui essa sia immune da vizi tanto nella verità delle premesse di fatto che nello sviluppo dei passaggi logici che da quelle premesse conducono alla decisione, né si richiede al giudice di legittimità di “interpretare” il significato del dato processuale travisato.

Ecco perché non convince l’ultima delle interpretazioni giurisprudenziali61 sopra citate, che nell’erronea equiparazione fra accesso agli atti di contenuto probatorio e giudizio di merito individua la ragione per escludere dal novero degli atti verificabili dalla Corte di cassazione proprio gli atti dal contenuto probatorio, con effetti sostanzialmente abrogativi della riforma 62.

Tale lettura da un lato non pare condivisibile dal punto di vista della stessa ”interpretazione letterale”, poiché continua a ritenere ancora sussistente una limitazione “al testo del provvedimento impugnato” espressamente rimossa – appunto – dal legislatore, come è evidente dalla congiunzione disgiuntiva “ovvero ” tra il riferimento al testo del provvedimento e gli “altri atti specificamente indicati nei motivi”, definiti impropriamente da un legislatore talvolta disattento63) di gravame. Dall’altro, se essa può anche essere accolta con riferimento al vizio di omessa motivazione, specie nei casi di doppia conforme, lascia però del tutto privo di sanzione il vizio del travisamento del fatto – riscontrabile soltanto attraverso il raffronto con il dato probatorio travisato – giustificando questa limitazione con argomentazioni di ordine giuridico-sistematico, secondo le quali, ove si consentisse alla Corte di cassazione l’accesso agli atti di contenuto probatorio, essa vedrebbe mutare l’oggetto del proprio controllo da quello originario e tradizionale sulla motivazione a quello, che non le compete, sulla correttezza della decisione.

Ma ciò è proprio quello che non dovrebbe avvenire nel caso di travisamento del fatto, poiché l’ambito del sindacato di legittimità resta quello della motivazione. Poiché, infatti, la verità del factum probans è una delle basi per la legittimità della decisione sulla pretesa di verità del factum probandum, la motivazione può risultare viziata non soltanto per la scelta di criteri inferenziali erronei ma anche per la mancata aderenza al dato fattuale delle premesse poste alla base dello sviluppo argomentativo.64

Questo principio soffriva della limitazione imposta dalla vecchia formulazione dell’art. 606 lett. e), perché creava un’evidente quanto irragionevole vuoto di tutela, soltanto parzialmente superato, come si è visto, dall’ampliamento giurisprudenziale alle allegazioni difensive, della rilevabilità del vizio, lasciando quest’ultimo comunque insindacabile sia nel caso in cui il travisamento si fosse verificato per la prima volta nella sentenza di appello sia nel caso in cui il giudice di secondo grado avesse persistito nel travisamento già dedotto.
La tesi in esame, riducendo la nuova disciplina alla codificazione dei principi già consolidati in giurisprudenza circa i limiti di extratestualità del vizio65 utilizza l’ampliamento della tutela, che quelle sentenze intendevano – fin dove possibile – operare, viceversa per eliminare qualsiasi portata innovativa della legge.
Ciò posto, ed in questo trovando ausilio anche nella analisi dei lavori preparatori66 – che, pur non esaurendo il tema, comunque devono pur sempre coadiuvare l’interprete nella individuazione della ratio legis ai fini di una interpretazione teleologica della norma – sembra difficilmente revocabile in dubbio che la modifica normativa, ove interpretata alla stregua dell’indirizzo in commento, sarebbe inutiliter data.

Del resto, l’orientamento opposto, largamente maggioritario, della giurisprudenza e dei primi commentatori della dottrina, ammette, al contrario, la possibilità che il c.d. vizio di “contraddittorietà processuale” conseguente alla mancata corrispondenza fra il risultato probatorio alla base dell’argomentazione del giudice e quello emergente dal dato processuale, rientri nell’ampliamento dei casi di ricorso operato dall’art. 8 della L. 46/2006.

Secondo questo indirizzo, eliminato il limite della rilevabilità testuale, “assume così pregnante rilievo l’obbligo di fedeltà del testo della decisione agli atti processuali/probatori, risultando valorizzati i criteri di esattezza, completezza e tenuta informativa della motivazione e, nel contempo, rafforzato l’onere di specifica indicazione delle ragioni a sostegno del peculiare motivo di ricorso” (…) “si postilla dunque correttamente la verifica di conformità delle rappresentazioni dell’elemento probatorio nella motivazione e, rispettivamente, nel relativo atto del processo, per evidenziarne l’eventuale, incontrovertibile e pacifica distorsione, in termini quasi di “fotografia”, neutra e a-valutativa, del “significante”, ma non anche del “significato”, atteso il persistente divieto di ri-lettura e di re-interpretazione nel merito dell’elemento di prova.”67

Potrebbe dirsi che in questo caso il riscontro della distorsione debba avvenire con modalità paragonabili – quanto ad evidenza ed acriticità – a quelle con le quali la Cassazione sia chiamata a verificare l’assenza del dato probatorio ritenuto esistente dal giudice di merito 68.

Va comunque notato che anche questo secondo indirizzo, una volta riconosciuto che il potere di accesso agli atti a contenuto probatorio non è indice di un mutamento di ruolo della Cassazione e che tale accesso è oggi espressamente consentito dalla nuova formulazione normativa, ha proceduto alla sua concreta delimitazione, fissando dei principi applicativi che – pur non avendo gli effetti abrogativi della novella propri della lettura sopra commentata – ne limitano però la portata forse al di là delle intenzioni del legislatore.

Nel dettare le condizioni affinché il vizio di motivazione risultante dagli atti del processo possa essere oggetto di ricorso per cassazione, si è affermato che “non è sufficiente, dunque, che gli atti del processo invocati dal ricorrente siano semplicemente “contrastanti” con particolari accertamenti e valutazioni del giudicante o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità né che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante. Ogni giudizio implica infatti l’analisi di una più o meno ampia mole di elementi di segno non univoco e l’individuazione, nel loro ambito, di quei dati che per essere obiettivamente più significativi, coerenti tra di loro e convergenti verso un’unica spiegazione sono in grado di superare obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del giudice e di consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, ad un pubblico composto da lettori razionali del provvedimento. Occorre invece che gli “atti del processo” su cui fa leva il ricorrente per sostenere l’esistenza di un vizio della motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione (…). Al giudice di legittimità resta infatti preclusa in sede di controllo sulla motivazione la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (preferiti a quelli adottati dal giudice del merito perché ritenuti maggiormente e plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa). Queste operazioni trasformerebbero infatti la Corte nell’ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le parti non prestino autonomamente acquiescenza) rispetti sempre uno standard di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione.”69

Ciò sembrerebbe affermare che la contraddittorietà ovvero la mancanza di motivazione con riferimento a specifici atti processuali siano rilevabili ove idonei ad incidere, in misura radicale, esclusivamente sulla motivazione utilizzata dal giudice per pervenire alla decisione, e non lo siano invece nel caso in cui la prova omessa o travisata investa una possibile e alternativa opzione ermeneutica respinta dal giudice sulla base di un travisamento ovvero non considerata.

Ebbene, se questo può essere vero nel caso in cui tale prospettazione alternativa non sia mai stata dedotta dalle parti interessate, essendo il giudice libero di valutare il panorama probatorio scegliendo l’opzione che ritiene plausibile, altrettanto non può dirsi qualora la parte abbia già in sede di merito indicato al giudice gli elementi che ritiene utili alla propria difesa.
Ed infatti, in un sistema basato sul contraddittorio nella formazione della prova, il “dubbio ragionevole” non è qualsiasi dubbio, ma quello che è venuto in discussione nel contraddittorio delle parti. È ciascuna parte a sapere cosa quali sono le prove rilevanti per la propria difesa, e a prospettare al giudice del merito la ricostruzione dei fatti che mostra di preferire. Una volta che ciò sia avvenuto, l’obbligo di motivazione del giudice del merito si estende necessariamente alle ragioni per le quali ha finito per respingere quella ricostruzione.

È questo ulteriore frammento della motivazione che diventa autonomamente censurabile dalla Cassazione, soggiacendo alle medesime regole di controllo del procedimento inferenziale di cui si è detto, che non può non investire anche la verità delle premesse poste.

Ecco dunque che un vizio censurabile ex art. 606 lett. e), ove si annidi in tale ulteriore frammento motivazionale, alla luce del principio del “ragionevole dubbio” codificato dalla stessa legge Pecorella nella nuova formulazione di cui all’art.533, non può non essere definito di portata tale da “disarticolare l’impianto motivazionale” della sentenza di secondo grado, che dell’esistenza di tale dubbio come rappresentato dalla parte non tenga conto, o tenga conto travisando un dato processuale.

È palese come ciò avvenga senza che la Cassazione sia costretta a pronunciarsi sulla “decisione”, mutando il proprio ruolo e operando un sindacato “sostitutivo”, che le è estraneo. In altri termini, il compito del giudice di legittimità non diventa quello di vagliare la “maggiore plausibilità” fra le due ricostruzioni. Il suo controllo resta riferito alla sola motivazione con la quale la Corte di Appello ha risposto alle doglianze del difensore.

Ed infatti la Corte di Appello può: a) non essersi pronunciata o essersi pronunciata in maniera illogica, ed allora il sindacato della Cassazione sarà limitato alla verifica della mancanza o illogicità della motivazione attraverso il raffronto con quanto prospettato dalla difesa in sede di merito (decisivo, tra l’altro, perché astrattamente idoneo a sollevare nella sede opportuna il ragionevole dubbio sulla colpevolezza dell’imputato); b) essersi pronunciata travisando un dato processuale. Anche in questo caso, non sarà la decisione di colpevolezza ad essere oggetto del controllo, bensì la motivazione, investendo la falsità delle premesse poste dalla Corte di Appello per respingere la doglianza della difesa.

Tanto ciò è vero, che in entrambi i casi la Cassazione, ove riscontri il vizio censurato, annullerà con rinvio alla giudice del merito, il quale sarà libero di prendere nuovamente la stessa decisione, purché la giustifichi in maniera logica , completa e fedele agli atti.70

Così delineati i diversi indirizzi giurisprudenziali all’indomani dell’entrata in vigore della norma, appare del tutto evidente, tanto per rimanere al tema di questo intervento, che sulla questione dovranno intervenire le Sezioni Unite, il cui intervento preventivo era stato peraltro preannunciato ancor prima della entrata in vigore della norma, attesa la inconciliabilità delle soluzioni adottate.
Considerazioni conclusive

La natura del giudizio di cassazione, per come si è evoluto nell’ambito del sistema, ha una vocazione per così dire genetica ad ancorarsi e risolvere il caso concreto, sia pure sotto la particolare angolatura del controllo della motivazione della sentenza. Ciò al di là del dettato costituzionale e della impronta codicistica che comunque non permetterebbe allo stato l’adozione di un diverso modello di Corte di legittimità.

Questo ruolo è stato da sempre riconosciuto, molto spesso ampliato ed in ogni caso ricavato, proprio dalla giurisprudenza che, in coerenza con le stesse origini dell’istituto, e non solo nel nostro paese, ha avvertito l’insufficienza della mera funzione nomofilattica all’esercizio della giurisdizione nel suo epilogo. La contrapposizione tra una Cassazione come giudice supremo di pura legittimità ovvero come giudice di terza istanza che garantisce il caso singolo, registra una netta prevalenza del secondo modello, nel diritto vivente, non solo per scelta costituzionale e codicistica. Tra i fautori di questa impostazione, nel suo concreto atteggiarsi, si annovera in primis la stessa Corte – se è lecito personalizzare l’organo o perlomeno la sua giurisprudenza colta nel suo sviluppo storico – la cui elaborazione si è fondata su questo modello salvo ampliare o restringere il suo potere di intervento in maniera, per così dire, elastica. Non può non rilevarsi che i diversi indirizzi che si sono fin qui registrati, rispetto ad una giurisprudenza che in tale materia è del tutto domestica, posto che si connota per la circostanza che “in questo campo le norme valgono fino ad un certo punto” poiché “ in fondo, da sempre, la Cassazione è il giudice della propria competenza” 71, paiono improntati ad un ciclico stop and go attraverso il quale, ferma restando l’applicazione dei principi, forse non è estranea anche la particolarità dei singoli casi.
Ciò finisce per dimostrare la compatibilità con il sistema di un grado di giudizio, ulteriore e diverso rispetto al merito, che è quello proprio della Cassazione in Italia, che va difeso. Non risultano estranee al giudizio di legittimità, in questo senso, né la comparazione degli atti, al fine di verificarne le patologie espressamente previste ed applicare le relative sanzioni processuali, né l’esame dei medesimi al fine del controllo della loro rispondenza a quelle parti della motivazione che li incorporano, travisandoli, o colpevolmente li ignorano. Ciò che è estraneo, e continua rimanere tale anche dopo le ultime riforme, è solo l’interpretazione degli atti ai fini della ricostruzione del fatto, cioè della premessa storica del giudizio. La possibilità di accesso ai dati probatori, laddove condizionata e ristretta nell’ambito del devolutum, cioè della doglianza espressa nei confronti del passaggio motivazionale interessato, non comporta necessariamente l’esigenza di una (ri)valutazione complessiva dell’intero materiale probatorio poiché strettamente connessa con l’oggetto del giudizio di legittimità che è pur sempre la motivazione della sentenza.

In questo quadro l’escamotage utilizzato dal legislatore del 1988, nell’intento di arginare lo sconfinamento nel merito della attività della Corte di Cassazione, determinava uno svuotamento del potere di controllo di legittimità, si esponeva a numerose censure di legittimità costituzionale alla luce del disposto degli artt.3, 24, 111 della Costituzione72, ed era stato variamente risolto dalla stessa giurisprudenza che pure ne ha sempre difeso l’impostazione.

La riforma recentemente intervenuta ha limitato questo problematica e non ha dato origine ad una mutazione genetica del ruolo e della funzione della Corte, anche se certamente potrà produrre un aggravamento dei problemi legati alla inflazione del numero dei ricorsi.

Ed allora, se la sopravvivenza di un giudizio di legittimità siffatto nel nostro sistema pone certamente dei problemi di sostenibilità del carico di lavoro della Corte, e di riflesso sulla funzione nomofilattica, il terreno sul quale i medesimi dovrebbero essere affrontati e risolti non deve essere quello della struttura del giudizio di legittimità, e conseguentemente del ruolo della Corte così come si è affermato nel corso del tempo all’interno del sistema.I problemi che vengono posti in luce da chi che lamenta l’incoerenza del sistema, inclusivo di un controllo troppo ampio in sede di legittimità, sotto il profilo della violazione del precetto costituzionale della ragionevole durata del processo, non possono infatti portare alla liquidazione della funzione giurisdizionale, salvo che introducendo una drastica riduzione dei casi di ricorso per in cassazione con l'esclusione del vizio di motivazione ovvero, nella ipotesi di una riforma dell’art.111 della Costituzione, con la delimitazione della ricorribilità esclusivamente nei confronti di alcuni tipi di sentenze 73.

Sul tema della durata del processo, peraltro, siano consentite due brevi considerazioni. Intanto non si smetterà mai di ripetere che ragionevole non è sinonimo di breve e che si deve intendere non irragionevole tutto ciò che è legato al necessario svolgimento del modello adottato dalla Costituzione. In secondo luogo sarebbe opportuno riportare sempre le discussioni su questo tema alla analisi reale dei tempi delle vicende giudiziarie ed alle reali cause della loro dilatazione. Se ciò avvenisse si scoprirebbe che quelli assolutamente dilatati, e che incidono maggiormente nella determinazione del tempo complessivo, sono i tempi legati alla fase delle indagini preliminari ovvero quelli morti intercorrenti tra una fase e l’altra, tra un grado di giudizio e l’altro, tra l’uno e l’altro momento di svolgimento del processo 74.
Circostanza, questa, legata al funzionamento dell’apparato amministrativo e non alla scelta del modello adottato, che dunque su tale terreno deve essere affrontata e risolta soprattutto con interventi legati al rafforzamento della macchina burocratica ed alla sua dotazione. Del resto le doglianze sull’ipertrofico numero dei ricorsi pendenti avanti alla Suprema Corte, certamente supportate dai numeri in termini assoluti, svelano che talvolta quei numeri non hanno subito l’incremento esponenziale che ci si attendeva, ma si sono stabilizzati.75

A questo si aggiunga che il numero di ricorsi avviati alla settima sezione penale, e colà definiti con rito camerale, è assai corposa, arrivando quasi a toccare il 50% di quelli complessivi. Una percentuale talmente rilevante da lasciare semmai interdetti per la sua consistenza e che dovrebbe essere ulteriormente verificata, quanto ai criteri di selezione, attraverso l’esame del dato non in possesso di chi scrive e riguardante la percentuale di ricorsi che, avviati verso tale sezione vengono poi restituiti alle sezioni ordinarie. In ogni caso è una percentuale che, operando in concreto un filtro sui casi sottoposti al giudizio dalla Corte, dimostra che il rafforzamento della funzione nomofilattica si può perseguire anche senza mutamenti radicali di modello. Viceversa un terreno sul quale i pericoli che vengono indicati con riguardo alla dilatazione dei tempi del processo potrebbero essere scongiurati è quello del rito: la riduzione delle ipotesi di autonoma ricorribilità per cassazione di taluni specifici provvedimenti interni al processo, la riduzione nel numero dei componenti dei collegi giudicanti ed infine una riduzione della oralità.
Quanto al primo aspetto è possibile ridurre il numero della molteplici questioni rispetto alle quali è previsto il ricorso in cassazione autonomo.

Quanto al secondo aspetto, in un sistema che già permette la irrogazione delle massime pene anche da parte di un giudice monocratico, come avviene nel giudizio abbreviato, certamente non si potrebbe lamentare un attentato alla collegialità se il numero dei giudicanti passasse da cinque a tre.

Sull’ultimo aspetto, in particolare, una riflessione appare obbligata in considerazione anche della funzione di tale caratteristica nel processo, piuttosto legata, come l’immediatezza, alla formazione della prova ed ai meccanismi di convinzione del giudice che di tale aspetto si occupi, che non alla discussione della questione di diritto o comunque alle analisi dei testi scritti che sono propri della fase di legittimità. Chi ha pratica della Corte sa che il numero dei difensori presenti in sede di udienza, tanto per le pubbliche udienze che per le camere di consiglio partecipate, non arriva alla metà delle cause fissate a ruolo, il che è già significativo della valutazione che in concreto viene assegnata al valore della discussione orale. Su questo aspetto si potrebbe pertanto operare anche solo prevedendo la eventualità della discussione orale dei ricorsi.

Infine, ma non da ultimo, un altro elemento sul quale si potrebbe intervenire è quello del numero degli avvocati abilitati all’esercizio avanti alla Suprema Corte. Da più parti è stata segnalata l’esigenza di interrompere la progressione numerica degli avvocati che sono in possesso dell’abilitazione all’esercizio in sede di legittimità, che comunque si ottiene per il decorso del termine di dodici anni dal conseguimento del titolo di avvocato, e che attualmente ha raggiunto un numero elevatissimo 76.

Sul punto si segnala che, anche all’interno della problematica relativa alla istituzione di elenchi di specialità riguardanti la diversificazione delle distinte professionalità esistenti all’interno dell’avvocatura, diverse sono state le proposte per eliminare l’automatismo oggi presente ed ancorare l’iscrizione nello speciale elenco dei cassazionisti a requisiti di competenza specifici77.In realtà nel sistema vigente quel che dovrebbe essere razionalizzato è il giudizio di appello, ma qui si entrerebbe in un discorso che non appartiene ai limiti assegnati.

Tutto ciò nell’intento di salvaguardare, sia pure connotandolo di una specifica portata legata alla limitatezza dei vizi che si possono devolvere, quel controllo di legalità e quell’ultimo rimedio giurisdizionale che il singolo cittadino possiede nei confronti dell’errore giudiziario o – se si vuole utilizzare il concetto espresso da chi per primo, per tutt’altri fini, la Corte di Cassazione l’ha prevista – dell’arbitrio del giudice .
Note
  1. Già nella vigenza del vecchio codice di rito la dottrina aveva preso posizione in ordine a questo tema. Accanto ad autori contrari all’inquadramento della Corte di cassazione quale giudice di puro diritto Cfr. Cordero, “Procedura Penale”, Milano, 1987, 1036; D. Siracusano, in Riv. it. dir. proc. pen., 1965, 660, Melchionda, “La crisi della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione Penale” in Critica pen., 1987, 60, il quale accentuava ancora di più il ruolo del Supremo collegio quale giudice di “terza istanza”, altra parte della dottrina, al contrario, era favorevole al recupero da parte della Corte della sua funzione esclusivamente nomofilattica (Cfr. Amodio, alla voce “Motivazione della sentenza penale” dell’Enciclopedia del diritto, 1977, XXVII, 252).
  2. Così G. Fiandaca, nella “nota introduttiva” alla monografia dal titolo “La Cassazione penale: problemi di funzionamento e di ruolo”, di Boschi, Cavallari, Cianci, Contento, Fiandaca, Lattanzi, Maltese, Mazzacuva, Pioletti, Pisani; in Foro it., 1988, V, 442.
  3. G. Leone “ Manuale di diritto processuale penale” VII edizione,1971, p.578
  4. A. Melchionda “La crisi della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione Penale”
  5. G. Lattanzi, “La Corte di Cassazione tra vecchio e nuovo processo penale”, in “La Cassazione penale: problemi di funzionamento e di ruolo”, cit., p. 454.
  6. L.Ferrajoli “I valori del doppio grado e della nomofilachia” Il giudizio di Cassazione nel sistema delle impugnazioni a cura di Mannuzzu e Sestini. Ed Tritone 1992.
  7. Vedi Calamandrei, “La Cassazione civile” I, Torino, 1920.
  8. M. Meccarelli “Impieghi dell’idea francese di Cassation nell’Italia post-unitaria”
  9. Per l’analisi dello sviluppo dal Tribunal de Cassation istituito dall’assemblea costituente ( 27 novembre 1790) a la Cour de Cassation, e soprattutto per la metamorfosi del relativo giudizio, si veda Cordero, Procedura penale Manuale, ed. 2006 pagg. 1149-1152.
  10. M. Meccarelli, “Impieghi dell’idea francese di Cassation nell’Italia post-unitaria”, cit. , riporta l’opinione di P.S. Mancini, nel Discorso tenuto alla Camera dei Deputati nella seduta del 20 febbraio 1865, VII legislatura Sessione 1863-65 secondo il quale “ coloro che desiderano e sperano mediante l’istituzione di unica Corte di Cassazione questo risultato ( l’interpretazione uniforme della giurisprudenza n.d.r) non debbono essere uomini che abbiano molta pratica e famigliarità con gli affari giudiziari.”
  11. Illuminante la vicenda relativa alla interpretazione delle norme sul reato continuato illustrata a suo tempo da V. Zagrebelsky nel commento “La continuazione senza pace e le Sezioni Unite senza ruolo” in Cass.Pen.1987, p.927.
  12. Il riferimento è in primo luogo alla formulazione dell’art. 618 c.p.p. con la possibilità di ricorsi preventivi alle SS.UU.
  13. M. Meccarelli, op. cit. p.
  14. V. Zagreblesky op. cit.
  15. M. Chiavario, “L’ampliamento della competenza funzionale della cassazione penale. Una questione di costituzionalità infondata ( e parecchi problemi che restano)” Giur. Cost. 1974 p.3492
  16. E’ stato osservato che “ l’inderogabile esigenza di un simile controllo non può essere circoscritta al momento dell’applicazione della norma giuridica, ma deve intendersi inevitabilmente estesa al giudizio storico o di fatto, a quel momento, cioè, in cui il giudice valuta i risultati delle prove e procede alla ricostruzione del fatto. La coerenza e il rigore del sistema postulano, pertanto, che la garanzia costituzionale ex art.111 Cost. debba coprire la motivazione nella sua unità, inscindibilmente costituita dalla soluzione delle questioni di diritto, sostanziale e processuale, e dall’accertamento del fatto, al quale una determinata norma, e quella soltanto, deve essere applicata. Ne segue che il precetto costituzionale relativo alla ricorribilità in cassazione per violazione di legge abbraccia certamente anche la motivazione in fatto, anche se l’ambito in cui opera la garanzia non è indiscriminato e i modi e le forme del controllo sono rimessi al legislatore ordinario” vedi G. Silvestri in “Il controllo della motivazione del giudizio di fatto in cassazione. Sentenza penale”, in Incontro di studi sul tema: “ Il ricorso per cassazione nel sistema dei mezzi di impugnazione”, Frascati 23 febbraio 2001.
  17. Così Taruffo, “Il diritto alla prova nel processo civile”, in Riv. Dir. Proc. , 1984, 106”, come riportato da G. Silvestri in “Il controllo sul giudizio di fatto in cassazione..” cit. p.4.
  18. Cosi G. Lattanzi “Controllo del diritto e del fatto in cassazione”, Cass. Pen. 1992, 813
  19. Cfr. Cass. 18 gennaio 1985, in Foro It. Rep. 1986, voce prova penale, n. 18, Cass. 2 aprile 1985, Cimenti, in Riv. Pen., 1986, 477; Cass. Sez. I, 13 dicembre 1983, Florio, ivi, Rep, 1985, voce Sentenza penale, n. 25.
  20. Cfr. Cass. Sez. I, 17 ottobre 1989, Ristagno, in C.E.D. Cass., n. 13854; Sez. I., 1 dicembre 1988, Cancelliere, in C.E.D. Cass., n. 2062.
  21. Affermava infatti G. Leone, in “Manuale di diritto processuale penale”, VIII ed., Jovene, 1971, p. 586: “Una motivazione che, apparentemente obbedendo al dovere di un’esposizione, rifiuti l’osservanza delle regole della logica è più deplorevole e pericolosa di una motivazione che ponga affermazioni esplicitamente contraddittorie. La difficoltà sta nel modo come attuare il controllo sul profilo logico della motivazione, essendo chiaro che un eccessivo sbandamento porterebbe il controllo nel pieno della indagine di fatto che è preclusa alla cassazione. Ma se si può e si deve segnalare la necessità di una misura, di un limite, altro non si può dire, trattandosi di un limite da rispettare caso per caso” .
  22. Si tratta della sentenza della Cassazione del 26 giugno 1965, Del Sordo, in Cass. Pen. Mass. ann., 1965, 1098.
  23. Com’è noto, si intende per travisamento quel particolare vizio della sentenza in base al quale essa sia apparentemente corretta nello sviluppo del proprio apparato argomentativo, risultando però nei fatti incompatibile con gli elementi acquisiti nel processo: Cfr. P. Renon, “Spunti per una riconsiderazione del travisamento del fatto come motivo di ricorso per cassazione”, in Cass. Pen., 1996, 557.
  24. Cfr. Relazione al Progetto Preliminare di un nuovo codice di procedura penale, in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, vol. VIII, Tipografa della Mantellate, 1929, p. 105.)
  25. Cfr. Cass, Sez. I, 11 marzo 1988, Romeo, in Riv. Pen, 1989, 1149; Cass, Sez. IV, 28 gennaio 1988, Enoni, in Cass. pen., 1989, 441 Sez. IV, 7 giugno 1988, Mariani, in Riv. Pen, 1989, p. 614. Nello stesso senso, Sez Un., 18 febbraio 1988, Greco ed altri, in Giust. Pen. 1989, III., 155. La dottrina maggioritaria era in linea con questo indirizzo, sottolineando come la rilevabilità da parte della Cassazione anche del travisamento del fatto non comportasse necessariamente un’indagine nel merito preclusa alla Corte, purché la distorsione della realtà processuale fosse assoluta ed riscontrabile ictu oculi: Cfr. ad esempio G. Leone, “Trattato di diritto processuale penale”, Vol. III, Jovene, 1961, p. G. Sabatini, “Principi di diritto processuale penale”, 3° ed., vol II, Casa del Libro Editrice, 1948, p. 207; G. Bellavista, “Contributo allo studio della patologia della motivazione della sentenza penale”, in “Studi sul processo penale”, Vol. IV, Giuffrè, 1976, p. 199-200; A. Santoro, “Manuale di diritto processuale penale”, Utet, 1954, p. 596, 597. Si affermava infatti che “nel caso in cui la cassazione possa riscontrare, ictu oculi una deviazione assoluta tra risultanze processuali e ricostruzione del fatto, non si tratta più di compiere una indagine di fatto, bensì di reprimere un abuso da parte del giudice del merito, che potrebbe perfino sfiorare il falso ideologico: si tratta di non chiudere gli occhi ad una chiara deviazione dell’accertamento della verità dal suo indefettibile binario di aderenza alle prove. In sostanza, il caso si pone come una contraddittorietà non più tra le varie parti della motivazione, bensì tra la motivazione e la chiara e non opinabile realtà processuale” (Così G. Leone, in “Manuale di diritto processuale penale”, cit. p. 587). Altra parte della dottrina, al contrario, sottolineando il rischio pratico che il giudizio di cassazione, concepito dal legislatore del 1930 come un controllo di mera legalità, venisse snaturato da un facile sconfinamento nel merito, attraverso un apprezzamento sostitutivo alla valutazione operata dal giudice, tendeva ad escludere tra i vizi della motivazione censurabili in cassazione anche il travisamento del fatto: V. Manzini, “Trattato di diritto processuale penale italiano”, 6° ed. aggiornata dai proff. G. Conso e G.D. Pisapia, vol IV, 1972, p. 771; U. Aloisi, “Manuale pratico di procedura penale”, vol. III, Giuffrè , 1952, p. 437-438; E. Battaglini, Il sindacato della Corte Suprema di Cassazione sulla motivazione delle sentenze penali, in Giur. compl. cass. pen. 1944, p. 112).
  26. Scrive S. Senese “ Più in generale, mi pare difficilmente contestabile l’osservazione che la nascita della Cassazione e della funzione della nomofilachia sia storicamente e strutturalmente legata ad un modello stautale accentrato, geloso della sovranità nazionale, gerchizzato, e ad una struttura piramidale della giustizia, e che tutto diverso sia il modello statuale disegnato dal nostro sistema costituzionale, nel quale – al di là del policentrismo istituzionale, delle autonomie, delle aperture sovranazionali dell’ordinamento giuridico – la più la più importante delle funzioni di nomofilachia, cioè quella che attiene alla legittimità costituzionale delle leggi, non appartiene più al giudice ordinario e quindi alla Corte di cassazione” la quale in tale materia è posta sul piano di tutti gli altri giudici, partecipando del medesimo potere di attivazione”, Cfr. Foro It. 1988, V, 255 .
  27. Cfr. G. Lattanzi “La Corte di Cassazione tra vecchio e nuovo processo penale” cit., c. 455.
  28. Come affermato da G. Spangher, l’intero tema delle impugnazioni, invero, avrebbe meritato maggior attenzione da parte del legislatore delegante, anche in considerazione della nuova fisionomia del procedimento di primo grado, e dunque della necessità di adeguare al nuovo modello accusatorio anche il tradizionale sistema di controlli: Cfr. in proposito, quanto affermato dall’Autore in Dig. disc. pen., vol. VI, Utet, 1992, alla voce “Impugnazioni penali”, p. 4-5.
  29. Cfr. “Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale”, in Suppl. Ord, alla Gazz, Uff, n. 250, del 24 ottobre 1988, p. 132).
  30. Cfr. “Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale”, cit., p. 133.
  31. G. Lattanzi, in “La Corte di Cassazione tra vecchio e nuovo processo penale” , in “La Cassazione penale: problemi di funzionamento e di ruolo”, cit. c. 459.
  32. Così Cass. Pen. Sez. III, Ud. 11 giugno 1993 (dep.21 settembre 1993).
  33. La stessa Corte di Cassazione, infatti, si era mostrata in principio contraria a questa limitazione, proponendo, in sede di parere al progetto preliminare, di formulare la norma nei diversi termini di “omessa motivazione o manifesta illogicità della stessa, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato o dipende dall’omesso esame della prova di cui alla lettera d)”. Tale conclusione muoveva dal rilievo secondo cui, se si consentiva di dedurre in cassazione la mancata assunzione di una prova decisiva, doveva necessariamente essere consentito di dedurre anche la completa obliterazione – emergente dalla verifica degli atti processuali – di tale prova dopo la sua assunzione. Al di là delle critiche che possono essere mosse al parallelismo tra la mancata assunzione della prova decisiva richiesta e il mancato esame della prova assunta[1] la proposta avanzata dalla Corte in quella sede sottolineava comunque come la scelta del legislatore di delimitare in maniera assoluta al testo del provvedimento impugnato la rilevabilità dei vizi attinenti alla motivazione mettesse comunque a rischio la tenuta logica del sistema.
  34. Cfr. G. Lozzi, “Carenza o manifesta illogicità della motivazione e sindacato del giudice di legittimità”, in “Riv. it. dir. proc. pen.”, 1992, p. 773.
  35. Come affermato, ad esempio, da G. Spangher, in “Il giudizio di cassazione nel sistema delle impugnazioni”, in Giust. Pen., 1991, c. 592 – 593.
  36. Così G. Lozzi, in “Carenza o manifesta illogicità della motivazione e sindacato del giudice di legittimità” in Riv. it. Dir. proc. pen. 1992, p. 772.
  37. Si osserva, al riguardo, che “una prova di cui non vi sia traccia negli atti processuali non può, ovviamente, ritenersi legittimamente acquisita agli atti processuali, ed è, pertanto, inutilizzabile” : Così G. Lozzi, , “Carenza o manifesta illogicità” cit., p. 769.
  38. Vi è anche un diverso indirizzo, che pone l’accento sul fatto che nel caso di prova semplicemente supposta, manca addirittura un quid facti, un dato storico al quale riferirsi, sicché è più corretto, da un punto di vista teorico, tutt’al più parlare di inesistenza materiale dell’atto: così, anche se ancora nella vigenza del vecchio codice, F. Cordero, in “L’inesistenza della decisione giudiziaria (rilievi in merito ad un recente contributo giurisprudenziale all’inquadramento del problema” in Riv. it. dir. proc. pen., 1957, p. 606. Anche in questo caso si perviene, comunque, a conseguenze identiche a quelle derivanti dall’impiego di una prova inutilizzabile ex 191 e 526 c.p.p.
  39. Cfr. G. Spangher, “Rito accusatorio: per una nuova riforma del sistema delle impugnazioni penali”, in “Il giudizio di cassazione nel sistema delle impugnazioni”, a cura di S. Mannuzzu e R. Sestini (Suppl. a “Democrazia e diritto”, 1992, n. 1), p. 242; G. Lozzi, “Carenza o manifesta illogicità” cit., p. 768-769; P. Ferrua, “Il sindacato di legittimità sul vizio di motivazione”, in Studi sul processo penale, Giappichelli, 1990, p. 519; V. Sgromo, “Sulla deducibilità del travisamento del fatto nei motivi di cassazione”, in Giur. it., 1994, II, c. 174; A. Galati, “Le impugnazioni”, in D. Siracusano – A. Galati – G. Tranchina – E. Zappalà, Diritto processuale penale. Vol. II, Giuffrè 1995, p. 519.
  40. La questione è, invero, controversa. In senso favorevole ad una cognitio facti ex actis è stato affermato come “In tema di declaratoria di cause di non punibilità, la Corte di Cassazione – in applicazione del principio del favor innocentiae, cui maggiormente si ispira il vigente codice di rito, evidenziato da alcune disposizioni (artt. 69, comma 1, 530, commi 2 e 3 , 531 comma 2) – può prendere in esame gli atti, per accertare se sussista in modo evidente una ragione di proscioglimento, pur nei limiti propri del giudizio di legittimità”: così Cass. sez III, 28 gennaio 1997 – 2 aprile 1997, n. 3028, in C.E.D. 207599; nello stesso senso Cfr. Cass. 20 novembre 1998, Forlani, ivi, n. 212090; Cass. 5 ottobre 1998, Fabiani, Cass. Pen. 1999, p. 2599. In senso contrario, la giurisprudenza più recente ha affermato un’estensione della limitazione di cui all’originaria formulazione di cui all’art.606 lett e) anche all’art.129 statuendo che “In presenza della causa estintiva della prescrizione del reato, l’obbligo di declaratoria di una più favorevole causa di proscioglimento ex art.129 comma 2 c.p.p. da parte della Corte di Cassazione richiede il controllo unicamente della sentenza impugnata, nel senso che gli atti dai quali può essere desunta la sussistenza della causa più favorevole sono costituiti unicamente dalla predetta sentenza, in conformità con i limiti di deducibilità del vizio di mancanza o manifesta illogicità di motivazione, che, ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. e) deve risultare dal testo del provvedimento impugnato.” : Cfr. Cass. Sez. IV, 27 aprile 2000 – 23 settembre 2000, n. 9944, Ced 217255 – conforme Cass. Sez. I. 5 febbraio 2003 – 5 marzo 2003, n. 10216, ivi, 223575. Le Sezioni Unite, recentemente, hanno mostrato di privilegiare l’orientamento più restrittivo, che in caso di abolizione parziale del reato, non ha ritenuto possibile in sede di legittimità l’accertamento sulla base dell’accesso agli atti, dell’eventuale sussistenza di tutti gli elementi richiesti dalla nuova disposizione normativa, rispettando comunque il principio del favor innocentiae attraverso il principio secondo cui : “la Corte di cassazione è chiamata a decidere sulla base dell’accertamento compiuto dal giudice di merito e contenuto della sua sentenza. Se nelle more tra la pronuncia della decisione impugnata e la trattazione del ricorso è intervenuta un’abolizione parziale è alla decisione impugnata che la Corte di Cassazione deve fare riferimento per stabilire se gli elementi richiesti dalla nuova legge avevano formato oggetto dell’accertamento giudiziale, e in caso affermativo su di essi deve esercitare il suo giudizio; ma se quegli elementi non hanno formato oggetto di accertamento e la Corte di cassazione si trova in presenza di un fatto che, per come è stato accertato dal giudice di marito, rientra nell’ambito dell’abolizione, e dunque non è più previsto come reato, non può che trarne le conseguenze imposte dagli artt.129 e 620 comma 1 lett. a) c.p.p.. Un annullamento con rinvio in funzione meramente esplorativa non può ritenersi consentito. È vero che il sistema processuale deve adattarsi per fare fronte alle sopravvenienze legislative e che specifiche regole di adattamento nel giudizio di cassazione possono essere ravvisate degli artt.609 comma 2 e 619 comma 3, ma è anche vero che la Corte di cassazione, posta di fronte a una sentenza di condanna per un fatto che nei termini di cui è stato accertato viene a risultare non più previsto come reato, non può sottrarsi alla regola dell’art.129 c.p.p. adducendo il dubbio che ulteriori accertamenti da parte del giudice di rinvio potrebbero condurre a conclusioni diverse”: Cfr. Cass. SS. UU, 26 marzo 2003 – 16 giugno 2003, Giordano, in Cass. Pen., 2003, n. 949, p. 3322.
  41. Al riguardo larga parte della dottrina non riteneva infatti opportuno impedire la censura in sede di legittimità di una sentenza che avesse omesso di esaminare una prova, e che in tal modo non si fosse conformata, sia pure in parte, al modello previsto dallo stesso legislatore con riferimento al percorso giustificativo ed argomentativo della motivazione: Cfr. P. Dell’Anno, “Presupposti e limiti del sindacato della Corte di Cassazione sul vizio di motivazione”, in Giust. Pen. 1993, III, c. 714; F. Zucconi Galli Fonseca, “Le nuove norme sul giudizio penale di cassazione e la crisi della corte suprema”, in Cass. Pen., 1990, I, p. 526.
  42. Hanno evidenziato questa contraddizione P. Ferrua, in “Il sindacato di legittimità sul vizio di motivazione nel nuovo codice di procedura penale”, in “Studi sul processo penale”, Giappichelli, 1990, p. 122; F. Zucconi Galli Fonseca, “Le nuove norme sul giudizio penale di cassazione e la crisi della corte suprema”, in Cass. Pen., 1990, I, p. 526 cit.
  43. Cfr. A. Bassi, “Il controllo del giudice di legittimità sulla valutazione della prova indiziaria: una nuova invasione di campo”, in Cass. Pen. 1992, p. 1629; ed anche A. Galati, in “Le impugnazioni”, in Diritto processuale penale di Siracusano, Galati, Tranchina e Zappalà.
  44. Così Cass. Sez. I, 19 marzo 1991, Cinque, in Cass. Pen. 1992, p. 2111 n. 1128.
  45. Cfr. Cass. pen. Sez. III, 4 aprile 1991, Vari, in C.E.D., Cass. n. 1877007, Sez. VI, 13 febbraio 1991, Baccei, in Cass. pen. n. 678, sez. I, 9 aprile 1991, Lentini, in C.E.D. Cass. n. 188015.
  46. Cfr. G. Lattanzi, in “Controllo del diritto e del fatto in cassazione”, in Cass. Pen., 1992, n. 451, p.817, secondo cui “È certo che l’incompletezza della motivazione, o, per usare le parole della Relazione, la «mancanza singoli momenti esplicativi», molte volte non è desumibile dal testo del provvedimento impugnato. Il giudizio di cassazione si svolge per lo più su decisioni emesse in grado di appello e per giudicare della loro completezza occorre rifarsi ai motivi. È solo dalla lettura di questi, ad esempio, che può stabilirsi se l’imputato aveva o meno richiesto l’applicazione di una attenuante o l’esclusione di una aggravante rispetto alla quale deduce in cassazione l’assoluta mancanza di motivazione. D’altro canto gli atti che il nuovo codice vuole sottrarre al controllo della Corte di cassazione non sono i motivi di appello o atti analoghi dai quali si desumono i temi sui quali il giudice era chiamato a decidere; sono gli atti probatori, per impedire che attraverso la denuncia del vizio di motivazione la Corte sia indotta ad effettuare una rivalutazione della prove attribuendosi un compito che il legislatore intende riservare al giudice di merito. Il rapporto tra la nullità ex art.606 lett. c) (per violazione degli artt.125 comma 3 e 546 comma 3 c.p.p.) ed il vizio ex art.606 lett. e) potrebbe allora delinearsi riconducendo alla prima disposizione la mancanza, totale o parziale, in senso grafico o materiale della motivazione ed alla seconda quell’insieme di vizi che, sotto prospettazioni diverse (ad esempio della «motivazione apparente») vengono addotti per denunciare l’assoluta inadeguatezza della motivazione nonostante l’enunciazione di ragioni giustificatrici.”; Cfr. altresì, sempre in questo senso, A. Nappi., in “Guida al codice di procedura penale”, 5 ed. Giuffrè, 1996, p. 630, 63, nonché, in giurisprudenza, Cass., Sez. III, 27 marzo 1990, Castaldi, in Cass. Pen., 1991, II, n. 93 p. 292).
  47. Così Cass. SS. UU. 26 febbraio 1991, Bruno, in Cass. Pen. 1991, II, p. 490, n. 151 , nonché in Giur. It. 1991, II, c. 305 con nota di A. Nappi; Cfr. anche SS.UU, 25 ottobre 1994, De Lorenzo, in Cass. Pen., 1995, p. 869, n. 531.
  48. Così G. Lozzi, in “Carenza o manifesta illogicità della motivazione e sindacato del giudice di legittimità” cit., p. 775; Cfr. altresì id., “La ricorribilità in Cassazione”, in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, 1309.
  49. Si affermava infatti che “Se motivare significa, nel caso della sentenza di condanna, esplicitare le argomentazioni utilizzate per arrivare all’affermazione della sussistenza del fatto imputato e della responsabilità dell’imputato, e se, in un processo in cui il principio fondamentale della fase dibattimentale è quello del contraddittorio nel momento della formazione della prova, l’enunciazione di tali argomentazioni non può prescindere dalla considerazione delle ragioni contrarie, si pone il problema della compatibilità con l’art. 111 comma 1 Cost. di una normativa che rende insindacabile un provvedimento giurisdizionale, il quale abbia completamente ignorato le prove a difesa senza che ciò emerga dal testo del provvedimento impugnato.”
  50. Cfr. Sez. II, 21 dicembre 1994, Loisi, ed, ancora, Cass. 9 maggio 2000, Murante, secondo cui “la motivazione è da ritenere mancante non solo quando vi sia un difetto grafico della stessa, ma anche quando le argomentazioni addotte dal giudice a dimostrazione del fondamento del suo convincimento siano prive di completezza in relazione a specifiche doglianze formulate dall’interessato con i motivi di appello e dotate del requisito della decisività; il che impone una verifica da parte della Corte di Cassazione dei motivi di appello, al fine di accertare la congruità e la completezza dell’apparato argomentativo adottato dal giudice di secondo grado, con riferimento alle doglianze mosse alla decisione impugnata, rientrando nei compiti attribuiti dalla legge alla Corte di Cassazione la disamina della specificità delle censure formulate con l’atto di appello quale necessario presupposto dell’ammissibilità del ricorso proposto davanti alla stessa Corte.”
  51. Cfr. SS.UU 30 ottobre 2003.
  52. Come si dirà infra, commentando la nuova formulazione introdotta con la legge Pecorella, poteva infatti succedere che, nonostante la opportuna censura difensiva, il giudice di secondo grado continuasse a travisare il dato probatorio, ovvero che detto travisamento emergesse per la prima volta proprio in secondo grado. In questi casi l’estensione alle allegazioni difensive svolte in sede di merito restava insufficiente a colmare il vuoto di tutela.
    [1] Il messaggio proseguiva “ Nei limiti della precedente formulazione dell’art.606 del codice di procedura penale, la valutazione della motivazione demandata alla Corte di Cassazione atteneva al controllo di legalità della sentenze. Oggi, dalla seconda delle modificazioni introdotta, inevitabilmente discende che la Corte di cassazione debba procedere al controllo di legalità dell’intero processo, riconsiderandone ogni singolo atto…Il Primo Presidente della Corte di Cassazione ha chiaramente indicato che una delle conseguenze della modifica introdotta sarà l’impossibilità di continuare ad utilizzare il meccanismo di selezione dei ricorsi stabilito dall’art.610, comma 1 , del codice di procedura penal, che consentito negli ultimi anni “una decisiva economia delle risorse, indirizzando verso la settima Sezione penale della Corte il 45per cento dei procedimenti pervenuti”. Questa circostanza, unita all’ampliamento dei motivi del ricorso per Cassazione, condurrà alla crescita in termini esponenziali del carico di lavoro della Corte ed al progressivo accumulo dell’arretrato. Il rischio è che ne risulti compromesso “ il bene costituzionale dell’efficienza del processo”, qual è enucleabile dai principi costituzionali che regolano l’esercizio della funzione giurisdizionale, e il canone fondamentale della razionalità delle norme processuali”.
  53. Cfr. Cass. Sez. VI, 15 marzo 2006, Casula.
  54. Cfr. tra le altre Cass. Sez I, 14 luglio 2006, Stojanovic;
  55. Cfr. Cass. Sez. VI, 13 marzo 2006, Foresta.
  56. In merito si veda P. Ferrua, “Legge Pecorella e regime transitorio. Gli ermellini scelgono la linea dura” D&G 16/06 p.45 e Diritto & Giustizi@ 11 novembre 2006 “Gli ermellini contro la Pecorella: fra le prime sentenze una lettura forzata.”
  57. Cfr. al riguardo, tra le altre, Cass. Sez. V, 12 aprile 2006, Mangion; Cass., Sez. V, 3 aprile 2006, Leotta; Cass. Sez. V, 22 marzo 2006, Cugliari.
  58. Si veda A. Nappi, “Il sindacato di legittimità nei giudizi civili e penali della Cassazione”, Giappichelli, Torino, 2006; Morgini in D& G, 10/06, p.13).
  59. G. Lozzi, “La ricorribilità in cassazione” cit., p. 1319.
  60. Cass., Sez. V, 16955/06 Mangion, che sottolinea “la previsione che il vizio di motivazione può essere dedotto quando risulti non solo dal testo del provvedimento impugnato, ma anche da «altri atti specificamente indicati nei motivi di gravame» (…) va evidentemente interpretat(a) in un senso che non privi di qualsiasi significato il limite della contestualità imposto dalla stessa disposizione; e quindi va interpretato come relativo solo agli atti dai quali derivi un obbligo di pronuncia che si assuma violato dal giudice del merito, come ad esempio la richiesta di una circostanza attenuante o della sostituzione della pena detentiva. Infatti, se il vizio di motivazione deve risultare dal testo della decisione impugnata, come tradizionalmente si riconosce anche quando si attribuisce in via esclusiva al giudice del merito la selezione delle prove, questa selezione non può essere censurata neppure se il ricorso risulti effettivamente autosufficiente, perché il divieto di accesso agli atti istruttori è la conseguenza di un limite posto all’ambito di cognizione della Corte di cassazione”.
  61. Orientamento sostenuto da quella dottrina che ritiene che “il divieto di rilevare vizi della motivazione non desumibili dal testo del provvedimento impugnato non operi in tutti i casi in cui il difetto di motivazione si riferisca alla pronuncia implicita su un punto della decisione, individuato dalla legge o dalle richieste delle parti. L’accesso agli atti del procedimento è in questi casi necessario, infatti, appunto per la conoscenza delle richieste o delle eccezioni di parte dalle quali deriva il dovere di decisione del giudice. E in questo senso va inteso il riformulato art. 606 lett. e), laddove prevede che il vizio di motivazione possa risultare anche da altri atti del processo specificamente indicati (…)”, che sarebbero appunto quelli “dai quali risultino domande o eccezioni dalle quali derivava per il giudice un dovere di decisione che si assume violato.” cfr. V.A. Nappi “ Il sindacato di legittimità nei giudizi civili e penali di cassazione” Giappichelli,2006,p.186.
  62. Significativa, su questo tema, è la vicenda legata al potere di appello, ai fini civili, della parte civile, che il legislatore voleva slegare dai mezzi di impugnazione previsti per il pm ai fini penali, attraverso la soppressione dell’inciso “con il mezzo previsto per il pubblico ministero” contenuto nell’art. 576 c.p.p., consentendone l’autonoma proposizione - come risulta in maniera inequivoca dai lavori parlamentari – e che invece è stato apparentemente soppresso mercé la mancata contestuale e coordinata modifica dell’art.593 c.p.p.. Situazione che ha dato luogo a contrasti giurisprudenziale ed attualmente è al vaglio della Corte Costituzionale.
  63. Ciò era già ben chiaro prima della riforma della legge Pecorella, tanto che la possibilità di controllo del travisamento del fatto era stata estesa fino ai limiti consentiti dalla chiara limitazione del testo del vecchio articolo 606 lett.e).Si era infatti affermato che “il travisamento del fatto è un vizio che in tanto può essere oggetto di valutazione e di sindacato in sede di legittimità, in quanto risulti inquadrabile nelle ipotesi tassativamente previste dall’art. 606 lett. e) c.p.p.; l’accertamento di esso richiede, pertanto, la dimostrazione, da parte del ricorrente, dell’avvenuta rappresentazione al giudice della precedente fase di impugnazione, degli elementi dai quali quest’ultimo avrebbe dovuto rilevare detto travisamento, sicché la Corte di cassazione possa, a sua volta, desumere dal testo del provvedimento impugnato se e come quegli elementi siano stati valutati”. In questi casi, divenuto il travisamento così denunciato esso stesso tema controverso e punto di decisione, la motivazione della Corte di Appello era soggetta anche su tale punto al controllo di legittimità della Corte di Cassazione.
  64. Cfr. A. Nappi, “Il sindacato di legittimità” cit. p. 197, secondo cui “la giurisprudenza, dopo alcune iniziali incertezza, è ormai concordemente orientata a escludere la censurabilità del travisamento non risultante dal testo del provvedimento impugnato, salva la possibilità di accertare una mancanza di motivazione in ordine all’esistenza stessa di un travisamento già dedotto dinanzi al giudice del merito e quindi divenuto esso stesso tema controverso e punto della decisione. E questo orientamento giurisprudenziale può ritenersi risulti codificato dal nuovo testo dell’art. 606/1, lett. e) c.p.p., interpretato nel senso già chiarito”.
  65. Si vedano al riguardo gli interventi della relatrice Bartolini.
  66. Così Cass. Sez. I, n. 25117 del 14-20 luglio 2006, Stoyanovic
  67. In quel caso, come si è visto, il controllo della Corte agli atti processuali è sempre stato ritenuto ammissibile, ai sensi dell’art. 606 lett. c).
  68. Così Cass., Sez. VI, n.- 10951, 15 -29 marzo 2006 n 10951 (cc) Pres. Criscuolo, Rel. Rossi, Ric. Casula; nello stesso senso Cass Sez..VI, n. 14054 del 23 marzo – 20 aprile 2006, Pres. De Roberto, Rel. Rossi, Ric. Strazzanti.
  69. Per questi motivi, pur essendo d’accordo con la critica di P. Ferrua sia all’orientamento “abrogatore della riforma” sia all’eccessiva restrizione alla deducibilità del vizio operata dalla restante giurisprudenza, non sembrano comunque condivisibili alcune delle sue conclusioni che, proprio in ragione del principio del “ragionevole dubbio” e della possibilità di accesso agli atti processuali, farebbero mutare l’oggetto del controllo della Cassazione da quello, tradizionale, sulla motivazione in quello sulla decisione. Afferma infatti l’Autore: “a disarticolare l’intero discorso giudiziale è sufficiente che le prove ignorate o travisate mettano ragionevolmente in dubbio la colpevolezza (secondo la formula introdotta nell’art. 533 comma 1 c.p.p.); esito che a maggior ragione si realizza quando emerga una dinamica dei fatti più persuasiva di quella offerta dal giudice di merito e con essa incompatibile (naturalmente su circostanze rilevanti per l’accertamento della responsabilità)” ed ancora: “le sentenze in esame affermano che al giudice di legittimità resta «preclusa - in sede di controllo sulla motivazione – la pure e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (preferiti a quelli adottati dal giudice del merito perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa) »; e aggiungono che «queste operazioni trasformerebbero …la Corte nell’ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito rispetti sempre uno standard di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione». Discorso del tutto coerente quando alla Cassazione era precluso l’accesso agli atti processuali e, dunque, le era impedito esprimere valutazioni sulla base di premesse probatorie diverse da quelle assunte dal giudice di merito. Ma ora che il vizio di motivazione può risultare anche dagli atti del processo, è pienamente ragionevole che il ricorrente possa prospettare, sulla base del materiale ignorato o travisato, diversi e più plausibili parametri di valutazione dei fatti ”, in “Gli ermellini contro la Pecorella: fra le prime sentenze una lettura forzata”, in Diritto & Giustizia - quotidiano di informazione giuridica del 13.5.2006. Questa lettura, infatti, nell’attribuire alla Corte di Cassazione un potere di valutazione della maggiore o minore “plausibilità” delle prospettazioni difensive, collocando il principio del ragionevole dubbio al di fuori dell’ambito suo proprio, che è il giudizio di merito, presta il fianco proprio a quelle chiusure giurisprudenziali che mirano alla sostanziale abrogazione della riforma. Se “accesso agli atti” significasse “valutazione della prova” , la Corte non potrebbe infatti limitarsi alle sole prove segnalate dal ricorrente, ma dovrebbe rivalutare l’intero panorama probatorio, operazione necessaria per verificare la “maggiore o minore plausibilità” delle diverse opzioni interpretative. È evidente inoltre che in tal caso, una volta ritenuta la scelta interpretativa del ricorrente come “preferibile”, o anche soltanto “plausibile”, essa dovrebbe annullare la sentenza non più con rinvio, ma senza rinvio, nel rispetto del principio del “ragionevole dubbio”. Al contrario, il ragionevole dubbio, assieme agli altri criteri di valutazione delle prove, è patrimonio del giudizio di merito, e deve essere oggetto del sindacato della Corte nei soli limiti della motivazione della sentenza impugnata. Ecco che l’effetto del ragionevole dubbio è da un lato di ampliare il tema di prova, rendendo censurabile anche la motivazione con la quale egli ha ritenuto di respingere le diverse prospettazioni delle parti, dall’altro di sottolineare la rigorosità del procedimento inferenziale, secondo quanto affermato dalla Corte, secondo cui “ sul terreno della valutazione della prova indiziaria, (…) nell’orbita dell’art. 606, comma 1, lett. e) c.p.p. il controllo affidato alla Corte di Cassazione sulla struttura e sulla congruenza logica della motivazione involge, perciò, anche l’osservanza del principio dell’«oltre il ragionevole dubbio», che non può dirsi certamente rispettato quando la pronuncia di condanna si fondi su un accertamento giudiziale non sostenuto da certezza razionale, ossia da una probabilità logica così elevata da confinare con la certezza” cfr. Cass. Sez I, 26.7.2004, Grasso, in Cass. Pen, 2005, n. 285.
  70. F.M. Iacoviello in Guida al Diritto 11 marzo 2006, p. 95.
  71. G. Lozzi, “La ricorribilità in cassazione” cit., p. 1306
  72. G. Lozzi, in “La ricorribilità in cassazione” cit., p. 1319, ha posto questa duplice alternativa ritenendo irrealistica e contraddittoria la prima soluzione ed invece percorribile la seconda con riguardo alle sentenze emesse ai sensi degli “artt.444 e 599 c.p.p.”, per “provvedimenti di archiviazione” ed anche per “le condanne non significative”.
  73. Una self made (ma comunque mai smentita da dati ufficiali) analisi statistica operata dalla Camera Penale di Roma nel 2000 dimostrò che il 98% dei rinvii dei processi in primo grado avanti al Tribunale di Roma era legata a disfunzioni di carattere burocratico del tutto slegate dall’esercizio della giurisdizione ovvero, specificamente, dall’esercizio del diritto di difesa.
  74. In un intervento del 2000, cfr. “ La Corte di cassazione italiana all’inizio del 2000” Foro It. 2000. V c. 107, A. La Torre forniva dati delle pendenze e delle sopravvenienze del quinquiennio precedente che sono sostanzialmente sovrapponibili a quelli indicati da A.Nappi nella monografia pubblicata quest’anno, cfr. “Il sindacato di legittimità”, cit. p. ; in particolare il dato relativo ai nuovi ricorsi, reso noto nel corso del convegno tenuto presso la Suprema Corte il 20 e 21 ottobre scorso, dal titolo “Processo, organizzazione, e informatica nelle Corti di Cassazione Europee”, appare sovrapponibile a quello analizzato sei anni fa. Nello stesso convegno, peraltro, è stato evidenziato come, a parità di organico, in dieci anni il numero delle sentenze sia raddoppiato.
  75. Circa 30.000 secondo le ultime stime.
  76. L’Unione delle Camere Penali, nello scorso biennio aveva allo studio una proposta di legge in tal senso.
A cura del Consiglio di gestione della Scuola centrale di formazione specialistica per l'avvocato penalista .

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