La rassegna di dottrina e giurisprudenza del Corso nazionale di formazione specialistica dell'avvocato penalista organizzato dall'Unione delle Camere penali italiane in collaborazione con il Centro per la formazione e l'aggiornamento professionale degli avvocati del Consiglio Nazionale Forense.

3 settembre 2007

Relazione al nuovo codice di procedura penale (Commissione Riccio) ; parte seconda .

18. Azione penale ed archiviazione

Il tentativo di riscrittura della disciplina dell’azione penale non poteva che prendere le mosse dalla constatazione delle gravi patologie che affliggono le attuali dinamiche di esercizio della potestas agendi da parte del pubblico ministero. Si allude, naturalmente, alla pratica impossibilità di dare attuazione al principio di obbligatorietà dell’azione penale, derivante dallo squilibrio esistente tra il numero delle notizie di reato che pervengono agli uffici di procura e le risorse umane e materiali di cui tali uffici dispongono: squilibrio che costringe i magistrati del pubblico ministero a compiere quotidiana¬mente scelte di politica criminale delle quali non rispondono politicamente, con buona pace del principio di soggezione del pubblico ministero sol¬tanto alla legge implicito nell’art. 112 Cost. e della sua funzione di irrinunciabile presidio dell’indipendenza esterna del rappresen¬tante dell’accusa.
Al riguardo si impone immediatamente un chiarimento. La regola dell’obbligatorietà è violata se il pubblico ministero non esercita l’azione penale quando sussistono le condizioni di legge che ne rendono doveroso l’esercizio (non infondatezza della notizia di reato), oppure se il pubblico ministero non compie le attività necessarie perché quelle condizioni si realizzino (vale a dire, se non vengono svolte tutte le indagini necessarie per sondare la fondatezza della notizia di reato). Benché la sua riconducibilità al perimetro operativo dell’art. 112 Cost. sia quanto meno dubbia, non va tuttavia sottovalutata, come è ovvio, la patologia inversa: l’ipotesi, cioè, dell’azione penale che venga esercitata nonostante manchino le condizioni di legge. L’eccesso di zelo, l’accanimento persecutorio, il “messianesimo inquisitorio” (per usare l’efficace espressione di uno studioso di diritto costituzionale) sono fenomeni non meno preoccupanti della colpevole inerzia, delle coperture, degli “insabbiamenti” che si è soliti tradizionalmente associare al cattivo esercizio del potere di agire. Lo dimostra la più recente legislazione processuale in materia di azione penale, quasi esclusivamente animata dal timore di scongiurare le iniziative azzardate del pubblico ministero: iniziative che il legislatore ha cercato di prevenire intervenendo sia in ambito ordinamentale (la titolarità esclusiva dell’azione penale recentemente assegnata al procuratore capo e il complessivo irrigidi¬mento dei vincoli gerarchici interni all’ufficio giocano a favore dell’inerzia piuttosto che dell’azzardo investigativo) sia in ambito processuale (con il neonato art. 405 comma 1-bis c.p.p. che, addirittura, utilizza lo strumento dell’archiviazione per frenare le iniziative penali avventate anziché per porre rimedio alla colpevole inattività del pubblico ministero).
Tentare di prevenire l’abuso delle funzioni inquirenti – limitando i danni “da azione penale temeraria” – è un compito al quale la Commissione non si è certamente sottratta: né è mancata la consapevolezza che per affrontare adeguatamente il tema dell’azione penale ci si sarebbe dovuti interrogare non soltanto sul comportamento del pubblico ministero una volta acquisita la notizia di reato, ma anche sulle dinamiche di acquisizione della notizia stessa (selezione delle notitiae criminis da parte della polizia giudiziaria, poteri di ricerca e acquisizione delle notizie di reato da parte del pubblico ministero ecc.: v. infra, il commento alla direttiva 56 della delega).
In questa sede, l’attenzione sarà tuttavia rivolta al principio di obbligatorietà inteso nella sua accezione più comune – ossia come principio che impone di agire penalmente quando ne ricorrano le condizioni – e agli strumenti normativi che ne possano garantire l’effettività.
L’idea che occuparsi di tutte le notizie di reato acquisite fosse un compito concretamente irrealizzabile dagli uffici di procura è stata accettata per molti anni con una certa rassegnazione dalla dottrina del processo penale (quella, s’intende, non disposta a mettere in discussione il principio di obbligatorietà, dal momento che i fautori del principio di opportunità ne hanno fatto uno degli argomenti-chiave per caldeggiare l’introduzione di tale principio nel nostro ordinamento). Molto spesso ci si è accontentati del generico auspicio che il legislatore contribuisse a riportare su livelli di normalità il carico giudiziario, attraverso un’opera di massiccia depenalizzazione o in altro modo (ad esempio, aumentando le fattispecie di reato perseguibili a querela di parte). S’intende che l’auspicio deve essere rinnovato, anche se finora il suo destinatario non ha inviato segnali confortanti: così come non può non essere rinnovato l’invito a eliminare o ridurre lo squilibrio tra mezzi e fini aumentando le risorse umane e materiali a disposizione dei magistrati.
Da qualche tempo, tuttavia, si è diffusa la consapevolezza che l’art. 112 Cost. si presti a letture non rigide, coraggiosamente “aperte”, compatibili con istituti e soluzioni normative nuove che potrebbero restituire vigore alla regola dell’obbligatorietà.
Una prima soluzione proposta al riguardo è quella che consiste nel per¬mettere agli uffici del pubblico ministero di selezionare legittimamente le notizie di reato da trattare con prece¬denza rispetto alle al¬tre sulla base di parametri normativi che andrebbero apposita¬mente individuati in sede parla¬mentare (i c.d. “criteri di priorità”), e in esecuzione di programmi operativi periodica¬mente stilati dagli stessi dirigenti degli uf¬fici alla luce di quei parametri. Come è stato puntualmente osservato, tale soluzione permetterebbe di «convertire in vincolata la discrezionalità libera della quale gode attualmente il pubblico ministero nel fissare l’ordine dei procedimenti», conferendo «legittimazione democratica agli indirizzi di politica criminale, oggi affidati a soggetti irresponsabili sul piano politico». Una seconda soluzione – perfettamente in grado di coesistere con la prima – è rappresentata invece dall’amplia¬mento normativo dei presupposti di operatività dell’archiviazione: in particolare, dall’idea che si possa consentire al pubblico ministero di rinunciare legittimamente all’azione penale anche nei casi in cui il reato ipotizzato non superi in concreto una soglia minima di offensività. Infine, si va sempre più diffondendo tra gli studiosi del processo penale la convinzione che debbano essere attribuiti poteri di iniziativa penale a soggetti privati, se non, addirittura, a soggetti pubblici diversi dal pubblico ministero.
Sono istituti dei quali già esistono taluni prototipi più o meno funzionanti nel nostro ordinamento. Il riferimento è principalmente all’art. 227 d.lgs. n. 51 del 1998 per quanto riguarda i criteri di priorità, all’art. 34 d.lgs. 274/2000 per quanto riguarda l’archiviazione per irrilevanza del fatto, agli artt. 21 ss. del medesimo d.lgs. per quanto riguarda il coinvolgimento diretto di soggetti privati nelle dinamiche di instaurazione del processo. La possibilità di estenderne e generalizzarne l’ambito operativo è già stata presa in considerazione in numerosi progetti di riforma: inevitabile, dunque, che anche la Commissione si facesse carico del problema.
Per quanto riguarda il sistema dei criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, nel corso dei lavori della Commissione è emersa, in primo luogo, la convinzione che un siffatto sistema non risulterebbe affatto incompatibile con il principio di obbligatorietà. Scopo delle guide-lines, si è fatto rilevare, è soltanto quello di stabilire in quale ordine le informative di reato devono essere prese in esame dal titolare del potere di azione: l’obbligo di investigare e l’obbligo di agire che l’art. 112 Cost. accolla al pubblico ministero rimarrebbero dunque intatti anche nei confronti delle notizie di reato ritenute dal legislatore non prioritarie. L’obiezione è che indicare le priorità significa, di fatto, consegnare le notitiae criminis postergate a un’inevitabile prescrizione: ma, si replica, questa non è una conseguenza diretta del sistema di cui si ipotizza l’introduzione, bensì l’effetto di una causa remota, rappresentata dal già descritto divario tra numero dei procedimenti e risorse disponibili. Con l’indicazione dei criteri di priorità sarebbe se non altro il legislatore, anziché il capo dell’ufficio di procura, a decidere quali reati devono prescriversi per difetto delle risorse necessarie a garantirne l’accertamento.
Ciò premesso, si è tuttavia ritenuto che le numerose domande alle quali sarebbe stato necessario dare risposta per introdurre una simile riforma nel nostro ordinamento – come andrebbe strutturata la procedura di individuazione normativa dei criteri? quali soggetti istituzionali andrebbero coinvolti nella fase di instaurazione di tale procedura (ministro della giustizia, consiglio superiore della magistratura, procuratore generale presso la corte di cassazione)? quale tipo di atto parlamentare andrebbe adottato (risoluzione, ordine del giorno, legge)? quali cadenze temporali, quali contenuti, quale livello di dettaglio avrebbero dovuto caratterizzare l’intervento legislativo? quali parametri avrebbero dovuto assumere rilevanza nell’indivi¬duazione dei criteri di priorità (esclusivamente parametri di natura sostanziale come il grado di disvalore dell’azione, il grado di disvalore dell’evento, l’intensità della colpevolezza, o anche parametri di matrice processuale come il pregiudizio che il ritardo avrebbe arrecato alla formazione della prova e all’accertamento dei fatti, la prognosi favorevole o sfavorevole in ordine agli esiti dell’indagine, le conseguenze della condanna per l’imputato, l’interesse della persona offesa)? come tenere conto delle particolari esigenze dei diversi territori e delle diverse sedi giudiziarie? come garantire effettività al sistema così congegnato? – avrebbero condotto la Commissione oltre i limiti segnati dai suoi compiti istituzionali, sia per l’inevitabile sconfinamento sul terreno delle dinamiche di formazione della volontà parlamentare, sia per le altrettanto inevitabili interferenze con la riforma della legge di ordinamento giudiziario.
Si è dunque preferito soprassedere, nell’attesa che progetti legislativi di più ampio respiro permettano finalmente di varare una riforma che la Commissione, è bene ribadirlo, ritiene non solo compatibile con il principio di obbligatorietà dell’azione penale, ma ormai imprescindibile per restituire effettività e concretezza a tale principio.
Quanto all’attribuzione di poteri di iniziativa penale a soggetti privati, il dibattito interno alla Commissione si è sviluppato sulla base di talune premesse largamente condivise. Nessun dubbio che si tratti, in linea generale, di una prospettiva riformatrice non soltanto pienamente sintonica con il modello costituzionale di giurisdizione penale, ma anche coerente con il crescente diffondersi di logiche privatistiche e negoziali in settori dell’ordinamento tradizionalmente improntati al dogma dell’indi¬sponibilità (come, ad esempio, nel settore amministrativo e in quello tributario). Altrettanto condivisa, all’interno della Commissione, è risultata l’opzione programmatica di prendere in considerazione soltanto l’ipotesi di attribuire il potere di esercitare l’azione penale all’offeso dal reato. Sono state dunque immediatamente scartate le proposte, più innovative, di attribuire il potere di azione anche al quivis de populo (quanto meno in determinati settori dell’ordinamento ove il controllo popolare appaia partico¬larmente utile) oppure a soggetti specializzati come le ASL in materia di sicurezza sul lavoro, gli uffici tecnici comunali in materia edilizia, gli organi regionali di protezione civile in materia di tutela dell’ambiente. Quest’ultima proposta, in particolare, è stata accantonata per il timore di consegnare le chiavi dell’azione penale a organi politicamente controllabili.
Ciò premesso, il dibattito si è sviluppato sul duplice versante dell’opportunità politica e della legittimità costituzionale della riforma. Sul primo versante, la principale obiezione da fronteggiare rimane quella fondata sul timore di un abuso del potere di azione da parte del privato, il quale, ovviamente, valuta con minore lucidità del pubblico ministero le vicende che lo coinvolgono. Si teme, in altre parole, che resti ancora valido quanto scriveva il ministro della giustizia nella re¬lazione al progetto preliminare del codice di procedura penale del 1905: «una ri¬forma le¬gislativa non può produrre utili effetti se il Paese non vi sia preparato. Ora, l’educazione civile non è giunta presso di noi a tal segno, da indurne che l’azione popolare possa recare all’amministrazione della giustizia quell’ausilio che si ripromettono i suoi propugnatori. L’istituto, dal punto di vi¬sta della scienza astratta, ha un carattere libe¬rale e democra¬tico; ma, nelle condizioni presenti dei nostri co¬stumi, sarebbe pericoloso alla tranquillità dei cittadini [...] Vi sarebbe a temere che l’esercizio dell’azione penale servisse ad appagare odii e a suscitare vendette, o dive¬nisse mezzo di accuse temerarie, o ca¬lunniose, o di sordide speculazioni». Assegnare il potere di azione al privato, è stato osservato, significherebbe inoltre attribuire al medesimo la facoltà di provocare – a carico del destinatario dell’accusa – i gravi effetti stigmatizzanti ricollegati alla mera assunzione della qualità di imputato: anche se il fatto stesso che l’accusa provenga da un soggetto privato anziché da un magistrato dovrebbe in qualche misura limitare tali effetti. Un’altra obiezione molto seria è che attribuendo ai privati il potere di agire penalmente si rischia di pregiudicare l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, favorendo le persone offese più abbienti e in possesso di maggiori risorse per coltivare la propria pretesa. In breve, la preoccupazione, da un lato, è quella di trasferire anche sul piano della contesa giudiziaria le disparità economiche, sociali, culturali esistenti tra i consociati; dall’altro, quella di esporre la giustizia penale ai sentimenti e agli interessi personali, favorendo atteggiamenti gratuitamente perscutori o vendicativi.
Quanto ai rapporti tra l’azione penale privata e il principio di obbligatorietà, è noto l’orientamento della giurisprudenza costituzionale secondo cui l’azione penale privata sarebbe compatibile con l’art. 112 Cost. purché il legislatore ne configuri la titolarità non come titolarità esclusiva, ma come titolarità concorrente con quella del pubblico ministero. Tale orientamento è parso ad alcuni dei commissari perfino troppo restrittivo: in fondo, è stato osservato, l’art. 112 Cost. intende dire – e si limita a dire – che il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale nei casi previsti dal legislatore ordinario; quest’ultimo, dunque, sarebbe libero di attribuire anche in via esclusiva poteri di iniziativa processuale a soggetti diversi dal pubblico ministero. Ad altri, invece, l’orientamento della Corte costituzionale è parso eccessivamente permissivo, dal momento che – si è detto – ammettere che il privato possa esercitare l’azione penale in via concorrente o sussidiaria rispetto al pubblico ministero significa riconoscere che quest’ultimo si è già collocato fuori dell’area della legalità, ossia postulare come fisiologica, in qualche misura, la violazione della legge. Va detto però che questa opinione è rimasta isolata: al contrario, è emersa molto forte la convinzione che l’azione penale privata possa rivelarsi uno strumento prezioso proprio per rimediare alle inerzie del pubblico ministero nell’esercizio dei suoi poteri di azione e per dare piena attuazione a quel “diritto alla giurisdizione” che spetta a ogni cittadino a norma dell’art. 24 Cost.
S’intende che nel parlare di “inerzia” del pubblico ministero non si allude necessariamente a un’inerzia colpevole. Non si pensa, cioè, soltanto all’ipotesi alla quale alludeva Francesco Carrara in un celebre passaggio del suo Programma dedicato all’azione penale privata: «sia libero il pubblico accusatore di negare l’opera e l’aiuto suo a sostegno di una querela che nella sua opinione egli non crede giusta. Ciò sta benissimo […] Ma sia libero anche il privato di fare a meno di quello appoggio [e] di esercitare la sua azione coi propri mezzi e a suo esclusivo pericolo, [perchè] i giudizi o i pregiudizi (ossia le divinazioni) dei pubblici ministeri [non] hanno il dono dell’infallibilità». L’inazione del pubblico ministero che potrebbe trovare un efficace rimedio nell’intervento sostitutivo dei privati è – oggi – quella che si manifesta in relazione alle notizie di reato che gli uffici di procura non possono coltivare per mancanza di risorse umane e materiali. Il tema dell’azione penale privata si è quindi strettamente intrecciato, nel dibattito interno alla Commissione, con il tema dei criteri di priorità nell’esercizio della potestas agendi. Ne è emersa la convinzione che l’azione privata potrebbe servire proprio a colmare i vuoti di risposta giurisdizionale che attualmente si registrano in relazione ai reati non “prioritari” nell’agenda del procuratore della repubblica. Una soluzione, dunque, che, a un tempo, offrirebbe maggiori garanzie all’offeso e servirebbe a rendere più efficace e rapido il sistema penale, avvicinando i cittadini alla giustizia e conferendo maggiore credibilità al sistema.
Per rimanere coerente con queste premesse, la Commissione ha dovuto però farsi carico di un duplice ordine di problemi: 1) il rischio di un sovraccarico di lavoro per le autorità giudicanti (cioè il rischio che il sistema non riuscisse ad assorbire l’inevitabile incremento delle richieste di attivazione della giurisdizione penale); 2) l’esigenza di ridurre ai minimi termini il livello di coinvolgimento del pubblico ministero nel processo avviato su iniziativa altrui.
Quest’ultimo profilo si è rivelato particolarmente delicato e problematico. L’esperienza storica e comparatistica – la citazione diretta del codice 1865; la citazione diretta per i reati di ingiuria e diffamazione del codice 1913; la citation directe del codice di procedura penale francese vigente – offre all’attenzione dello studioso del processo penale un modello standard di giudizio a iniziativa privata in cui la persona offesa si limita a promuovere, senza realmente esercitarla, l’azione penale: ossia provoca l’instaurazione del giudizio, ma, come è stato scritto, «una volta raggiunto lo scopo, vale a dire la fissazione dell’udienza […], viene esautorata della funzione di accusatrice, a quel punto assegnata soltanto al magistrato». Non a caso, in questi modelli – con la sola eccezione del sistema del 1913 – la parte privata è poi obbligata a costituirsi parte civile nel processo (anche se in Francia si ammette che il danneggiato possa costituirsi parte civile senza chiedere un risarcimento). Sono sistemi che hanno sempre sofferto in qualche modo di questo loro carattere ibrido, perché in fondo non corrispondono alla più autentica filosofia dell’istituto, che è quella evocata dall’immagine carrariana di un offeso che «esercita la sua azione coi propri mezzi e a suo esclusivo pericolo» e del pubblico ministero che – per citare ancora Carrara – «si tiene in disparte e rimane spettatore inerte della lotta che va a impegnarsi fra l’offeso e l’asserito offensore». Non è un caso, probabilmente, che l’istituto della citazione diretta abbia trovato scarsissima applicazione nella prassi giudiziaria dei codici 1865 e 1913. Sistemi di questo genere, inoltre, non risolverebbero se non in parte il problema attuale del sovraccarico di lavoro degli uffici di procura, perché comunque costringerebbero in qualche misura il pubblico ministero a occuparsi anche delle notizie non prioritarie.
L’opinione della Commissione è che debbano pertanto ipotizzarsi modelli di giurisdizione penale nei quali il processo non solo nasca, ma viva e muoia (rectius: non solo possa nascere, ma possa vivere e morire) senza pubblico ministero. Tenuto conto sia delle residue perplessità che l’istituto suscita sul piano dell’opportunità politica, sia dei rischi di eccessivo sovraccarico per gli organi giudicanti che esso provoca, si è ritenuto, tuttavia, che un simile ambizioso modello di giustizia penale a iniziativa privata potesse ancora trovare spazio unicamente nei confini del procedimento di pace. Si è pertanto deciso di limitare l’intervento riformatore a una riscrittura dell’istituto del ricorso immediato della persona offesa attualmente disciplinato dagli artt. 21 ss. del d.lgs. 274/2000. Tale ricorso è stato qualificato senza mezzi termini come forma di esercizio privato dell’azione penale: inoltre, e soprattutto, il meccanismo di instaurazione del rito su iniziativa dell’offeso è stato configurato in modo tale da consentire la celebrazione del processo anche in difetto di ogni iniziativa della parte pubblica, secondo principi e regole per la cui dettagliata descrizione si rinvia al commento alla direttiva 88 della delega.
Del tutto imprescindibile, allo scopo di restituire effettività al canone costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale, è stata infine ritenuta l’introduzione nel nostro sistema processuale di forme di archiviazione legate alla scarsa offensività della condotta criminosa. Al riguardo, per l’illustrazione delle soluzioni adottate, si rinvia al commento alla direttiva 65 della delega.
La direttiva 56 («1. potere-dovere del pubblico ministero di svolgere investigazioni dirette all’acquisizione della notizia di reato, nei termini e con le modalità previste dalla legge; 2. esclusione di tale potere-dovere in casi predeterminati») conferisce al pubblico ministero il potere-dovere di svolgere investigazioni dirette alla formazione della notizia di reato. Benché non se ne faccia esplicita menzione, presupposto indispensabile per l’esercizio di tale potere-dovere è l’esistenza di un’informativa di reato non qualificabile come notitia criminis per genericità o incompletezza di rappresentazione. L’attività di ricerca della notizia di reato dovrà pertanto svilupparsi, per usare l’efficace espressione di uno studioso, all’interno di «coordinate già date di sospetta reità» (pur non sfuggendo alla Commissione che il discrimine tra un’attività di ricerca della notitia criminis avviata in totale mancanza di un sospetto di reità e un’attività del medesimo tipo avviata in presenza di un sospetto che il pubblico ministero abbia tratto da una fonte informale, potrà, in concreto, risultare assai labile).
La Commissione ha ritenuto che attribuire al pubblico ministero il potere-dovere di cui trattasi fosse indispensabile per garantire un esercizio dell’azione penale esteso anche ad ambiti oggettivi e soggettivi in relazione ai quali potrebbe mancare o essere debole l’iniziativa autonoma degli organi di polizia, pur sempre soggetti all’influenza delle relative strutture politico-amministrative di appartenenza. In questo senso, la direttiva (che ripropone e conferma una scelta già compiuta dal legislatore del 1988 nell’art. 330 del vigente codice di procedura penale) va dunque intesa come strettamente funzionale alla tutela del principio di obbligatorietà. Si è inoltre ritenuto che il coinvolgimento del pubblico ministero nelle attività di formazione della notitia criminis fosse una scelta maggiormente coerente con la logica sottesa a taluni istituti previsti dalla legislazione processuale speciale – come il colloquio investigativo, le operazioni sotto copertura e le intercettazioni preventive – che testimoniano il già avvenuto superamento della tradizionale concezione dell’organo inquirente come passivo recettore delle notizie di reato.
La clausola «nei termini e con le modalità previste dalla legge» riflette, tuttavia, l’esigenza di sottoporre a una puntuale e stringente regolamentazione normativa il potere-dovere del pubblico ministero di “costruire” la notizia di reato. Tale esigenza nasce, per un verso, dalla constatazione che l’assenza di vincoli normativi ha favorito, talora, il ricorso a discutibili modalità di esercizio del potere di cui all’art. 330 c.p.p., prevalentemente incentrate su un uso improprio del cosiddetto “registro delle non notizie di reato”; per altro verso, dalla consapevolezza che affidare alla piena discrezionalità dell’organo inquirente l’an e il quomodo dello svolgimento delle investigazioni di cui trattasi finirebbe per trasformare tali investigazioni – concepite come strumento di salvaguardia del principio di obbligatorietà – in un rimedio peggiore del male, dando definitivamente ragione a chi, in dottrina, dopo avere denunciato la «ineludibile valenza politica» delle indagini che hanno «come atto conclusivo la notizia di reato», ne invoca, coerentemente, la sottoposizione a controlli di carattere politico.
Sul primo versante (estensione oggettiva del potere-dovere investigativo del pubblico ministero), il riferimento ai termini e alle modalità previste dalla legge andrà pertanto inteso sia come necessario contenimento delle investigazioni “per” la notizia di reato entro limiti cronologici e contenutistici predeterminati (fino al limite estremo, espressamente previsto, del divieto assoluto di svolgimento delle suddette investigazioni in casi predeterminati), sia come necessità di prevedere una specifica disciplina della registrazione delle informative generiche di reato che abbiano dato origine a tali investigazioni (distinguendo, peraltro, l’ipotesi in cui l’informativa non costituente notizia di reato per genericità o incompletezza di rappresentazione sia stata ricevuta dal pubblico ministero in forma qualificata, dall’ipotesi in cui lo spunto investigativo sia stato acquisito informalmente o sia emerso, come spesso accade, nel corso di un’indagine concernente una notitia criminis già iscritta nell’apposito registro). Quanto al rischio che le investigazioni asseritamente dirette alla formazione della notizia di reato possano in realtà nascondere indagini su notizie di reato già acquisite – quanto alla possibilità, cioè, che gli spazi di legittima “costruzione” della notitia criminis concessi al pubblico ministero vengano illegittimamente dilatati al fine di aggirare la disciplina dei termini investigativi –, si tratta di patologie alle quali pone rimedio la direttiva 62 (vedi) nella parte in cui attribuisce al giudice il potere di retrodatare il termine iniziale dell’indagine in sede di valutazione dell’utilizzabilità degli atti investigativi compiuti solo apparentemente nei termini di legge.
Quanto, invece, al possibile attrito con il principio di obbligatorietà dell’azione penale, l’opinione di una parte della Commissione era che fosse necessario imporre tout court al legislatore delegato la previsione di un controllo giurisdizionale sull’attività e sulle determinazioni del pubblico ministero. Tale controllo avrebbe potuto strutturarsi sulla falsariga di quello già previsto dal codice di procedura penale per le investigazioni contro ignoti (anch’esse, in fondo, dirette a “costruire”, rendendola nominativa, la notizia di reato): rivelatesi infruttuose le investigazioni dirette alla formazione della notitia criminis, il pubblico ministero avrebbe dovuto chiedere al giudice per le indagini preliminari l’assenso alla mancata iscrizione dell’informativa generica di reato nel registro delle notitiae criminis; il giudice, investito della richiesta, avrebbe potuto dare il suo assenso oppure negarlo, ordinando all’inquirente l’iscrizione immediata della notizia già acquisita oppure disponendo la prosecuzione delle investigazioni dirette ad acquisirla. All’accoglimento di una simile proposta – così come di altre suggerite nel corso della discussione, imperniate, ad esempio, su un coinvolgimento attivo del denunciante nella procedura di controllo sul rispetto degli obblighi investigativi del pubblico ministero – si è tuttavia obiettato che la stessa avrebbe condotto a un insostenibile dispendio di risorse processuali, traducendosi nell’istituzione di controlli solo formalmente ossequiosi del principio di obbligatorietà. Si è inoltre fatto rilevare come il coinvolgimento del giudice in una fase addirittura precedente all’acquisizione della notizia di reato avrebbe determinato un’intollerabile espropriazione delle prerogative istituzionali del pubblico ministero in favore dell’organo giudicante, trascinando il secondo in aree che dovrebbero rimanere riservate alla responsabilità del primo.
Preso atto di questa divergenza di opinioni, si è ritenuto preferibile non vincolare in alcun modo il legislatore delegato circa l’an e il quomodo (forme, contenuti, estensione, natura) del controllo sugli obblighi investigativi gravanti sul pubblico ministero in presenza delle informative di reato generiche o incomplete: obblighi la cui sussistenza è stata peraltro ribadita attraverso la configurazione della situazione soggettiva gravante sull’organo dell’accusa come “potere-dovere” anziché come mera “facoltà”.
La direttiva 57 («previsione che debba considerarsi notizia di reato qualunque rappresentazione non manifestamente inverosimile di uno specifico accadimento storico, attribuito o meno a soggetti determinati, dalla quale emerga la possibile violazione di una disposizione incri¬mi¬na¬trice contenuta nel codice penale o in leggi spe¬ciali») riflette l’esigenza, largamente condivisa nell’ambito della Commissione, di fornire una definizione normativa della notizia di reato. Scopo della direttiva è quello di delimitare e dare concretezza all’obbligo di iscrivere la notitia criminis nell’apposito registro, chiarendo definitivamente che cosa deve essere iscritto in tale registro e superando le ben note incertezze manifestatesi nell’utilizzo del c.d. “modello 45” da parte degli uffici di procura. Elementi strutturali della nozione accolta sono l’esistenza di una rappresentazione del fatto, la sua non manifesta inverosimiglianza (intendendosi per rappresentazione manifestamente inverosimile quella contraria a elementari leggi logiche o scientifiche oppure inconciliabile con fatti notori), il carattere specifico del fatto rappresentato, l’impossibilità di effettuare una diagnosi sicura e immediata di irrilevanza penale del medesimo.
Nel corso dei lavori della Commissione era stata avanzata la proposta di precisare ulteriormente il concetto con l’aggiunta di una speculare definizione normativa delle non-notizie di reato («informative di reato concernenti fatti palesemente non previsti dalla legge come reato, o la cui rappresentazione appaia manifestamente inverosimile per contrarietà a elementari leggi logiche o scientifiche o per inconciliabilità con fatti notori; informative di reato non costituenti notitia criminis per genericità o incompletezza di rappresentazione»). La proposta, tuttavia, è stata bocciata in quanto ritenuta meramente ripetitiva di concetti già desumibili a contrario dalla definizione accolta di notizia di reato.
Ugualmente minoritario è risultato l’orientamento tendente a inserire nella legge delega la previsione di forme di controllo – giurisdizionale o interno all’ufficio – sulla scelta del pubblico ministero di destinare l’informativa al registro delle “non-notizie di reato” anziché al registro delle notizie di reato. L’intento era quello di scongiurare, per il futuro, ogni condotta elusiva della regola dell’obbligatorietà imperniata sull’uso improprio del “modello 45”: anche in questo caso (vedi sub direttiva 56) si è tuttavia ritenuto che introdurre simili forme di controllo non corrispondesse né a criteri di oculata gestione delle limitate risorse materiali e umane delle quali dispongono gli uffici giudiziari, né – con specifico riferimento all’ipotesi di introdurre controlli di tipo giurisdizionale – a criteri di corretto riparto delle funzioni requirenti e giudicanti.
Nella direttiva 58 («1. obbligo del pubblico ministero di iscrivere la notizia del reato in apposito registro custodito negli uffici della procura della Repubblica, indicando la data della sua acquisizione e, appena possibile, il nominativo di ogni persona alla quale il reato è attribuito; 2. obbligo del pubblico ministero di aggiornare le iscrizioni alle risultanze delle indagini in corso e all’eventuale mutamento del titolo del reato») viene disciplinato l’obbligo del pubblico ministero di iscrivere la notizia di reato in apposito registro custodito presso gli uffici di procura.
Rispetto al vigente assetto normativo, la novità è rappresentata dal fatto che il pubblico ministero deve indicare, all’atto dell’iscrizione, la data di acquisizione effettiva della notitia criminis. L’innovazione si spiega con l’intento, esplicitato nella prima parte della direttiva 62, di fare decorrere il termine a quo delle indagini preliminari dalla data di acquisizione effettiva della notizia di reato anziché, come oggi avviene, dalla data della sua iscrizione nel registro delle notitiae criminis («1. prevedere un termine per le indagini preliminari […] decorrente dall’acquisizione della notizia di reato»).
A tale esigenza – tanto più avvertita dalla Commissione dopo avere riconosciuto la legittimità delle investigazioni del pubblico ministero dirette all’acquisizione della notizia di reato (vedi sub direttiva 56) – si accompagna quella di consentire al giudice, su istanza dell’interessato, la “retrodatazione” del termine investigativo iniziale (si veda ancora la direttiva 62: «5. potere-dovere del giudice, su istanza dell’interessato, di accertare la data di effettiva acquisizione della notizia di reato agli atti del procedimento, ai fini della valutazione di inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti dopo la scadenza del termine di durata massima delle indagini preliminari»). Al riguardo, si è ritenuto, per un verso, che l’erronea indicazione della data di acquisizione della notizia di reato da parte del pubblico ministero (nel senso, ovviamente, dell’indicazione di una data successiva a quella di effettiva acquisizione) dovesse comportare soltanto l’inutilizzabilità degli atti investigativi compiuti dopo la scadenza del “vero” termine investigativo e non anche l’inutilizzabilità degli atti investigativi compiuti tra la data di acquisizione effettiva della notizia e la data di acquisizione indicata nel registro. Per altro verso, si è ritenuto opportuno confinare il potere di retrodatazione del giudice alla sola verifica della utilizzabilità degli atti investigativi compiuti fuori termine. Non potrà pertanto essere previsto, nel corso delle indagini preliminari, un apposito incidente giurisdizionale volto a verificare la data di effettiva acquisizione della notizia di reato a prescindere dalla contestazione di utilizzabilità di uno specifico atto investigativo per inosservanza del termine. Conviene inoltre ribadire che il giudice non dovrà essere chiamato a sindacare la correttezza della data di iscrizione della notizia di reato ma la correttezza della data di acquisizione, indicata all’atto dell’iscrizione. L’inciso «agli atti del procedimento» punta, infine, a evitare che il vaglio giurisdizionale possa estendersi ad atti inseriti ab origine in fascicoli relativi ad altri, ed ancora riservati, procedimenti.
Le direttive 65-67 contengono i criteri ai quali dovrà ispirarsi il legislatore delegato nel disciplinare l’istituto dell’archiviazione della notizia di reato.
Quanto ai presupposti dell’archiviazione, indicati nella prima parte della direttiva 65 («1. potere-dovere del giudice di disporre, su richiesta del pubblico ministero, l’archiviazione per essere ignoti gli autori del reato o per insostenibilità dell’accusa in giudizio, anche per la particolare tenuità del fatto»), si è ritenuto opportuno, in primo luogo, promuovere la “insostenibilità dell’accusa in giudizio” a criterio di carattere generale per la legittima desistenza dall’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero. Ciò nella convinzione che tale presupposto – comune al provvedimento liberatorio terminativo dell’udienza di conclusione delle indagini – debba essere inteso come comprensivo non soltanto delle fattispecie di “infondatezza” in senso stretto della notizia di reato, ma anche delle ipotesi attualmente disciplinate dall’art. 411 c.p.p. (improcedibilità, estinzione del reato, non previsione del fatto come reato), nonché, in genere, di tutte le ipotesi di prevedibile esito abortivo dell’imputazione, quale che sia la formula di proscioglimento che si presume verrebbe adottata in sede processuale. Scompare per questo motivo il richiamo, contenuto nella direttiva 50 della legge delega del 1987, alla improcedibilità dell’azione penale quale causa “speciale” di archiviazione. In questo modo dovrebbero essere superate le incertezze interpretative derivanti dall’attuale disposto dell’art. 411 c.p.p. (da non riprodurre in sede di attuazione della delega), il quale, dichiarando archiviabili per una ragione diversa dalla loro infondatezza le notizie di reato concernenti fatti estinti o non previsti dalla legge come reato o perseguibili solo in presenza di una condizione di procedibilità in concreto insussistente, sembrerebbe escludere dal perimetro operativo degli artt. 408-414 c.p.p. le notizie di reato non definibili stricto sensu infondate ma neppure ricomprese in quel catalogo (ad esempio, le notizie di fatti non costituenti reato o non punibili). Per queste stesse ragioni – vale a dire, per la sua sostanziale superfluità – la Commissione ha ritenuto di non inserire nella direttiva un richiamo alla possibilità di decretare l’archiviazione “per intervenuta oblazione”, come pure era stato proposto.
Chiarito che si è ritenuto, per contro, di assegnare ancora autonomo rilievo, in ragione delle sue peculiarità, all’archiviazione delle notizie di reato concernenti soggetti ignoti, un discorso più articolato merita il riferimento alla possibilità di decretare l’archiviazione “anche per la particolare tenuità del fatto”.
Al riguardo, la Commissione – unanimemente favorevole a estendere al processo ordinario l’istituto della tenue offensività, sinora confinato, a titolo sperimentale, nel sottosistema minorile e in quello di pace – ha dovuto affrontare in via pregiudiziale due delicate questioni. In primo luogo, si doveva decidere se configurare la tenuità del fatto come causa di esclusione della punibilità (secondo il modello già normativamente sperimentato in ambito minorile) oppure come causa di esclusione della procedibilità (secondo il modello già normativamente sperimentato nell’ambito del procedimento di pace). In secondo luogo, si trattava di stabilire se consentire la declaratoria di tenuità del fatto anche in sede di archiviazione della notizia di reato o soltanto in ambito processuale (id est, con sentenza): in altre parole, se configurare o meno la modesta offensività della condotta come una causa di legittima desistenza dall’esercizio dell’azione penale. Si tratta, è bene precisarlo, di due variabili indipendenti: in quanto causa di improcedibilità, è scontato che la modesta offensività della condotta criminosa avrebbe potuto e dovuto essere annoverata tra i presupposti di legittima rinuncia alla potestas agendi; ma la scelta di configurare la particolare tenuità del fatto come causa di non punibilità non impedisce di prevedere che la tenuità venga ugualmente dichiarata con archiviazione.
Quanto al primo dilemma, si è ritenuto che il compito di fornire il più corretto inquadramento sistematico all’istituto non potesse che essere affidato ai lavori di riforma del codice penale. L’opinione della Commissione è che sarebbe peraltro inopportuno configurare la tenuità del fatto come causa di improcedibilità, sia per il rilievo che una simile qualificazione risulta più coerente con la previsione di cause di mancato esercizio o di mancato proseguimento dell’azione penale legate alla valutazione di interessi esterni al fatto e al suo autore, sia perché la disciplina processuale dell’improcedibilità (e in particolare, la precedenza logica che va riconosciuta all’improcedibilità rispetto alle altre cause di proscioglimento) stenta a conciliarsi con i contenuti della declaratoria di tenuità, che non può prescindere dall’analisi del merito della causa e che dovrebbe intervenire, almeno in sede dibattimentale, soltanto dopo l’accertamento degli altri elementi costitutivi del reato.
Quanto all’alternativa archiviazione/sentenza (rectius, archiviazione e sentenza o solo sentenza), la prima soluzione presa in esame è stata quella di prevedere, in accordo con un diffuso orientamento dottrinale, che la tenuità del fatto potesse venire dichiarata soltanto dopo l’esercizio dell’azione penale, con sentenza di non luogo a procedere o di proscioglimento. A sostegno di tale soluzione si è fatto rilevare, nel corso della discussione, come la declaratoria di tenuità non possa prescindere dall’accertamento della responsabilità dell’autore del fatto tenue: e ciò sia sul piano logico, non potendo essere valutata, in concreto, la tenuità di un fatto di reato se non dopo averne ricostruito i connotati oggettivi e soggettivi di illiceità, sia sul piano giuridico, dal momento che una decisione di tenuità adottata “in ipotesi di responsabilità” graverebbe pesantemente e in maniera del tutto ingiustificata sulla reputazione e sull’onorabilità del suo destinatario (il quale, come è ovvio, potrebbe non avere mai commesso il fatto asseritamente tenue, o averlo commesso in presenza di cause scriminanti). La decisione della quale si discute andrebbe pertanto necessariamente adottata in un contesto “garantito”, nel cui ambito l’imputato possa rivendicare e far valere il suo diritto a essere prosciolto per tenuità del fatto da un giudice che abbia previamente accertato la sua responsabilità. Accolte simili premesse, si sarebbe dovuta coerentemente escludere la possibilità di dichiarare la non punibilità (o l’improcedibilità) per tenuità del fatto in sede di archiviazione della notizia di reato; accertata nel corso della fase investigativa la modesta offensività dell’episodio criminoso, il pubblico ministero non avrebbe potuto interrompere le indagini e chiedere una declaratoria di tenuità “in ipotesi di responsabilità”.
A questo modello di regolamentazione dell’istituto – destinato a introdurre forme di esercizio sostanzialmente astratto dell’azione penale (in quanto il pubblico ministero, in possesso di elementi investigativi tali da rendere probabile un proscioglimento dibattimentale per tenuità del fatto, avrebbe dovuto comunque esercitare l’azione) e a rendere necessaria, di conseguenza, una rimodulazione dello stesso concetto di “superfluità” del processo adottato dalla Corte costituzionale a parametro fondamentale delle scelte dell’organo inquirente in materia di azione penale – si è opposto, in primo luogo, che esso non avrebbe comportato alcun significativo guadagno in termini di economia processuale e quindi di durata ragionevole dei processi. E’ stato osservato, infatti, che l’ampliamento dello spettro decisionale conseguente all’introduzione della nuova formula di proscioglimento comporterà un inevitabile appesantimento delle cadenze processuali, dovuto anche al notevole incremento degli obblighi motivazionali negativi gravanti sul giudice: appesantimento al quale, nella prospettiva in esame, non avrebbe fatto riscontro alcun risparmio di tempo e di risorse processuali in fase investigativa, dovendo l’indagine sul fatto tenue svolgersi comunque in maniera completa e dovendo l’azione penale venire necessariamente esercitata. Il rischio paventato da taluni commissari è che, a simili condizioni, il vaglio di tenuità del fatto finisse per retrocedere a sedi procedimentali non soltanto non garantite, ma addirittura sottratte al controllo giurisdizionale: il riferimento è alla possibile disinvolta “cestinazione” delle notizie di reato concernenti i fatti di scarsa portata lesiva, ma anche alla selezione delle notitiae criminis effettuata sulla base dei “criteri di priorità” individuati dal capo dell’ufficio, tra i quali tradizionalmente figura – e non potrà non figurare anche nel momento in cui la materia dovesse trovare finalmente una compiuta regolamentazione normativa – la dimensione concretamente offensiva dell’illecito. Il pericolo, in altre parole, era che al cospetto di un illecito rivelatosi “tenue” fin dalla prima delibazione della notitia criminis, il pubblico ministero, anziché indagare in maniera completa ed esercitare l’azione penale solo per assicurare all’imputato una sentenza di proscioglimento, avrebbe potuto preferire il commodus discessus dell’abbandono della notizia di reato sullo scaffale degli affari “non prioritari” (se non quello, ancora più insidioso, del ricorso al “modello 45”): con buona pace, è appena il caso di osservarlo, non solo delle aspettative di giustizia del denunciato e dell’offeso, ma anche del rispetto del principio di obbligatorietà.
Quanto alle obiezioni in ordine alla ritenuta impossibilità (logica e giuridica) di decidere nel senso della tenuità senza avere previamente accertato la responsabilità dell’indagato, si è ritenuto, in primo luogo, che la valutazione di possibile superfluità del dibattimento legata alla modesta offensività della condotta criminosa possa essere effettuata in molti casi dal pubblico ministero anche assumendo come mera ipotesi la responsabilità dell’indagato. E’ quanto accade, del resto, in ambito minorile secondo la stessa Corte costituzionale: «è evidente – si legge in Corte cost. 22 ottobre 1997, n. 311 – che il giudice per le indagini preliminari è chiamato a pronunciarsi sulla richiesta del pubblico ministero in astratto e assumendo l’ipotesi accusatoria, per l’appunto, come mera ipotesi, e non dopo aver accertato in concreto che il fatto è stato effettivamente commesso e che l’imputato ne porta la responsabilità». Quanto all’obiezione legata all’ingiustificato “stigma di colpevolezza” che un’eventuale archiviazione per tenuità imprimerebbe sull’indagato totalmente estraneo ai fatti addebitatigli, si è ritenuto che la giusta esigenza di salvaguardare la reputazione dell’indagato non possa ricevere tutela dal procedimento penale se non all’interno dei confini segnati dalla sua funzione, che è quella di accertare le responsabilità penali e di infliggere le pene. Nei confronti dell’”archiviato per tenuità” residuerebbe, a ben vedere, il dubbio che egli abbia tenuto un comportamento (magari riprovevole ma) che l’ordinamento non ritiene meritevole di pena. Ciò si verifica, tuttavia, anche quando un cittadino venga denunciato per un fatto infamante del quale non è assolutamente responsabile ma che, pacificamente, non è previsto dalla legge come reato. In simili circostanze, sarebbe palesemente ultroneo pretendere che il pubblico ministero svolga indagini ed eserciti l’azione penale al solo fine di salvaguardare il diritto del denunciato al proscioglimento con formula pienamente liberatoria.
Alla soluzione favorevole ad ammettere la declaratoria di tenuità del fatto “in ipotesi di responsabilità” è stata infine opposta un’ultima obiezione. Tra i presupposti della tenuità rilevanti nell’ambito del processo minorile e del processo di pace figura, come è noto, l’occasionalità della condotta criminosa: ed è ragionevole prevedere che tale presupposto sarà mantenuto anche nella versione “ordinaria” dell’istituto che è attualmente allo studio della Commissione di riforma del codice penale. Non contenendo neppure per implicito l’affermazione che il fatto si è verificato ed è stato commesso dalla persona sottoposta a indagine, il provvedimento di archiviazione per tenuità del fatto, si è osservato, non potrebbe essere addotto a dimostrazione del carattere non occasionale di una seconda condotta criminosa di scarsa offensività addebitata al medesimo soggetto. Consentire la declaratoria di tenuità “in ipotesi di responsabilità” vorrebbe dire, pertanto, vanificare lo stesso presupposto dell’occasionalità e rassegnarsi alla serialità bagatellare. Anche questa obiezione, tuttavia, non è stata ritenuta insuperabile dalla Commissione. Il requisito dell’occasionalità può essere infatti smentito anche da un comportamento successivo a quello ritenuto occasionale: nell’ipotesi considerata, dunque, la totale assenza di preclusività del provvedimento di archiviazione renderebbe possibile non soltanto indagare sul secondo episodio criminoso ma anche riaprire le indagini nei confronti del primo, che non apparirebbe più occasionale alla luce della probabile reiterazione; il carattere occasionale o meno delle due condotte verrebbe così valutato unitariamente. In questi termini, la declaratoria di tenuità del fatto mediante archiviazione potrebbe funzionare come una sorta di sospensione condizionale dell’azione penale, con benefici effetti di prevenzione speciale nei confronti del soggetto che ne fosse destinatario.
Per tutte queste ragioni si è ritenuto preferibile ricondurre la declaratoria di particolare tenuità del fatto nell’alveo dell’ordinaria procedura di archiviazione. La soluzione prefigurata – tipizzazione normativa delle ipotesi di legittima desistenza dall’azione penale per la modesta offensività della condotta; previsione di un controllo giurisdizionale sulla legittimità della scelta abdicativa strutturato nelle forme “tradizionali” della procedura di archiviazione (con relativo coinvolgimento della persona offesa dal reato); possibilità per il pubblico ministero di richiedere e ottenere l’archiviazione non appena, nel corso delle indagini, il fatto si appalesi tenue – è sembrata quella concretamente più idonea a coniugare il principio di mitezza della risposta sanzionatoria all’illecito penale con l’esigenza di razionalizzare le dinamiche di gestione del potere di azione, oggi obiettivamente alterate da uno squilibrio tra risorse operative e compiti istituzionali che chiama il pubblico ministero a compiere scelte ispirate a criteri largamente autoreferenziali.
Conviene peraltro precisare – per non alimentare equivoci analoghi a quelli che la Commissione ha inteso scongiurare eliminando dal testo della direttiva il riferimento alle cause di improcedibilità – che la tenuità del fatto non assume, nell’economia della direttiva, i connotati di una causa di archiviazione ulteriore rispetto a quella derivante dalla ritenuta impossibilità di sostenere l’accusa. Occorre cioè ribadire che tale presupposto (la “non sostenibilità dell’accusa in giudizio”) abbraccia tutte le ipotesi di prevedibile esito proscioglitivo del dibattimento, ivi comprese le cause di improcedibilità e le cause di non punibilità e dunque, in prospettiva futura, anche la tenuità del fatto. Da questo punto di vista, l’inciso “anche per la particolare tenuità del fatto” può dunque suonare – ed effettivamente è – superfluo: la sua funzione è unicamente quella di ribadire, per un verso, l’impellente necessità di introdurre una causa generale di improcedibilità o di non punibilità legata alla scarsa offensività della condotta criminosa (per le stesse ragioni l’inciso figura, ad esempio, nella direttiva 27.2 dedicata alle formule dibattimentali di proscioglimento); per altro verso, quella di chiarire che non esistono ragioni perché la tenuità del fatto non possa essere dichiarata con provvedimento di archiviazione al pari di tutte le altre cause di improcedibilità o non punibilità.
Tornando ai contenuti della direttiva 65, la Commissione, quanto alla procedura di controllo sul rispetto dell’obbligo di agire costituzionalmente imposto al pubblico ministero («2. potere-dovere del giudice di ordinare al pubblico ministero l’iscrizione delle notizie di reato risultanti dagli atti d’indagine diverse o ulteriori rispetto a quelle oggetto della richiesta del pubblico ministero; 3. potere-dovere del giudice, nel caso in cui ritenga di non accogliere la richiesta di archiviazione, di richiedere al pubblico ministero lo svolgimento di ulteriori indagini o la formulazione del¬l’imputa¬zione; 4. adozione del provvedimento di archiviazione con decreto motivato; 5. determinazione dei casi nei quali la decisione del giudice è adottata con ordinanza, sentiti il pubblico ministero e le persone interessate se compaiono; 6. determinazione dei casi in cui il provvedimento di archiviazione può essere sottoposto a impugnazione dalla persona sottoposta a indagine e dall’offeso dal reato»), ha in primo luogo ritenuto – non senza qualche incertezza – che dovesse venire ribadita la scelta, ormai radicata nel nostro ordinamento processuale, di affidare la funzione di controllo all’organo giurisdizionale. Quanto alle forme di esercizio di tale funzione, si è riproposto lo schema risultante dall’attuale disciplina codicistica, imperniato sul potere-dovere del giudice di ordinare al pubblico ministero, in caso di mancato accoglimento della richiesta di archiviazione, lo svolgimento di ulteriori indagini o l’immediata formulazione del¬l’imputa¬zione. Si è tuttavia precisato che il giudice, investito della richiesta di archiviazione di una o più notizie di reato, potrà anche ordinare al pubblico ministero l’iscrizione nell’apposito registro di notitiae criminis diverse e ulteriori rispetto a quelle che costituiscono oggetto delle richieste dell’organo inquirente, purché risultanti dagli atti investigativi. Si è voluto, in questo modo, recepire l’insegnamento delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, che hanno sottolineato, per un verso, in conformità all’opinione già espressa sul punto dalla Corte costituzionale, come non si possa limitare il sindacato del giudice dell’archiviazione «all’interno dei soli confini tracciati dalla notitia criminis delibata dal pubblico ministero», se non giungendo al paradosso di «delegare […] all’arbitrio dell’organo assoggettato al controllo il potere di ritagliare la quantità e la qualità dell’intervento dell’organo che quel controllo è istituzionalmente chiamato ad esercitare»; ma hanno chiarito, per altro verso, come l’assenza di un effetto rigorosamente devolutivo della richiesta di archiviazione non possa tradursi nel potere del giudice di ordinare direttamente la formulazione dell’imputazione nei confronti di soggetti non ancora iscritti nell’apposito registro, in quanto ciò comporterebbe «il totale scavalcamento dei poteri di iniziativa del pubblico ministero» (nonché, si potrebbe aggiungere, una palese violazione dei diritti difensivi dei destinatari dell’imputazione coatta). Di qui la soluzione adottata, che limita i poteri del giudice alla sola emanazione dell’ordine di iscrizione e – implicitamente – all’indicazione delle ulteriori indagini da svolgere: soluzione da ritenersi applicabile, com’è naturale, anche alla particolare ipotesi della richiesta di archiviazione per essere ignoti gli autori del reato.
Restano le direttive concernenti da un lato i diritti partecipativi del pubblico ministero, dell’indagato e della persona offesa alla procedura di archiviazione, dall’altro l’impugnabilità e la preclusività dei provvedimenti del giudice. Il riferimento si indirizza, dunque, non soltanto ai punti 4, 5 e 6 della direttiva 65, ma anche alla direttiva 66 («1. facoltà della persona offesa dal reato di richiedere che non si proceda ad archiviazione senza avvisarla e conseguente obbligo del pubblico ministero di comunicare alla stessa la richiesta di archiviazione; 2. facoltà della persona offesa dal reato, entro un congruo termine dalla comunicazione, di presentare al giudice opposizione motivata alla richiesta di archiviazione») e alla direttiva 67 («determinazione dei casi e delle forme, con idonee garanzie per l’imputato e relativi nuovi limiti di durata, in cui possono essere riaperte le indagini preliminari in relazione ai fatti oggetto di precedenti decisioni di archiviazione»).
Al riguardo, il dibattito interno alla Commissione ha più volte evidenziato come il principale limite della vigente disciplina codicistica sia quello di assoggettare le notizie di reato lato sensu infondate alla medesima procedura archiviativa sia nell’ipotesi in cui la loro infondatezza emerga ictu oculi o all’esito di accertamenti estremamente sommari del pubblico ministero (si pensi alla notizia di reato concernente un fatto prescritto da anni; alla pacifica assenza di una condizione di procedibilità; al fatto la cui particolare tenuità risulti palese; alla denuncia concernente un reato destinato a estinguersi in tempi brevissimi se l’autore del fatto tiene un determinato comportamento riparatorio entro un termine previsto dalla legge), sia nell’ipotesi in cui la loro infondatezza emerga all’esito di un’indagine preliminare estremamente lunga e complessa e, magari, particolarmente invasiva. Nel primo caso (riconducibile alla vecchia categoria concettuale della “manifesta infondatezza” della notitia criminis), l’attuale procedura di archiviazione pecca per eccesso, imponendo cadenze rituali e obblighi motivazionali sproporzionati rispetto alle esigenze da soddisfare; nel secondo caso essa pecca per difetto, non offrendo, in particolare, alla persona sottoposta alle indagini una serie di garanzie la cui previsione si impone ormai come necessaria conseguenza della tendenziale completezza – nonché, molto spesso, della grave afflittività – dell’indagine preliminare infruttuosa (diritto alla “formula” archiviativa più favorevole e alla preclusività del provvedimento di archiviazione; diritto di rinunciare ad amnistia e prescrizione; conseguente previsione di forme di coinvolgimento preventivo dell’”archiviando” nella procedura di emanazione del provvedimento del giudice, dalla quale oggi, in alcuni casi, egli è completamente estromesso; impugnabilità del provvedimento per far valere i propri diritti ecc.).
Al riguardo, la Commissione ha ritenuto opportuno non vincolare il legislatore delegato all’adozione di una particolare soluzione normativa. Si è tuttavia voluta rimarcare la necessità di assegnare alla procedura di archiviazione, per quanto possibile, fisionomie parzialmente differenziate in ragione sia dei contenuti della richiesta del pubblico ministero, sia del tipo di indagine preliminare che precede tale richiesta. Il ricorso a procedure archiviative maggiormente garantite andrà, in particolare, ritenuto necessario – almeno di regola – una volta superata la soglia procedimentale coincidente con la comunicazione dell’accusa all’indagato (comunicazione che, secondo quanto stabilisce la direttiva 62.11, andrà comunque effettuata “non oltre un congruo termine dall’acquisizione della notizia di reato”).

19. L’udienza di conclusione delle indagini

L’udienza di conclusioni delle indagini rappresenta il punto nevralgico del nuovo processo, assommando funzioni di garanzia e ruolo promozionale per la definizione anticipata della vicenda.
L’origine delle vicende del “controllo sull’esercizio dell’azione, quale ulteriore elemento di democraticità del processo e di verifica delle attività investigative del pubblico ministero, va rintracciata nella risalente giurisprudenza costituzionale.
Il primo deciso intervento è quello n. 62 del 1971, non unico rispetto a quel contesto normativo, nel quale le scelte ideologiche e la permanenza di soggetti pubblici del processo «anfibi» ne condizionavano gli interventi in apparenza concentrati, perciò, più nel versante del controllo sulle garanzie che sui profili di sistema.
Per queste ragioni e per la «politica» stessa della Corte in quella epoca, appare evidente e dovuto il suo primo impegno sul versante della tutela dei diritti procedurali dell’individuo, che alimentò la stagione del garantismo difensivo, ponendo le basi di quel rinnovamento culturale che ha rappresentato l’avvio della stagione riformista degli anni ‘70 e ‘80.
All’epoca, perciò, l’incisiva opera della Corte è costellata di non rare pronunce di illegittimità sul versante del diritto di difesa (sent. n. 32 del 1964; n. 151 del 1967; n. 86 del 1968) fino al punto – su questo terreno – di contestare l’uso dei diritti operato dalla Corte di Cassazione e, perciò, di spingersi fino a dichiarare illegittimo l’atteggiamento ermeneutica di quel giudice: lo «scontro tra le due Corti» (cfr. specialmente la sent. n. 52 del 1965) si sviluppò, infatti, sul piano dell’interpretazione non su quello normativo. Ma l’operazione si è sviluppata anche attraverso il riconoscimento di una più avvertita sensibilità costituzionale del giudice di legittimità (cfr. ad esempio, la sent. n. 123 del 1971). Anzi, essa si è mossa sul terreno della violazione dell’art. 25 Cost. o della razionalità legislativa (sent. n. 16 del 1970; n. 175 del 1971; n. 103 del 1974; n. 95 del 1975) terreno direttamente connesso ai poteri discrezionali del pubblico ministero.
In questi rapporti si collocava l’osservazione del diritto al controllo giurisdizionale sull’esercizio dell’azione; e non poteva essere altrimenti, all’epoca, dati i costi elevati di più radicali prese di posizioni sulla struttura del processo, per un verso, e la difficile rimozione di una cultura del pubblico ministero parte imparziale, dall’altro.
Esce fuori un quadro preciso ed una visione decisa della Corte: posta la identità funzionale delle due istituzioni (sent. n. 32 del 1964; n. 11 e n. 52 del 1965; n. 151 del 1967; n. 117 del 1968) e, talvolta, anche della preistruzione (sent. n. 86 del 1968; n. 103 del 1974); e posta l’autonomia del Pretore in tema di discrezionalità del potere di istruire o meno la notizia in ragione della particolare struttura del processo (sent. n. 16 del 1970) e di rimuovere il precedente suo decreto di archiviazione (sent. n. 95 del 1975) – situazione nelle quali la Corte sembra sottolineare la parte funzionalmente giudiziale di quel soggetto –la Corte si attesta su una posizione di dovuta sindacabilità del potere valutativo del pubblico ministero in materia di «evidenza della prova» quale presupposto per la scelta del rito (n. 117 del 1968) con la quale dichiara la illegittimità costituzionale della situazione), anche quando il presupposto della scelta sia costituito dalla confessione dell’imputato, perché pure qui essa è congiunta ad una valutazione di non utilità di eventuali ulteriori atti istruttori.
Il segnale fu raccolto dalla cultura giuridica sin dalla prima proposta di riforma del Codice di procedura penale: il Progetto del 1978 prevedeva per la bisogna l’“udienza di smistamento”. Essa, però, presentava elementi ibridi sul piano soggettivo e di problematica commistione col giudizio sul piano oggettivo tali da costituire un vero e proprio ripiegamento inquisitorio di dubbia coerenza col sistema complessivo del processo allora ipotizzato; utile “ripiegamento inquisitorio” ai fini dello sfoltimento del dibattimento realizzato con l’affidamento al giudice istruttore di compiti probatori rivolti all’assoluzione dell’imputato.
L’indirizzo – non condiviso – fu subito abbandonato: la nuova bozza di legge delega del 1979 indicò un percorso diverso per il recupero di efficienza della giurisdizione e l’invito al legislatore di praticare la strada dei “riti differenziati”, percorso che il legislatore di fine anni ottanta praticò con significativa ed accurata abbondanza.
Con il codice del 1988 il «controllo» è connotato di sistema, che oggi idealmente approda al diritto di non processo quale criterio di fondo che legittima la partecipazione della difesa anche in segmenti procedimentali finalizzati all’esercizio penale; ed ovviamente muta, in sua ragione, l’atteggiamento della Corte, ora rivolta più agli ambiti operativi che non al suo ottenuto riconoscimento legislativo.
Epperò, pure qui, seguendo il metodo di osservazione dei prodotti della Corte in apparenza estranei al tema specifico, assume rilievo centrale la sentenza 88 del 1991, nella quale essa dimostra il «vizio genetico» – interno – del nuovo codice nella debolezza del controllo giurisdizionale.
Dunque, nel Codice del 1988 l’udienza preliminare assolve alla doppia funzione di controllo sull’esercizio dell’azione e di luogo per la pratica dei cc.dd. riti premiali; spesso reciprocamente condizionandosi (si pensi alle prime valutazioni in tema di “economicità” del rito abbreviato).
Si comprende, allora, perché quella Commissione si dedicò con particolare impegno al tema dell’udienza preliminare, nella consapevolezza del rilievo centrale che spetta all’istituto nella struttura del nuovo processo e per l’esistenza di profili problematici nella messa a punto della disciplina normativa alla quale affidarle una duplice ratio, di garanzia del diritto di difesa dell’imputato e, al tempo stesso, di economia processuale, suggerita dagli orientamenti espressi dal Parlamento che assegnava all’udienza il ruolo di ‹‹filtro della richiesta di dibattimento avanzata dal pubblico ministero›› e la ‹‹funzione di decongestione del sistema››.
Quella Commissione, però, condivideva la preoccupazione di far rivivere la figura del giudice istruttore. Perciò, l’allora ipotizzato controllo giurisdizionale volto a delibare il fondamento dell’accusa non si traducesse ‹‹in un intervento così penetrante da assumere compiti di supplenza rispetto alle lacune nei risultati delle indagini svolte dal pubblico ministero o alle carenze nell’esercizio della attività difensiva››, anche perché la scelta fissata dalla legge-delega negava al giudice dell’udienza preliminare ‹‹qualsiasi potere di iniziativa nella raccolta della prova, anche quello suppletivo e residuale che viene riconosciuto al giudice del dibattimento››.
Come si sa, proprio su questi punti si è rivolta la particolare cura della Corte costituzionale e l’attenzione del legislatore.
La prima, sin dai primi passi del nuovo codice, richiamava l’attenzione del legislatore sul vulnus alla pratica deflativa prodotto dalla regola della “completezza” delle indagini (cfr. sentenza n. 88 del 1991, cit.) sia sul fronte deliberativo del giudice dell’udienza preliminare, sia sulle enfatizzate pronunce alla stato degli atti. Di conseguenza, il secondo, prima con timidi ma significativi “ritocchi” e poi con un più incisivo intervento (cfr. la legge n. 479 del 16 dicembre 1999), si pone in logica opposta affidando al giudice, proprio, il controllo sulle indagini (art. 421-bis c.p.p.) e più penetranti poteri probatori (art. 422 c.p.p.) per vincere le maglie strette dell’originaria udienza preliminare, fonti del contestuale fallimento della sua funzione deflativa (nuovo art. 425 c.p.p.) e dell’impraticato ricorso ai riti. Perciò, all’inizio (§ 4) si diceva che le novellazioni al codice hanno prodotto l’alterazione del sistema e la irrazionalità dei suoi gangli essenziali.
Peraltro, la permanente preoccupazione di un ritorno al giudice istruttore aveva spinto la Commissione ad escludere qualsiasi tipo di formazione anticipata della prova nell’udienza, avendo ritenuto in nessun modo praticabile il ricorso all’incidente probatorio, i cui presupposti sono ben diversi da quelli che caratterizzano il “supplemento istruttorio” ai fini della decisione nell’udienza preliminare; e ciò, anche perché si reputava ‹‹che, anche per questa via, si [sarebbe determinata] una regressione della fase giurisdizionale, segnata dall’inizio dell’azione penale, ad un momento procedimentale in cui gli interventi del giudice hanno un carattere puramente incidentale››.
Pure su questo punto la Corte costituzionale ritenne che «la preclusione all’esperimento dell’incidente probatorio nella fase dell’udienza preliminare si rivela priva di ogni ragionevole giustificazione e lesiva del diritto delle parti alla prova e, quindi, dei diritti di azione e di difesa». Di conseguenza dichiarava costituzionalmente illegittimi gli artt. 392 e 393 del codice di procedura penale, nella parte in cui non consentono che, nei casi previsti dalla prima di tali disposizioni, l’incidente probatorio possa essere richiesto ed eseguito anche nella fase dell’udienza preliminare. E ciò perché, sotto il profilo sistematico, l’interruzione nell’acquisibilità di prove non rinviabili appare contraddittoria con la continuità che il legislatore ha assicurato all’attività di indagine prevedendo che essa possa proseguire anche dopo la richiesta di rinvio a giudizio (art. 419 comma 3) e dopo il decreto che dispone il giudizio (art. 430), ben potendo darsi che per taluno degli elementi in tal modo acquisiti insorgano le situazioni di non differibilità della prova previste dall’art. 392 (cfr. sentenza n. 77 del 23 febbraio 1994).
Dunque, seguendo questo impianto costruttivo, ‹‹la disciplina tracciata negli artt. 413-419 (= artt. 416-425 c.p.p.) si incentra su un regime ordinario che vede l’udienza preliminare modellata come procedimento allo stato degli atti, cui può far seguito, eventualmente, un regime eccezionale imperniato su limitate acquisizioni probatorie caratterizzate da una efficacia interna alla fase›› e su un ‹‹regime extra ordinem che consente l’ingresso di testimonianze, consulenze tecniche e interrogatori di coimputati quando, sui temi nuovi o incompleti indicati dal giudice, il pubblico ministero o le parti private ne facciano richiesta e il giudice ritenga decisiva la prova ai fini della sua pronuncia››.
Ma la crisi dell’udienza preliminare si è mostrata sul terreno delle prassi in più occasioni e per diversi profili.
Così, ad esempio,
› in tema di imputazione si è discusso se il pubblico ministero potesse adottare lo strumento modificatorio anche quando la “diversità” fosse già presente negli atti; oppure se il giudice avesse poteri sollecitatori rispetto all’accusa. Il vuoto normativo ha sostenuto prassi contrastanti ed ha spinto l’interpretazione sul fronte dell’analogia con l’art. 521 c.p.p. 1988; forma ermeneutica impraticabile in materia attributiva di poteri;
› in tema di applicabilità, in udienza, della clausola generale dell’art. 129 c.p.p. In materia, solo nel 1996 (cfr. SS.UU. 15 maggio 1996, Sala) – ma con contrastanti indirizzi successivi – la Cassazione ha riconosciuto al giudice dell’udienza preliminare il potere di pronunciarla in questa udienza, superando il rapporto di specialità tra gli artt. 129 e 425 c.p.p. Ma ciò, peraltro, ha ingenerato prassi devianti di applicazione de plano della “declaratoria”;
› in tema di motivazione del decreto di rinvio a giudizio, prassi adottata in interi contesti giudiziari;
› in tema di poteri di restituzione della richiesta del pubblico ministero per vizi formali della domanda;
› in tema di corretta qualificazione giuridica del fatto in sede di decreto di rinvio a giudizio; e così via, argomenti su cui spesso si è pronunziata anche la Corte costituzionale.
Ancora. Sulle premesse logiche della nuova udienza, come è stato chiarito, pesa uno dei punti critici dell’attuale assetto processuale, il “nervo scoperto” delle prassi giudiziarie, costituito dall’art. 415-bis c.p.p. dell’attuale codice, norma che, secondo i responsabili dei Dipartimenti del Ministero e del Capo dell’Ispettorato auditi dal Comitato Scientifico (cfr., in particolare, il verbale n. 5 del 28 settembre 2006), rappresentano il “buco nero” dei tempi del processo.
La norma è stata introdotta dalla legge n. 479 del 1999 (cd. “legge Carotti”) ai fini della conoscenza del procedimento prima dell’esercizio dell’azione penale nella doppia logica della “completezza” delle indagini – suggerita anche dalla sentenza n. 88 del 28 gennaio 1991 – quale regola virtuosa per le determinazioni del giudice dell’udienza preliminare e per l’accesso ai riti “premiali” e del contestuale esercizio dei poteri difensivi prima dell’inizio dell’azione penale, essendo quasi mai praticato l’obbligo posto a carico del pubblico ministero dall’ultima parte dell’art. 358 c.p.p. di “ricercare anche elementi a favore” della persona sottoposta alle indagini e della inutile pratica di un previo interrogatorio della stessa persona in mancanza di discovery. Tuttavia la disposizione ha prodotto, in realtà, disorientamento giurisprudenziale quanto all’ambito applicativo – fino al continuo ricorso alla Corte costituzionale – in ragione di una sostanziale diffidenza, nella sua pratica attuazione, verso la filosofia del contatto tra le parti, non di queste con il giudice; soprattutto, quella norma, è causa di stasi del procedimento-processo per i tempi lunghi riscontrati tra scadenza dei termini in essa previsti e fissazione dell’udienza preliminare.
Perciò oggi si coltiva la filosofia opposta e si organizzano i tempi e i modi del contatto delle parti con il giudice secondo la linea tracciata nel comma 3 dell’art. 111 Cost e si “procedimentalizza” l’avviso di conclusione delle indagini.
Su altro fronte, poi – come è pure osservato in premessa – la moltiplicazione delle procedure per il giudizio – che fu felice intuizione del Ministro Morlino nel Disegno di legge del 1979, poi portata a razionale attuazione dalla Commissione ministeriale che redasse il Codice del 1988 – ha prodotto situazioni critiche non solo sul piano delle interpretazioni giudiziarie e costituzionali (come si dirà in altra parte), ma non ha giovato sul terreno dei tempi del processo per la necessaria moltiplicazione delle comunicazioni e delle notifiche oltre che delle sedi dei singoli giudizi, essendo stata ritenuta irrinunciabile la logica della premialità “in ogni giudizio” ai fini della tenuta del principio di eguale trattamento degli imputati. È accaduto, cioè, che la premialità dei “procedimenti speciali” non potesse essere accantonata in dibattimento, creando, così, alterne vicende interpretative (cfr., ad esempio, la sentenza della Corte costituzionale n. 23 del 22 gennaio 1992) e la moltiplicazione delle risorse facendo perdere, agli stessi, la loro genesi deflativa e la loro autonomia funzionale e strutturale.
Queste situazioni processuali – oltre alla presenza di raccordi normativi poco chiari – hanno contribuito al fallimento della “scommessa” operata con il Codice del 1988 e, per questo verso, all’aggravarsi dell’attuale situazione di “disastro” della Giustizia penale.
Per correggere questi difetti e per avviare a soluzione la crisi del processo penale, la Commissione ha scelto una filosofia diversa, razionale sul piano sistematico, ma, soprattutto, dettata dai bisogni di reale attuazione dei “principi” (= diritti) costituzionali (più volti richiamati), combinando efficienza e garanzia nell’ottica della giurisdizione e nel rispetto della “flessibile” parità delle parti: proposta l’azione, il giudice si appropria della vicenda processuale e la decide.
Per coordinare tutto questo non poteva non agirsi sul fronte dell’abolizione dell’attuale disciplina dell’“avviso di conclusione delle indagini” e di modificarne filosofia e struttura nel senso della “chiamata” davanti al giudice previa imputazione – come atto di esercizio dell’azione penale – e, di conseguenza, sul fronte dei poteri del giudice dell’“udienza di conclusione delle indagini”.
Va chiarito, peraltro, che il nuovo modulo processuale sfugge all’obiezione sostenuta sin dall’inizio di vita del Codice del 1989 e che ha costituito il presupposto della legge n. 479 del 1999, quella, cioè, della vocatio di persona imputata che non abbia conosciuto, in occasione precedente, della vicenda che lo ha visto inconsapevole protagonista. Invero, la nuova struttura procedimentale si snoda per fasi progressive, la più significativa delle quali è quella della nuova “informazione di garanzia”, che assume, ora, funzione di atto per la conoscenza del procedimento, con addebito della “accusa” (si evoca, così, il termine utilizzato nell’art. 111 comma 3 Cost. con funzione diversa dalla “imputazione”, che resta atto di esercizio dell’azione penale) e che, contestualmente, apre all’“accusato”, prima dell’esercizio dell’azione, le “finestre di giurisdizione” imposte dalla disposizione costituzionale ora citata, che consentono discovery in progress, ad esempio nel caso in cui l’accusato chieda al giudice l’ascolto di persona già sentita dal pubblico ministero..
Peraltro, il “fallimento” dei riti premiali – e segnatamente del “patteggiamento” – ha come presupposto critico la “lontananza” del giudice (l’accordo è tra le parti) e la non percezione del suo atteggiamento anche in tema di fattispecie penale, oltre alla possibilità di farvi ricorso in altra sede.
Perciò si è pensato che la contestuale presenza della “triade di giudicanti” possa realizzare in questo momento una utile spinta alla applicazione della pena richiesta dall’imputato (quindi, non quella concordata dalle parti), spinta resa più forte dalle attività consentite in quella sede anche in materia di imputazione, oltrechè da un rinnovato ruolo “collaborativo” del giudice”.
E, dunque, l’“avviso” costituisce ora la chiamata davanti al giudice dell’udienza di conclusione delle indagini; che nella filosofia di questa delega assume una pluralità di funzioni – da filtro contro le azioni azzardate a momento di controllo sul corretto esercizio dell’azione penale, dall’applicazione della pena richiesta dall’imputato, alla formazione del fascicolo del dibattimento con innovativi poteri di inclusione di atti su temi non controversi e di anticipazione di atti per il dibattimento.
Insomma, si passa dal ricorso ai riti in chiave deflattiva all’esaltazione dei poteri del giudice per la deflazione del dibattimento senza incidere minimamente sulle garanzie dell’individuo e delle parti.
A questo giudice, infatti, accedono anche – a richiesta – gli imputati chiamati per “citazione diretta” a giudizio: è il caso dell’arrestato presentato al giudice del dibattimento; è il caso della persona sottoposta a misura cautelare che deve essere presentato a giudizio nei termini previsti in sede propria; è il caso della citazione diretta dell’imputato innanzi al Tribunale come organo monocratico disposta dal pubblico ministero per casi predeterminati.
E poi, in questa nuova logica, la struttura dell’udienza assume forza “deontologica” per il pubblico ministero, chiamato a nuova “responsabilità” anche sul piano delle strategie processuali oltrechè su quello della “completezza delle indagini” e dell’attenzione alle richieste operative offerte dalle altre “parti”.
Ebbene, raccogliendo le fila di questa complessa vicenda e preso atto che ai rari benefici del nuovo avviso di conclusione delle indagini (art. 415-bis c.p.p.) non hanno corrisposto eguali benefici sul terreno “deflativo”, la nuova “udienza di conclusione delle indagini” – che in parte raccoglie le inespresse potenzialità dell’udienza preliminare della legge sul processo minorile (art. 32) – procedimentalizza l’esercizio dell’azione penale del pubblico ministero, che convoca imputato e parti innanzi al giudice ai fini del controllo sull’esercizio dell’azione penale e della scelta del rito abbreviato o del dibattimento, ma anche ai fini della definizione anticipata del processo sull’accordo delle parti o a richiesta dell’imputato, la cui differente logica sarà esplicata in seguito.
E’ questo il punto più delicato dell’intera vicenda legislativa della nuova udienza che sfrutta le nuove potenzialità del processo di parti e che ha senso se correttamente contestualizzato alla volontà della parte.
Insomma, alla monofunzionalità dell’udienza preliminare (come tale essa ha solo il compito di controllo sul corretto esercizio dell’azione penale; perciò le modifiche della legge “Carotti” hanno fatto ritenere che fosse mutata, in sé, la natura di quella udienza: cfr. le pronunce n. 335 del 2002 e n. 369 del 2003, con la quale ultima, però, essa parzialmente chiarisce il precedente pensiero e la pretesa confusione tra “merito” e “giudizio”) si oppone una polifunzionalità endemica dell’udienza di conclusione delle indagini, che moltiplica poteri e compiti del g.u.c.i. in ragione della “richiesta”: se è del pubblico ministero è domanda di giudizio (rectius: di dibattimento); se è dell’imputato può modificare le attribuzioni funzionali di quel giudice, spingendolo sulla sponda processuale (richiesta di rito) o di merito (applicazione di pena concordata e/o richiesta di condanna). Perciò, si diceva, che il nuovo sistema capovolge l’attuale ottica dell’art. 405 c.p.p.: se oggi il rito è scelto dal pubblico ministero, domani la selezione alternativa al dibattimento è affidata sempre e comunque all’imputato. In questa ottica pure le citazioni dirette sono richieste di giudizio (rectius: di dibattimento) vincolate al presupposto della limitazione della libertà personale o a fatti di minore gravità e/o complessità (giudizio innanzi al tribunale quale organo monocratico), rispetto alle quali l’imputato può azionare la richiesta di udienza di conclusione delle indagini per sfruttare le potenzialità “premiali” di questa.
Dunque, l’udienza di conclusione delle indagini – eliminando prassi devianti che direttamente la riguardano e i punti conflittuali delle disposizioni ora in vigore – propone la sua centralità su più fronti, dal controllo sull’esercizio dell’azione all’anticipazione della condanna alla scelta del rito abbreviato – che, peraltro, si dirà, è celebrato, per le ragioni che si esplicheranno, da altro giudice – alla predisposizione del programma per il dibattimento; e la successione delle direttive risponde a questa scansione.
Ma essa potrà assolvere a questa pluralità di funzioni solo a condizione che ad essa saranno riservate le risorse necessarie ed una appropriata organizzazione giudiziaria.
Sul punto un’avvertenza è d’obbligo.
Sul presupposto che la organizzazione segue e si adegua alle esigenze del processo – principio che capovolge il trend opposto di cui questo Paese ha abusato oltre misura – la quantità di poteri e compiti ora attribuiti a questo giudice “monocratico” – che giustifica anche l’autonomia funzionale del giudice per il rito abbreviato – richiede uno sforzo organizzativo dei Tribunali e la razionalizzazione delle risorse, non solo umane, quale premessa per la reale operatività del nuovo modello processuale; ma questo è compito che spetta ad altre Istituzioni, alle quali l’ “avvertenza” è rivolta – sin d’ora – per gli opportuni adeguamenti e per sottrarre ad esse l’alibi – più volte ripetuto – che certe crisi nascano dall’assetto normativo, non dall’esercizio consapevole e responsabile di altri compiti istituzionali.
Queste premesse si riversano nelle diverse direttive di delega.
Il punto 68.1 contiene le linee di essenza e le rigide indicazioni di contenuto dell’atto di esercizio dell’azione penale, con specifico riferimento alla imputazione, alla convocazione davanti al giudice, al deposito degli atti compiuti dal pubblico ministero e all’invito a depositare quelli investigativi compiuti dalla difesa e di cui essa intenda far uso. L’ulteriore novità è costituita dagli avvertimenti relativi alle scelte, non solo procedimentali, che l’imputato può operare in udienza. La previsione della sanzione “a pena di decadenza” – espressamente indicata in delega – dipende dalla elezione di questa sede a luogo esclusivo per la pratica delle opportunità premiali e deflattive. Per questa ragione dovrà prevedersi che l’atto di citazione debba essere consegnato a mani secondo la procedura delle direttive scritte nel punto 24. Per le stesse ragioni l’udienza potrà essere richiesta dall’imputato – in termini prestabiliti – nel caso delle citazioni dirette predisposte ai successivi punti.
Il punto 68.2 esprime le direttive relative ai termini per la fissazione della udienza ed al deposito delle ulteriori attività investigative compiute dalle parti.
Il punto 68.3 contiene le direttive per lo svolgimento dell’udienza. Le novità salienti sono costituite dalla richiesta di interrogatorio e dal potere probatorio – anche d’ufficio – vincolato a criteri di assoluta necessità per la decisione, ovviamente – e per le cose dette – non necessariamente quella di non luogo a procedere, così come per i poteri probatori previsti nell’art. 422 attuale c.p.p. La diversità è di sostanza; ed è praticabile oggi proprio perché è scomparsa, dalla cultura più accorta del Paese, la falsa identificazione tra giudice che procede di ufficio e giudice istruttore e/o tra poteri probatori di ufficio e “scorie inquisitorie”. La progressiva consapevolezza che il processo di parti non si identifica con la assoluta disponibilità della prova, da una parte; e la eguale convinzione della insopprimibilità di poteri probatori di ufficio per chi è obbligato alla decisione, soprattutto se questa è di merito; ed ancora, la puntualizzazione che l’inciso “anche di ufficio” significhi “anche di parte”; infine, l’osservazione che la oggettivizzazione e la direzione dei poteri previsti come ufficiosi serva a contestualizzare l’avvenimento probatorio e – così – a modificare la regola di presunzione di ammissibilità della prova in determinate evenienze; tutto ciò chiarisce che la dizione “prevedere che il giudice possa, anche d’ufficio, disporre l’acquisizione di prove rilevanti e decisive ai fini della deliberazione e che, dopo l’assunzione delle stesse, inviti le parti a concludere” di cui al punto in questione è congeniale alla nuova multifunzionalità dell’udienza di conclusione delle indagini e, quindi, all’obiettivo definitorio che la parte si prefigge.
Dunque, l’ “ampio” potere si aggancia, contestualmente, alle potenzialità definitorie dell’udienza, ma anche alla eventualità che in questa sede debba anticiparsi la prova per il dibattimento. Epperò, la pluralità di funzioni suggerisce al legislatore delegato di distinguere impulso e modalità dell’atto, essendo evidente che, nell’ultima ipotesi, dovrà farsi ricorso ai vincoli dell’incidente probatorio e, quindi, anche in questa sede, a criteri di non rinviabilità della prova. E’ evidente, dunque, che il potere dovrà parametrarsi allo sbocco definitorio che via via si delinea in udienza, in ragione delle spinte e delle controspinte dei suoi protagonisti.
Proprio per rimarcare la coerenza sistematica di questi poteri è opportuno ripetere che il pericolo che in questo modo si evochi il “giudice istruttore” è fondato su una falsa raffigurazione intellettuale di tale soggetto, che ha accompagnato la critica ai poteri ufficiosi del giudice sin dall’entrata in vigore dell’attuale codice (a proposito degli artt. 422 e 507 c.p.p.), soprattutto dopo il potenziamento di tali poteri operato con la legge n. 479 del 1999 (a proposito degli artt. 421-bis, 422, 507, 441 c.p.p.). La raffigurazione è falsa: il giudice era istruttore perché era unico operatore della prova, peraltro raccolta in segreto e con la totale esautorazione della difesa; situazione, questa, ben lontana dalle nuove prospettive operative del giudice. E se, dal punto di vista tecnico è predisposto – in delega – il modo di gestione diretta (da parte del giudice) dell’interrogatorio e della prova dichiarativa, ciò risponde ai bisogni di snellezza funzionale dell’udienza; che, però, non sottraggono alle parti il potere di indicare e/o di proporre temi al giudice.
Il punto 68.4 predispone poteri di indirizzo del giudice sulla scelta del rito e/o verso la definizione anticipata, nell’ottica del ruolo “collaborativo” e “solidaristico” che il giudice naturalmente assume in questa fase. Pure qui è indispensabile un chiarimento di natura culturale e di tipo semantico, dal momento che i due aggettivi certamente faranno scalpore, potendo strumentalmente esser letti come immissione del giudice nelle scelte delle parti e, quindi, come pericolosi prodromi di annunciata decisione e/o di prospettive di incompatibilità. Perciò è utile chiarire che essi predispongono niente altro che la “figura” di un “nuovo” giudice che – terzo rispetto all’avvenimento ed imparziale nel giudizio – non sia alieno – nella procedura in corso – da compiti attivi, non di incentivazione della soluzione a lui “gradita”, ma di suggerimento della molteplicità di percorsi operativi per la definizione della vicenda. Un giudice, insomma, che non si “comprometta” quanto al giudizio, né che invada l’ambito di selezione spettante al difensore; un giudice che “ricordi” gli sbocchi definitori e la loro impraticabilità futura non è certo un giudice “incompatibile”, ma, appunto, chi solidaristicamente propone all’imputato il ventaglio delle scelte che sono di fronte a lui. Non percepire questi segnali di novità è frutto di una cultura che alimenta la diffidenza verso il giudice e/o, contestualmente, si aggrappa ad attuali prassi devianti certamente da evitare in futuro.
I punti 68.5 e 68.6 si interessano delle vicende dell’imputazione, risolvendo anche, in radice, i poteri del giudice in questa materia e rinforzando le garanzie per l’imputato presente e/o assente.
La materia è nota e le vicende che l’hanno riguardata sono state tutte richiamate, anche se in forma sintetica. In particolare, perciò, si sottolineano le novità salienti. Così, nel punto 68.5 la “diversità” del fatto esclude la “unità” dei fatti compiuti in esecuzione del medesimo disegno criminoso. E ciò non solo perché, nella specie, i fatti possono essere autonomi tra di loro, fattualmente e giuridicamente differenti, ma anche per eliminare una pregiudiziale e discrezionale valutazione sulla “medesimezza del disegno” da parte del pubblico ministero. Peraltro, il tema della imputazione è oggetto di naturale e non concorde dibattito, discutendosi ancora circa i profili differenzianti il fatto “diverso” e il fatto “nuovo”, che la giurisprudenza concordemente collega agli elementi del reato con risultati ermeneutici – però – nientaffatto tranquillizzanti. Perciò è apparso opportuno, in materia, far ricorso al criterio della “autonomia” del fatto, criterio, peraltro, acquisito dalla Corte costituzionale e che meglio distingue il “fatto processuale” dal “fatto-reato”. In virtù di tale “autonomia”, è apparso indispensabile differenziare il regime processuale del concorso formale di reato da quello materiale, per il quale, tuttavia, il recupero operativo della unità del contesto processuale può essere utilmente adottato sfruttando le modalità contestative del “fatto nuovo”.
Nel punto 68.6, poi, la convinzione che il vizio di imputazione costituisca scorretto esercizio dell’azione penale autorizza il giudice alla restituzione degli atti al pubblico ministero. Tuttavia, esigenze di economia processuale e la natura della sede consentono un potere sollecitatorio del giudice al pubblico ministero, che non inficia assolutamente la libertà operativa del magistrato di accusa né riduce le garanzie per l’imputato, a cui favore milita la identità di termini tra vocatio originaria e nuova udienza di discussione che, perciò, calca la mano sui bisogni selettivi della difesa in ragione della “diversa” contestazione.
I punti 68.7, 68.8, 68.9 e 68.10 contengono le direttive in materia di conclusione dell’udienza e di attività “preparatorie” per il dibattimento. Le novità salienti sono rappresentate: dalla unità della regola di giudizio che potrebbe consentire l’abolizione di formule di proscioglimento incompatibili con la funzione di controllo affidata al g.u.c.i. in via primaria, formule che, peraltro ,sono state fonte di equivoci dato il loro contestuale uso in disposizioni di differente funzione e natura (= artt. 129; 425; 530 c.p.p. 1988); dalla clausola di salvaguardia quanto all’applicazione della declaratoria di cause di non punibilità e della pronuncia sulla tenue offensività del fatto, per le quali la richiesta dell’una e/o dell’altra parte risulta necessaria per conferire al giudice poteri di merito e successiva inappellabilità della parte che ne ha fatto richiesta; dai limiti alla ricorribilità della sentenza emessa in caso di appello del pubblico ministero, essendo la doppia pronuncia sufficientemente garantista quanto alla pretesa punitiva dello Stato; dall’accordo sulla formazione del fascicolo, che, potendo riguardare anche temi non controversi, elimina il bisogno di una successiva udienza di preparazione del dibattimento; dall’obbligo di ordinare la trascrizione – mediante procedimento garantito – delle conversazioni e dei flussi telematici captati se l’opera non è stata compiuta in precedenza proprio per evitare che essa possa complicare o ritardare il corso del dibattimento.
Quanto ai poteri di definizione anticipata, la diversa numerazione (n. 69) ne esalta la novità sistematica e la problematicità politica.

20. (Segue): le implicazioni decisorie: applicazione di pena concordata e condanna su richiesta

Il punto di crisi nella struttura normativa attuale dell’istituto del patteggiamento è costituito dall’assenza di un pieno accertamento di responsabilità, che impedisce l’assimilazione ad una ordinaria sentenza di condanna della sentenza patteggiata, che, pure applica, o meglio, secondo la formulazione ultima dovuta alla novella codicistica del cd. patteggiamento allargato, irroga una pena, in misura anche consistente.
Su questo connotato, ed in particolare sulla sua compatibilità con l’applicazione di una pena, si sono a lungo interrogati sia la dottrina che la giurisprudenza, costituzionale e di legittimità.
Sin dalla sentenza n. 313 del 1990 della Corte costituzionale, che riconobbe al giudice un sindacato forte sulla congruità della pena, emerse il difficile rapporto tra il potere dispositivo delle parti ed il potere di accertamento del fatto e della responsabilità del giudice, da esercitarsi in posizione di autonomia e con soggezione soltanto alla legge. Disse allora la Corte costituzionale che il potere delle parti non comprime quello del giudice, ma realizza una forma di collaborazione ad una rapida affermazione della giustizia, perché all’interno di un sistema a tendenza accusatoria i due poteri, delle parti e del giudice, possono collegarsi in vista di una più celere definizione del procedimento. Condizione per il riconoscimento della costituzionalità dell’istituto fu l’assenza di limiti invalicabili derivanti dalla volontà delle parti, che interferissero con l’esplicarsi della funzione giurisdizionale, e si ritenne sufficiente che il giudice avesse il potere ed il dovere di accertare l’assenza di elementi per un proscioglimento allo stato degli atti, e di valutare la correttezza della qualificazione giuridica, la sussistenza di circostanze attenuanti e la correttezza di criteri utilizzati nella prospettazione di un giudizio di bilanciamento con circostanze aggravanti, e quindi la congruità della pena da applicare.
Ma i quesiti e le tensioni sulla natura della sentenza di patteggiamento e sul suo contenuto di accertamento non si sopirono e attraversarono, da allora e per molti anni, la giurisprudenza di legittimità ed anche delle Sezioni unite, che, solo da ultimo, con la sentenza n. 23 del 29 novembre 2005, Diop, hanno preferito accantonare il problema, di difficile soluzione, per valorizzare esclusivamente il dato normativo della relazione di equiparazione alla sentenza di condanna, ritenendo così di stretta interpretazione le previsioni di deroga agli effetti propri delle sentenze di condanna.
Quest’ultimo approdo interpretativo, pur efficace nella soluzione di non poche questioni applicative, non è però in grado di tacitare i dubbi circa la compatibilità costituzionale di una condanna «senza giudizio», che in dottrina si sono posti con insistenza, specie in contrapposizione critica con la giurisprudenza che ha affermato l’assenza di un accertamento di responsabilità.
E le perplessità d’ordine costituzionale sono state acuite dalla novella del 2003 in tema di cd. patteggiamento allargato, che, pur mantenendo la regola di equiparazione alla sentenza di condanna e la regola di valutazione delineata con il riferimento all’art. 129 c.p.p., ha elevato a cinque anni di pena detentiva il limite massimo di pena patteggiabile, ed ha collegato alla sentenza effetti tipici delle ordinarie sentenze di condanna, quali il pagamento delle spese del procedimento, l’applicazione di pene accessorie e di misure di sicurezza anche oltre la eccezionale previsione della confisca c.d. obbligatoria.
Un limite di pena detentiva così elevato rende stridente il contrasto con la premessa di un accertamento di minore intensità rispetto a quello che, nel giudizio, giustifica l’irrogazione di pene di pari contenuto afflittivo.
Una contraddizione questa difficilmente sanabile, per quanto si ragioni sul fondamento negoziale dell’istituto, tentando di estenderne quanto più possibile la portata giustificatrice sul piano della compatibilità costituzionale.
La Commissione si è fatta carico del problema, ed ha inteso apprestare una soluzione, che, da un lato, faccia conservare le potenzialità deflattive del meccanismo premiale, e, dall’altro, sciolga o quanto meno riduca le indicate contraddizioni.
La strada forse di maggior coerenza, una volta accettate queste brevi considerazioni di premessa, avrebbe condotto all’eliminazione del patteggiamento, ma la Commissione ha preferito mantenere un istituto, che, benché discusso e problematico, ha comunque superato numerosi vagli di costituzionalità, ed è espressione di un valore da preservare, nella misura in cui attesta l’importanza riconosciuta dalla legge al consenso delle parti, alle loro intese negoziali nella gestione del processo.
Il patteggiamento tradizionalmente inteso, nella forma dell’accordo dell’imputato e del pubblico ministero sulla pena, è stato restituito ai limiti originariamente previsti dall’attuale codice di rito. Ha prevalso l’idea che l’accertamento incompleto di responsabilità può, con minore difficoltà, coniugarsi all’applicazione di una pena detentiva, che, non superiore ai due anni, è contenuta nell’ambito di operatività della sospensione condizionale della pena, e quindi è destinata nella generalità dei casi a non essere eseguita.
Movendo dal presupposto dell’accertamento incompleto di responsabilità, si è ribadito che la sentenza di patteggiamento non appartiene al novero delle sentenze di condanna, ma ad esse è soltanto equiparata: se ne evidenziano così meglio le peculiarità, e si dà una chiara indicazione di disciplina per tutti quegli effetti che non sono oggetto di un’espressa regolazione, facendo però salva la possibilità che leggi speciali possano articolare in modo diverso il rapporto tra le due categorie di sentenze.
L’accoglimento dell’accordo delle parti, che è comunque subordinato alle valutazioni del giudice in punto di corretta qualificazione dei fatti e di congruità della pena, oltre che, come già detto, dell’assenza delle condizioni per l’immediato proscioglimento, comporta un ampio ventaglio di effetti premiali, primo fra tutti la riduzione secca di 1/3, che incrementa il beneficio rispetto alla previsione del codice del 1988 di una riduzione “fino a un terzo”. L’accordo delle parti può avere ad oggetto, sempre nell’ottica di un rafforzamento della risposta premiale, l’applicazione di una misura alternativa alla detenzione, in modo da agevolare la conclusione di soluzioni negoziate del processo come alternativa all’epilogo repressivo di tipo carcerario.
Non si ha, poi, la condanna alle spese del procedimento, né la delibazione sulla domanda restitutoria o risarcitoria della parte civile, - se pure, in ossequio alla pronuncia della Corte cost. n. 443 del 1990, si mantiene la previsione della condanna alle spese di costituzione della parte civile -; né ancora l’applicazione di pene accessorie o di misure di sicurezza, fatta salva l’ipotesi della confisca obbligatoria. La sentenza di patteggiamento non ha poi alcun effetto vincolante per l’accertamento nei giudizi civili, amministrativi e nei procedimenti disciplinari, nei quali il fatto rilevante dovrà essere ricostruito autonomamente senza poter contare sulle scarne affermazioni di una sentenza, che per le sue peculiarità è bene che non abbia altra funzione se non quella di definire esclusivamente la vicenda processuale nella quale si inserisce. Su quest’ultimo punto il dibattito in Commissione ha registrato anche opinioni dissenzienti, che hanno ritenuto eccessiva la risposta premiale, a fronte di esigenze pressanti di una rapida ed efficace reazione disciplinare per tutti quei casi in cui l’illecito disciplinare ha come nucleo lo stesso fatto dell’illecito penale, il cui accertamento, allo stato della normazione, comporta spesso l’inibizione forzata, per un tempo a volte anche lungo, dell’iniziativa disciplinare. Il dissenso ha infine ceduto alla considerazione che la soluzione del paventato difetto di funzionamento va ricercata con interventi normativi su altro terreno e non con l’attribuzione di effetti vincolanti ad una decisione penale, che per struttura non si fonda sull’accertamento pieno del fatto.
Si prevede, infine, come nell’attuale sistema normativo, che alla pronuncia di patteggiamento segua l’estinzione del reato, se nei successivi cinque anni l’imputato non commette un reato della stessa indole; nulla si è specificato per il caso di commissione di un reato contravvenzionale, posto che la Commissione per la riforma del codice penale, presieduta dall’on. avv. Pisapia, sta ragionando sull’abolizione della distinzione tra delitto e contravvenzione.
Ed, infine, in conformità ancora una volta con il modello attualmente vigente, si è previsto che, ove la richiesta sia stata rigettata per incongruità della pena, il giudice del merito possa recuperare l’applicazione della diminuente all’esito del giudizio, se si riveli la congruità della richiesta.
Accanto a questo meccanismo, già sufficientemente sperimentato, la Commissione, utilizzando in funzione deflattiva del dibattimento la premialità sulla pena, ha costruito, sugli ampi poteri decisori del giudice dell’udienza di conclusione delle indagini e sull’apporto del consenso dell’imputato, un epilogo decisorio di assoluta novità rispetto al sistema normativo attuale, e che ha un addentellato in un disegno di legge governativo della XIII Legislatura, presentato il 15 gennaio 1997 alla Camera dei deputati, n. 2968/C, e poi assorbito, unitamente a molti altri, in un testo coordinato che, approvato, è divenuto la legge n. 479 del 1999.
In quel disegno di legge si delineava, accanto alla figura del patteggiamento come applicazione della pena su richiesta delle parti, l’istituto della condanna a pena concordata, per le richieste di pena superiore ai due anni di reclusione e comunque non oltre il limite dei tre anni di pena. Con alcune esclusioni oggettive, per reati di particolare gravità e pericolosità, si prevedeva che l’imputato, con l’accordo del pubblico ministero, potesse chiedere l’applicazione di una pena con la diminuzione fino ad un terzo, eventualmente dichiarandosi pronto ad ammettere personalmente in udienza i fatti contestati, in modo da integrare un materiale di indagine segnato da insufficienze o contraddizioni. La sentenza di applicazione di pena era una sentenza di condanna, con tutti gli effetti propri delle sentenze di condanna, perché il giudice era chiamato ad una valutazione piena del materiale informativo ed all’applicazione di pena solo se quel materiale fosse tale da giustificare l’affermazione di responsabilità
Rispetto a quel modello, il meccanismo disegnato dalla Commissione presenta analogie forti, ma anche sostanziali diversità, dal momento che si prevede che il giudice pronunci una vera e propria sentenza di condanna, con un significativo ampliamento della risposta premiale, ma non si condiziona la richiesta dell’imputato al consenso del pubblico ministero, non si prevedono esclusioni oggettive per categorie di reati, e soprattutto non si rafforza in alcun modo il legame tra la richiesta ed un’eventuale confessione dell’imputato.
Al giudice dell’udienza di conclusione delle indagini è attribuito il potere di emanare una vera e propria sentenza di condanna, caratterizzata dal pieno accertamento della responsabilità dell’imputato, per il caso in cui questi faccia richiesta dell’immediata pronuncia.
L’imputato può avanzare la richiesta soltanto in sede di discussione finale, e quindi dopo che il pubblico ministero ha rassegnato le sue conclusioni. Si consente così che l’udienza abbia il suo fisiologico svolgimento e si evita che le attività anche di tipo istruttorio possano essere condizionate dalla prospettiva di una definizione con affermazione di responsabilità. Questa collocazione temporale della richiesta persegue poi il duplice obiettivo di porre l’imputato nelle migliori condizioni, per completezza di conoscenze processuali, di valutare la convenienza di una scelta indubbiamente grave, quale è quella della sollecitazione di una condanna, e di scongiurare la tentazione di utilizzazione anomala del potere di richiesta, per interrompere eventuali attività istruttorie.
L’interesse dell’imputato alla sollecitazione del potere giudiziale di condanna può, infatti, essere in concreto apprezzato nel perseguimento del consistente beneficio della riduzione di pena detentiva - di 1/2 per i reati di minore gravità e di 1/3 per i reati più gravi -, e dell’interruzione del processo, il cui svolgimento è in molti casi un’afflizione aggiuntiva.
Rispetto alla richiesta di giudizio abbreviato, che ha in più l’indubbio vantaggio di non pregiudicare l’esito assolutorio e di consentire l’esercizio di attività istruttoria finalizzata al proscioglimento, la richiesta di condanna con riduzione di pena, oltre ad offrire un maggiore beneficio in termini di riduzione di pena almeno per un consistente numero di reati, dà all’imputato la possibilità di vincolare il giudice, che si determini all’accoglimento della richiesta, alla pena nella misura indicata, fatto salvo ovviamente il filtro del giudizio di congruità, necessario perché al giudice è inibito l’esercizio del potere di autonoma commisurazione della pena.
La forte riduzione prevista per i reati meno gravi ha però fatto ritenere opportuno che la pena finale richiesta dall’imputato non possa comunque essere superiore ad un limite predeterminato, in modo da evitare eccessi di premialità a discapito delle esigenze di prevenzione generale e speciale.
La Commissione ha ritenuto opportuno affidare alla volontà politica la fissazione del limite massimo di pena irrogabile su richiesta dell’imputato, e la definizione del parametro di individuazione della diminuente da applicare, potendosi fare riferimento sia alle previsioni di pena edittale, nel suo limite massimo, che alla pena in concreto determinata e che si ritiene congrua in relazione a quello specifico fatto imputato. La Commissione non ha trascurato che, assumendo come base di riferimento la previsione del limite massimo di pena edittale, si potrà avere, almeno se non muterà il contesto normativo oggi caratterizzato da previsioni di pena, per alcuni reati, con una forbice molto ampia tra i limiti edittali, la sovrapposizione in concreto dell’ambito di operatività di questo meccanismo di definizione del procedimento con quello del patteggiamento infrabiennale. Ha però ritenuto che la sovrapposizione non sia di per sé un segnale di disarmonia sistematica con effetti inevitabilmente negativi di funzionamento degli istituti, potendo rivelarsi in concreto utile, ad esempio, che l’imputato possa sollecitare i poteri giudiziali di decisione in prospettiva della condanna, per l’eventualità che il pubblico ministero gli neghi il consenso alla richiesta concordata di pena.
Il risultato che si è inteso perseguire è evidente: una pena detentiva di misura consistente, che con ogni probabilità dovrà essere eseguita, è in questo modo la conseguenza di una verifica ex actis dell’esistenza delle condizioni, che ordinariamente, secondo i criteri di valutazione e di giudizio delle pronunce di accertamento nel merito della fondatezza dell’imputazione, conducono alla condanna.
Ciò implica che, per accogliere la richiesta, il giudice deve disporre di elementi di prova completi, univoci, sufficienti alla formulazione del giudizio di condanna. Negli altri casi, da quello estremo della prova negativa di colpevolezza, a quello della prova insufficiente e della prova contraddittoria, il giudice deve rigettare la richiesta.
Al rigetto della richiesta, quale che sia la causa, e quindi sia per incongruità della pena indicata che per insufficienza del materiale probatorio in atti, segue la valutazione della richiesta di rinvio a giudizio che torna ad essere l’oggetto decisorio principale.
Non è quindi preclusa la possibilità che il giudice pronunci sentenza di non luogo a procedere, facendo uso delle regole di valutazione e di giudizio proprie della fase dell’udienza di conclusione delle indagini, perché la richiesta di condanna con riduzione di pena non si arricchisce di un significato confessorio, che in qualche modo possa limitare ed orientare la valutazione giudiziale verso esiti obbligati.
L’imputato ha però la possibilità di evitare l’eventuale giudizio dibattimentale, avanzando richiesta di giudizio abbreviato, per assicurarsi comunque un vantaggio in termini di premialità sulla pena dopo aver operato una scelta processuale particolarmente impegnativa, quale è quella di fare richiesta di condanna.
Se la richiesta è rigettata per l’incongruità della pena, è fatto comunque salvo il potere del giudice del dibattimento di recuperare, al momento della condanna, l’applicazione della diminuente richiesta, ove, ex post, si riveli congrua. Tale potere non è stato attribuito al giudice dell’eventuale giudizio abbreviato, per la semplice ragione che la scelta del rito abbreviato già di per sé comporta un effetto premiale sulla pena per l’eventualità di una condanna.
Occorre poi evitare, nel caso di rigetto della richiesta per incongruità della pena, che si proietti sul giudizio il peso di un implicito riconoscimento di colpevolezza, nelle forme di un pre-giudizio in grado di contaminare il corretto svolgimento dell’accertamento. La Commissione ha ritenuto sufficiente a tal fine che, fermo restando l’obbligo per il giudice di una motivazione succinta dell’ordinanza di rigetto per incongruità della pena, essa non vada a comporre il fascicolo per il dibattimento, ma sia messa a disposizione della difesa dell’imputato, la cui richiesta è stata rigettata, rimettendo alle sue scelte strategiche la decisione circa l’esibizione al giudice del dibattimento, conclusa la fase istruttoria, per giustificare, per il caso di condanna, la richiesta di applicazione della diminuente di pena.
Il rigetto della richiesta non è però una soluzione obbligata per tutti i casi di incongruità della pena, e cioè della pena quantificata alla luce di tutti gli elementi di giudizio e non ancora ridotta nella misura di legge: se, infatti, l’incongruità è per eccesso, perché l’imputato chiede la condanna indicando una pena, su cui poi applicare la diminuente, superiore a quella che sembra al giudice più adeguata e giusta, questi può accogliere la richiesta, provvedendo al contempo alla rideterminazione della pena in senso più favorevole e quindi irrogando una pena finale, dopo l’applicazione della riduzione, inferiore a quella oggetto della richiesta.
Al rigetto della richiesta per incongruità della pena, ovviamente incongruità per difetto, si è ritenuto opportuno riservare all’imputato la possibilità di reiterare, per una sola volta, la richiesta con una nuova indicazione di pena. Dalla pur concisa motivazione del provvedimento di rigetto l’imputato può, infatti, aver modo di comprendere le ragioni del giudizio di incongruità, e conseguentemente scegliere se proporre una nuova richiesta, questa volta con maggiori probabilità di accoglimento.
Il meccanismo così delineato, da un lato, evidenzia la necessità che i rapporti tra imputato richiedente e giudice siano formalizzati e scanditi dal compimento di atti tipici, onde scongiurare il rischio di prassi volte a legittimare forme di negoziazione della pena con il coinvolgimento del giudice; dall’altro, evita che l’assenza di un dialogo tra giudice ed imputato costringa quest’ultimo ad ardue, e fors’anche casuali, previsioni di quale possa essere la misura di pena adeguata.
Si consideri, poi, che la richiesta di condanna con riduzione di pena, sostanziandosi nella sollecitazione dei poteri di valutazione del giudice, il cui esercizio prescinde da un accordo delle parti perché non si conforma in maniera diversa rispetto al modello ordinario di giudizio, non ha nell’eventuale dissenso del pubblico ministero un impedimento alla sua delibazione.
Il pubblico ministero è chiamato ad esprimere un parere sulla richiesta, di natura obbligatoria ed ovviamente non vincolante, ma non può interdire l’attivazione dei poteri di cognizione e di decisione del giudice, dal momento che l’imputato rinuncia alla contesa, pur non impegnandosi nella condivisione implicita della fondatezza dell’imputazione, nei termini di un atteggiamento inequivocamente confessorio.
L’eventuale pronuncia di condanna non è poi soggetta ad appello.
La limitazione per l’imputato è agevolmente giustificabile: il fatto che abbia richiesto la condanna rende irragionevole ipotizzare che possa dolersi di quanto è stato deciso in conformità.
Nella prospettiva dell’accusa, la limitazione dell’appello si spiega considerando che l’accoglimento della richiesta dà soddisfacimento alla pretesa punitiva, quali che siano le valutazioni in termini di adeguatezza della risposta sanzionatoria.
L’interesse alla deflazione processuale ben giustifica la limitazione dell’appello del pubblico ministero volto alla riforma della condanna in punto di quantum di pena inflitta.
Diverso è invece il caso che la sentenza di condanna abbia, in conformità alla richiesta dell’imputato, modificato il titolo del reato: per questo aspetto, la reazione del pubblico ministero merita tutela attraverso il riconoscimento del diritto all’impugnazione. Parimenti, sarebbe irragionevole negare il diritto di appello del pubblico ministero nel caso di applicazione di una pena illegale o di esclusione di una circostanza aggravante per la quale la legge stabilisce una pena di specie diversa o ad effetto speciale.
Anche il ricorso per cassazione patisce dei limiti, direttamente funzionali al soddisfacimento dell’esigenza deflattiva. È sembrato opportuno limitare l’esperibilità dell’impugnazione, ai casi di applicazione di una pena illegale ed a quelli in cui si denuncia la mancanza o la non corretta espressione del consenso dell’imputato alla pronuncia di condanna, o, ancora, si riscontra una difformità tra pena inflitta e pena richiesta.
Per quanto concerne l’impugnazione per revisione, il trattamento riservato alla sentenza di condanna su richiesta non patisce alcuna differenza rispetto alla disciplina predisposta per le ordinarie sentenze di condanna, sul presupposto che in entrambe al giudice è richiesto un pari impegno nella valutazione ricostruttiva degli elementi di responsabilità.
Per le sentenze di patteggiamento, invece, si è disposto che non sono soggette a revisione per contrasto con quanto accertato in sentenze di condanna, dal momento che in esse manca un pieno accertamento, che possa essere utilmente comparato; e che non sono soggette a revisione sulla base di prove conosciute o conoscibili al momento della pronuncia, perché con la scelta del patteggiamento l’imputato ha inequivocamente rinunciato a far valere le prove preesistenti.

21. I giudizi: il dibattimento

Il punto fermo nella formulazione delle direttive della delega concernenti il dibattimento è rappresentato dall’intangibilità delle opzioni di fondo cui era approdato il codice del 1988, frutto dell’elaborazione più che ventennale della riforma (a partire almeno dai lavori preparatori della legge delega del 1974). Non sarebbe accettabile rimettere in discussione il sistema accusatorio, con i corollari che ne derivano quanto alla separazione delle fasi, alla centralità del dibattimento, all’oralità e all’immediatezza: tenuto conto, in particolare, dei principi che oggi sono espressamente proclamati dalla Costituzione, fra i quali spiccano la parità delle parti e il contraddittorio nella formazione della prova, oltre alle specifiche garanzie dell’accusato con riguardo all’esame di chi rende dichiarazioni a suo carico. La scelta di metodo realizzata nel 1988 non può che essere ribadita, nonostante le difficoltà che ha dovuto incontrare per affermarsi nella prassi e nella cultura giuridica, difficoltà testimoniate dalle note vicende del primo decennio di vigenza del codice. Attualmente la scelta accusatoria sembra infatti la più congrua anche in relazione alle direttive costituzionali: si può anzi sostenere che tale metodo sia stato ormai comunemente accettato, in linea di principio, e si tratta solo di evitare che una prassi poco rigorosa finisca con lo svuotarlo.
Occorre però domandarsi se la struttura del dibattimento del processo accusatorio, certamente costoso in termini di tempo e di risorse necessarie, non rappresenti, in pratica, un ostacolo all’obiettivo principale che va perseguito e che è oggetto del mandato conferito alla Commissione: trovare il corretto equilibrio fra “giusto processo” e “ragionevole durata del processo”. In proposito, anche se può sembrare scontato, vale la pena evidenziare che in realtà i due termini non sono necessariamente in antitesi, poiché da un lato la ragionevole durata rappresenta una condizione essenziale per la realizzazione del giusto processo; dall’altro non sono le garanzie del giusto processo come tali, e in particolare la tutela del contraddittorio, che impediscono una rapida conclusione del giudizio. E comunque i menzionati valori non possono trovare un bilanciamento sullo stesso piano, perché gli interessi che ne costituiscono il fondamento non sono omogenei né equivalenti: tanto per fare un esempio, non esistono esigenze di celerità che possano realizzarsi a scapito dei diritti fondamentali (come ha spesso affermato anche la Corte costituzionale).
Posto che la stella polare di qualsiasi intervento riformatore in tema di dibattimento penale non può che essere il principio del contraddittorio nella formazione della prova, non restava che concentrarsi su quegli aggiustamenti e su quelle modifiche che, senza snaturare il sistema né pregiudicare i diritti dell’imputato, consentissero di ottenere una maggiore semplificazione ed accelerazione, e dunque un guadagno in termini di funzionalità e di efficienza.
Esclusa perciò la necessità di una riforma strutturale della fase, si è scelto di intervenire a diversi livelli. In primo luogo, con modifiche nell’organizzazione del procedimento, coerenti col modello vigente, volte ad eliminare tempi morti ed attività inutili; in secondo luogo, mediante la correzione delle norme contraddittorie, ambigue o di difficile interpretazione, ovvero fonte di prassi giurisprudenziali devianti, mirando anche ad un migliore coordinamento sistematico; astenendosi, comunque, dall’inseguire mere opzioni dogmatiche o terminologiche. Contemporaneamente, si è reso necessario prevedere l’adeguamento alla giurisprudenza della Corte costituzionale, nonché alle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte di giustizia dell’Unione europea.
La novità più rilevante nella nuova disciplina del dibattimento è l’abolizione del giudizio in contumacia, almeno nella forma finora conosciuta. L’attuale giudizio in contumacia crea numerosi problemi pratici e comporta un grande dispendio di attività destinate il più delle volte ad essere compiute inutilmente, perché comunque l’eventuale sentenza di condanna non può essere eseguita, mentre lo Stato non ha un reale interesse all’accertamento della responsabilità. La contumacia non è prevista nei principali paesi europei (ad eccezione della Francia) e neppure davanti ai tribunali internazionali; fra l’altro, com’è noto, il sistema vigente ha procurato e continua a procurare numerosi problemi all’Italia in sede europea. Va inoltre considerato che la contumacia sarebbe tendenzialmente incompatibile con il sistema accusatorio, nel quale, in coerenza con la posizione attiva riconosciuta all’imputato, gli si impone l’onere di partecipare al processo.
L’idea di fondo, dunque, è la previsione che il processo resti sospeso fino a quando non sia possibile ottenere, se non la comparizione personale dell’imputato, almeno la certezza che la sua mancata partecipazione sia volontaria e consapevole. E’ stata deliberatamente scartata la possibile soluzione alternativa, praticata in altri paesi, di imporre all’imputato un vero e proprio obbligo di presentarsi all’udienza, reso effettivo dal potere di imporre una misura coercitiva ad hoc (accompagnamento coattivo o arresto): ciò per non provocare un eccessivo allargamento dell’ambito di applicabilità delle restrizioni della libertà personale prima del giudizio, specialmente per i reati di minore entità.
Per contro, con riferimento ai reati più gravi, ci si è dovuti far carico della necessità di evitare che la mera irreperibilità dell’imputato potesse essere in grado di paralizzare il processo a tempo indeterminato; e ciò in particolare nei casi in cui sia stata adottata una misura cautelare. La sottrazione alla misura impedirebbe cioè la pronuncia di un’eventuale condanna destinata a diventare irrevocabile, e ad essere messa immediatamente in esecuzione in caso di arresto successivo del condannato: ciò avrebbe evidenti conseguenze negative sulla funzione di prevenzione generale della pena. Un trattamento diverso è stato perciò previsto per l’imputato latitante, al cui comportamento è sembrato corretto collegare la volontà di sottrarsi al giudizio. Una situazione analoga si verifica nei casi – eccezionali – di irreperibilità dell’imputato nei procedimenti per delitti di criminalità organizzata o terrorismo, quando manchi una misura che funga da presupposto dello stato di latitanza. La gravità dei reati, insieme all’esistenza di una organizzazione criminale in grado di assicurare protezione all’imputato, inducono ugualmente a permettere la celebrazione del processo nei confronti di chi vi si sia deliberatamente sottratto.
La direttiva 71, che contempla il caso di mancata comparizione dell’imputato, deve essere letta in collegamento con la direttiva 24 in tema di notificazioni, ove si prevede che di regola la notificazione della citazione contenente la contestazione dell’accusa debba essere effettuata a mani dell’imputato, allo scopo di avere la certezza che lo stesso sia stato posto a conoscenza del procedimento e della natura dell’accusa. Ciò consente di presumere che la mancata comparizione in giudizio sia il risultato di una scelta consapevole, con la conseguenza che il procedimento può proseguire come se l’imputato fosse presente, non diversamente da quanto accade ove egli abbia espressamente rinunziato a comparire (o consentito che il dibattimento si svolga in sua assenza). Naturalmente il rifiuto espresso di ricevere l’atto nelle proprie mani, risultante dalla relazione di notifica, va equiparato al rifiuto di presentarsi in giudizio.
La presunzione di cui si è detto è tuttavia suscettibile di prova contraria: infatti la direttiva 71.6 riconosce, all’imputato condannato in assenza, il diritto di ottenere un nuovo giudizio qualora risulti che non abbia avuto effettiva conoscenza del processo. Questa previsione, anche se verosimilmente applicabile solo in casi estremi, tenuto conto che fin tanto che venga rispettata la procedura prevista per le notificazioni l’effettiva conoscenza non dovrebbe mai mancare, rappresenta un’indispensabile norma di chiusura per ottemperare alle ripetute indicazioni in tal senso della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Ove non sia stata eseguita la notificazione a mani e l’imputato sia irreperibile, il giudizio non può proseguire e deve essere sospeso fino a quando non sia possibile notificare la citazione. Per evitare che questa garanzia procedurale possa bloccare definitivamente il processo, inducendo strategie volte a paralizzarne lo svolgimento mediante la deliberata irreperibilità al momento della vocatio in iudicium, si prevede che il giudice rinnovi periodicamente l’ordine di notificazione coattiva previsto dalla direttiva 24.4, fissando una nuova udienza per la comparizione dell’imputato (direttiva 71.3) e che la sospensione non impedisca il compimento degli atti urgenti e indifferibili, allo scopo di scongiurare la dispersione della prova (direttiva 71.4); in ogni caso è favorita la separazione dei giudizi, per evitare che l’irreperibilità di un solo imputato impedisca la prosecuzione del processo nei confronti di tutti (direttiva 71.5)
Nel caso di imputato latitante, che cioè si sia volontariamente sottratto all’esecuzione di una misura cautelare che limiti la sua libertà di locomozione (e dunque per i soli reati di una certa gravità, per i quali l’applicazione di misure cautelari è consentita), ovvero nel caso di imputato irreperibile per reati di criminalità organizzata o terrorismo, il giudizio può ugualmente svolgersi in sua assenza quando ne risulti accertata la conoscenza effettiva del procedimento (direttiva 72). L’accertamento potrà aver luogo anche su base indiziaria, ma in mancanza il giudizio dovrà essere sospeso come negli altri casi di irreperibilità (direttiva 71.5). Lo stato di latitanza, specie se dichiarato nei confronti di persona avente stabile dimora nel territorio nazionale, è valutabile come manifestazione di volontà di sottrarsi alla conoscenza degli atti del procedimento, con la conseguenza che, ove il giudice ritenga provata tale volontà, le notifiche nei confronti del latitante potranno essere operate con consegna dell’atto al difensore. Lo stesso si può dire per l’irreperibilità, nei casi suddetti. Anche in queste ipotesi, comunque, al condannato è riconosciuto il diritto ad un nuovo giudizio, ma solo ove risulti che la latitanza o l’irreperibilità non era volontaria, cioè non determinata dall’intento di sottrarsi al procedimento (direttiva 72.2); nel nuovo giudizio saranno comunque utilizzabili le prove acquisite di cui sia divenuta impossibile la ripetizione (direttiva 72.3).
Passando alla disciplina generale della fase, a partire dagli atti introduttivi, con la direttiva 73 si sono volute disciplinare espressamente le questioni preliminari, che, secondo l’impostazione tradizionale, vanno risolte prima dell’apertura del dibattimento. In particolare è sembrato opportuno prevedere espressamente, nella direttiva 73.2, che le questioni suddette non possano essere più messe in discussione successivamente, anche nel caso di cambiamento del giudice o di modifica nella composizione del collegio.
Dopo la dichiarazione di apertura del dibattimento le parti possono formulare le richieste di prova, previa esposizione dei fatti da provare: viene confermata la disciplina vigente, che è la più coerente col sistema accusatorio (direttiva 74.1). In particolare, si prevede espressamente il contraddittorio sull’ammissione dei documenti (direttiva 74.2) e, a pena di inammissibilità, la cosiddetta discovery anticipata delle prove dichiarative, per consentire alla parte nei cui confronti la prova viene fatta valere di preparare la difesa ed eventualmente di chiedere l’ammissione di prova contraria (direttiva 74.3). La direttiva 74.4 rinvia infine ai criteri previsti in via generale nella direttiva 31 per quanto riguarda l’ammissione della prova, che va decisa senza ritardo. I provvedimenti sull’ammissione della prova sono revocabili in contraddittorio (direttiva 75.1). Nell’ottica della semplificazione, per evitare rinvii dell’udienza, viene stabilita la decadenza dalla prova della parte che abbia omesso la citazione dei propri testimoni (direttiva 75.2), risolvendo in maniera netta il problema, attualmente controverso in giurisprudenza, dell’onere di citazione dei testimoni non comparsi: ciò attraverso il richiamo di una disposizione che ha dato buona prova nel procedimento davanti al giudice di pace. Naturalmente la decadenza della parte non esclude che il giudice, avvalendosi dei propri poteri d’ufficio, possa disporre comunque l’assunzione della prova. La decadenza va rilevata nella medesima udienza nella quale non c’è stata la comparizione del testimone, per evitare un contenzioso che si trascini nelle udienze successive.
La direttiva 76 definisce le modalità dell’esame diretto e del controesame, secondo le regole, ormai collaudate, previste dalla delega del 1987 e dal codice vigente. Al riguardo, si deve sottolineare la previsione di un’espressa indicazione, oggi mancante, del criterio per determinare la parte che deve condurre l’esame diretto, quando la prova sia stata richiesta da entrambe le parti (direttiva 76.2). Quanto al potere del giudice di disporre d’ufficio l’ammissione di mezzi di prova, già contemplato in via generale alla direttiva 31, la direttiva 76.4 precisa che tale potere può essere esercitato solo al termine dell’istruttoria dibattimentale e per mezzi di prova “ulteriori” rispetto a quelli introdotti dalle parti: ciò allo scopo di circoscrivere il più possibile l’intervento del giudice, a tutela della sua terzietà.
Anche il divieto di arresto in udienza del testimone falso o reticente riproduce una direttiva della delega del 1987, intesa a spogliare il giudice del dibattimento di poteri inquisitori e di coercizione sul dichiarante, che potrebbero pregiudicare la sua imparzialità (direttiva 77.1). Resta però l’opportunità di una reazione rapida dell’ordinamento, per cui al pubblico ministero è attribuito il potere di procedere con citazione diretta, ma non prima del deposito della sentenza (direttiva 77.2), dalla quale soltanto, sulla base della valutazione finale della testimonianza effettuata dal giudice, che abbia tenuto conto di tutti i dati probatori e sia stata espressa nella motivazione, può desumersi l’ipotesi di reato.
La direttiva 78 disciplina la correlazione tra accusa e sentenza e la modifica dell’imputazione da parte del pubblico ministero. Non ha trovato accoglimento la proposta, avanzata da un commissario, di estendere il principio della correlazione anche alla qualificazione giuridica del fatto. Rispetto alla disciplina vigente, viene esclusa la possibilità di contestare in via suppletiva anche il reato continuato, limitando la contestazione alle circostanze aggravanti e al concorso formale (com’era del resto nella norma originaria del codice, poi modificata, ma solo indirettamente, come conseguenza della riformulazione dell’art. 12 c.p.p. in essa richiamato). La contestazione del reato continuato, analogamente alla contestazione del fatto nuovo, resta così subordinata al consenso dell’imputato e all’autorizzazione del giudice, autorizzazione della quale sarà compito del legislatore delegato individuare i parametri. Sempre in sede di legislazione delegata sarà necessario tener conto delle sentenze della Corte costituzionale che hanno introdotto la facoltà per l’imputato di chiedere l’applicazione della pena, pur essendo scaduto il termine, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine, o quando la richiesta era stata tempestivamente presentata per l’imputazione originaria; nonché la facoltà di proporre domanda di oblazione.
La direttiva 79 affronta il problema del mutamento del giudice nel corso del dibattimento. Il rispetto del principio di immediatezza imporrebbe in ogni caso la riassunzione delle prove orali già acquisite, quando l’esame possa aver luogo e sia stato richiesto anche da una sola delle parti. A questa conclusione, sulla base del codice vigente, è giunta dopo qualche incertezza anche la giurisprudenza, fermi restando i limiti previsti dall’art. 190-bis c.p.p. e la possibilità di lettura delle dichiarazioni rese nel precedente dibattimento ai sensi dell’art. 511 c.p.p. Occorre però considerare che l’obbligo di ripetere l’esame a semplice richiesta si presta ad essere utilizzato a fini dilatori, quando riguardi gli stessi fatti oggetto delle precedenti dichiarazioni e il risultato non sia controverso. E non sembra possibile risolvere il problema soltanto con misure organizzative che minimizzino l’eventualità di modifiche del giudice o della composizione dei collegi nel corso del dibattimento. In Commissione il dibattito sul punto è stato molto intenso e articolato: una minoranza di commissari riteneva che il sistema vigente fosse già troppo sbilanciato nel prevedere deroghe al principio di oralità-immediatezza, e si è dichiarata contraria all’introduzione di nuove eccezioni, mentre la maggioranza vedeva come prioritaria l’esigenza di evitare l’uso di tattiche pur legittime ma destinate a prolungare eccessivamente la durata del processo.
La direttiva si apre (79.1) con la previsione di quella che dovrebbe essere la regola generale per evitare in radice il verificarsi della situazione sopra descritta: l’applicazione all’ufficio di provenienza, ove possibile, del giudice trasferito o assegnato ad altra funzione, per terminare personalmente la celebrazione dei dibattimenti iniziati. Alcuni commissari hanno criticato la norma, perché di difficile attuazione, da un lato, e, dall’altro, perché esorbitante dai limiti di competenza della Commissione. Tuttavia, il rinvio alle norme di ordinamento giudiziario ha precisamente lo scopo di lasciare la soluzione dei problemi di organizzazione degli uffici alla sede propria, mentre l’affermazione di principio indica una linea tendenziale che induca a favorire l’adozione di provvedimenti strutturali rispetto alla limitazione delle garanzie processuali.
Nella direttiva 79.2 viene espressamente confermata l’utilizzabilità, a prescindere dalla ripetizione o meno dell’esame, delle dichiarazioni precedentemente rese - in contraddittorio - nel dibattimento, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale.
Si distingue poi a seconda che il mutamento riguardi un solo componente di un collegio giudicante, ovvero più componenti o un giudice monocratico: la distinzione trova conforto nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha avuto occasione di sottolineare come la sostituzione di un solo giudice non rappresenti di per sé una violazione della Convenzione, quando gli altri componenti del collegio hanno assistito all’assunzione di tutte le prove. Nel primo caso, dunque, la direttiva 79.3 prevede che la ripetizione dell’esame, su richiesta della parte interessata, sia necessaria solo se riguardante fatti o circostanze diverse, salvo che il giudice non la ritenga altrimenti necessaria; nel secondo caso è sufficiente la richiesta di parte, purché adeguatamente motivata.
Il complesso tema delle letture dibattimentali trova la sua regolamentazione nella direttiva 80, nella quale, oltre a riconfermare la disciplina del 1987 che, prima delle note vicissitudini, aveva rappresentato il vero punto di svolta nel senso del processo accusatorio, si è tenuto conto della riforma dell’art. 111 Cost. e delle deroghe in esso previste al principio del contraddittorio nella formazione della prova. Com’era logico, si è mantenuta la classica distinzione tra lettura a fini di acquisizione e lettura a fini di contestazione.
La lettura a fini di acquisizione della prova riguarda in primo luogo gli atti contenuti nel fascicolo per il dibattimento, come descritti dalle direttive 68.8 e 70.1. Al riguardo va sottolineato che, evitando una concezione per così dire “feticistica” dell’oralità e puntando piuttosto alle garanzie sostanziali, si è da un lato notevolmente ridotto l’obbligo di lettura integrale dei verbali, anche se contenenti dichiarazioni, che di regola nulla aggiunge alla loro acquisizione come prova; dall’altro lato, si è previsto il dovere del giudice di indicare espressamente gli atti, di cui non sia stata data lettura, che intende utilizzare: indicazione che funge da provvedimento acquisitivo, in mancanza del quale l’atto è inutilizzabile anche se appartiene al fascicolo per il dibattimento. La direttiva 80.2, pertanto, prevede che, indipendentemente dal fatto che si tratti o meno di dichiarazioni, alla lettura effettiva degli atti, totale o parziale, si proceda solo se assolutamente necessario (la fattispecie include l’ipotesi, oggi espressamente prevista dal codice, del “serio disaccordo” sul loro contenuto); e prevede che la lettura sia di regola sostituita dall’indicazione, che però deve essere espressa e specifica per ciascun atto. Gli atti non letti né indicati sono inutilizzabili, contrariamente a quanto oggi sostiene, in modo troppo tollerante, una discutibile giurisprudenza. La direttiva 80.1 prevede che l’esame orale, una volta che il verbale sia suscettibile di lettura, non sia indefettibile, ma dipenda da una richiesta di parte e da presupposti che spetterà al legislatore delegato definire.
Nella medesima direttiva 80.1 si fa riferimento, secondo le indicazioni dell’art. 111 Cost., alla lettura degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero di cui sia sopravvenuta l’irripetibilità: in questo caso il parametro costituzionale viene circoscritto, con l’aggiunta del criterio dell’imprevedibilità, così come previsto dal vigente art. 512 c.p.p. Occorre però considerare che, secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo, le dichiarazioni rese senza il contraddittorio con la difesa non sono sufficienti da sole a fondare una sentenza di condanna, ma possono essere utilizzate solo se non sono determinanti. Di questo si è tenuto conto nella direttiva 80.6, che prevede la necessità di riscontri sulla loro attendibilità.
Quanto alla lettura a fini di contestazione, e alla possibile utilizzazione come prova delle precedenti dichiarazioni, le direttive 80.4 e 80.5 non si discostano dalla disciplina vigente, che ha ormai raggiunto un assetto abbastanza equilibrato. Il concetto di contestazione non viene definito, ma sembra ovvio che la contestazione debba essere consentita anche in caso di rifiuto di rispondere alle domande. Quanto alla provata condotta illecita che consente l’allegazione al fascicolo per il dibattimento, il legislatore delegato dovrà disciplinare la procedura di accertamento del presupposto.
La direttiva 81 continua a prevedere la motivazione contestuale e la lettura immediata della sentenza nei casi di non particolare complessità, anche se questa possibilità non ha trovato grande riscontro nella pratica. Al di fuori di questo caso, i termini di deposito della sentenza saranno predeterminati dalla legge.

22. (Segue): le altre forme di giudizio: considerazioni preliminari

In premessa va ricordato – ma il tema riguarda anche “le altre forme di giudizio” di cui alle successive direttive – che il difficile rapporto tra efficienza e garanzie – problema centrale della Procedura penale di impostazione democratica – è stato riproposto in termini radicali all’indomani della promulgazione della nostra Carta costituzionale e, perciò, messo al centro del dibattimento sulla riforma del Codice di Procedura penale sin dall’inizio. Invero, se il problema risultava sostanzialmente marginale nel Codice del 1930 – ove, a leggere la Relazione, i diritti procedurali erano tutelati dal giudice istruttore-soggetto imparziale, che, quindi, contestualmente assicurava l’efficienza della giurisdizione proprio attraverso l’istruzione rivolta alla raccolta degli elementi ‹‹utili e necessari per la ricerca della verità›› (art. 299 c.p.p. 1930) – esso si è presentato nella sua reale dimensione costituzionale non solo per la filosofia di fondo dello Stato democratico (che ‹‹riconosce i diritti della persona››: art. 2 Cost.), ma perché lo Statuto del 1948 eleva i diritti procedurali a diritti costituzionali, espressamente elencandoli e tessendo una linea di razionalità sistematica – al suo livello – racchiusa nel Preambolo penalistico della Costituzione che, dunque, li ordina e li eleva a sistema.
Con queste premesse non si poteva non affidare alla struttura del processo – privata del momento efficientista: cioè, dell’istruzione – il tema dell’invenzione di strumenti per il recupero della efficienza della giurisdizione.
In verità, all’inizio, questa preoccupazione continuò ad alimentare la “cultura istruttoria”, anche se al termine si aggiungerà l’aggettivo “garantista” per prendere le distanze da un tessuto normativo che inesorabilmente mortificava i diritti dell’individuo nel processo. Epperò si discuteva se essa dovesse essere gestita dal giudice istruttore e/o dal pubblico ministero, fronteggiandosi, nelle diverse tesi, la forza garantistica e triadica, sul primo fronte, e/o, all’inverso, gli embrioni del processo di parte.
Perciò fu la “Bozza Carnelutti” a rimescolare le carte e ad indicare la via alternativa ad una persistente cultura del processo istruttorio di ispirazione napoleonica. Ne è testimonianza l’esame della cultura classica precedente, che pure quando tracciava la linea di un processo accusatorio, non si spingeva a qualificarlo così, preferendo la falsa locuzione di “processo misto”.
La contestazione del nuovo indirizzo offerto dalla “Bozza” (cfr., ad esempio, gli atti del Convegno di Lecce del 1964), all’inizio frenò l’inarrestabile desiderio di riforma, che, però, riprese vigore – anche per il ricordato contributo demolitorio offerto dalla Corte costituzionale sul Codice Rocco – all’inizio degli anni ‘70, quando, con sapiente senso di responsabilità, il Parlamento approvò la legge di delega del 18 aprile 1974 che produsse, a distanza di quattro anni, un Progetto di nuovo codice, di incerta razionalità sistematica e debole proprio sul terreno della efficienza della giurisdizione.
La denuncia di tali limiti è espressa dal Ministro Morlino, che firma, nel 1979, una “nuova bozza” di delega, lasciando cadere (= decadere) il Progetto del 1978.
La critica si appuntò, non tanto nella permanenza dell’ibrida figura del giudice istruttore chiamato a selezionare, nell’udienza “di smistamento”, i processi tra giudizio immediato e atti di istruzione; non solo su talune scelte tecniche di dubbia coerenza sistematica (denunciata, ad esempio, nel Convegno di Napoli del 1978); quanto, e particolarmente, sull’abbandono di strade alternative al dibattimento, soprattutto dei “riti differenziati” e delle pratiche premiali che la coeva legislazione dell’emergenza aveva messo in campo per far fronte all’“assalto terroristico”.
Il segnale era chiaro e col tempo fu raccolto, soprattutto su questo secondo fronte, prima dalle leggi del 1981 e poi, sul piano generale, dalla nuova legge delega del 1987; che, dunque, elegge a luogo per la “premialità” la nuova programmata udienza preliminare, affidando ad essa il progetto deflativo.
Contestualmente, se questa, assume via via funzioni e reali compiti – di rito (= controllo sull’esercizio dell’azione), di deflazione (= rinforzati soprattutto con la legge del 1993 n. 105 dell’8 aprile) e di merito su richiesta di parte ai fini della celebrazione dei “riti premiali” –, la novità saliente, ai fini dell’efficienza, è rappresentata dalla multischematicità dell’azione, che guida – su specifici presupposti e/o sul consenso delle parti – i “procedimenti speciali” , termine con il quale il codice del 1988 qualificò la moltiplicazione delle procedure, non più secondo la filosofia dell’“anomalia processuale” (così il c.p.p. del 1930), ma secondo i bisogni di efficienza della giurisdizione. Questa filosofia, nelle intenzioni del legislatore, relegava il dibattimento ad evenienza “residuale”, pur se esso rappresentava la “centralità” strutturale del processo accusatorio.
Su questo terreno sono dovute tre annotazioni.
Innanzitutto va rilevata la insicurezza del legislatore che raccoglieva istanze culturali e prospettive innovative mai praticate in precedenza. Di qui dubbi neanche nascosti circa la coerenza “accusatoria” e la incerta validità sul piano operativo; tant’è che le prassi successive hanno registrato difficoltà di accoglienza e “debolezze normative”.
L’incertezza traspare dalle poche pagine che la Relazione dedica all’argomento. In essa si legge: ‹‹nel libro VI trovano la loro disciplina quelli che, durante i lavori preparatori della legge delega sono stati spesso indicati come riti “differenziati” e che si è cercato di incrementare il più possibile. E’ diffuso il convincimento che ad essi è affidata in gran parte la possibilità di funzionamento del procedimento ordinario, che prevede meccanismi di formazione della prova particolarmente garantiti, e quindi non suscettibili di applicazione generalizzata, per evidenti ragioni di economia processuale. Soprattutto ai riti abbreviati (titoli I e II) è affidata la funzione di evitare il passaggio alla fase dibattimentale di un gran numero di procedimenti, secondo uno schema di deflazione comune a tutti i sistemi processuali che si ispirano al modello accusatorio. Si è efficacemente detto, nel corso della approvazione della legge delega, che il nuovo processo “funzionerà se riusciremo a far pervenire al dibattimento soltanto una parte piccola dei processi”>> (intervento on. Casini alla Camera dei deputati, Aula 10 luglio 1984)››. .
Per dare consistenza a questo nuovo approdo, quel legislatore chiarisce che ‹‹l’esperienza dei paesi anglosassoni insegna che è ritenuto del tutto incongruo e antieconomico prevedere il passaggio alla fase dibattimentale in caso di ammissione da parte dell’imputato delle proprie responsabilità, cioè in situazioni in cui l’unico aspetto controverso può essere la determinazione in concreto della pena. Ove l’imputato rinunci alla celebrazione del dibattimento, deve perciò essere incentivata la sua proposizione ad avvalersi dei riti semplificati. Nei limiti in cui la legge delega ha ritenuto di attribuire rilevanza alle pattuizioni delle parti, delineandogli istituti maggiormente innovativi previsti nella direttiva 45 (applicazione della pena sulla richiesta delle parti) e 53 (giudizio abbreviato), il Progetto ha cercato di costruire una disciplina degli stessi (rispettivamente, nel titolo II, e nel titolo I) che offrisse ampie possibilità di applicazione››. Si costruisce, così, un microsistema che ha i suoi punti di forza nell’ “accordo delle parti” e nella – pur non richiesta – “ammissione di responsabilità” da parte dell’imputato nel caso dei “riti incentivati”, che – peraltro – si vedrà, si sono dimostrati i punti deboli delle discipline predisposte.
La seconda annotazione riguarda la poco felice nomenclatura del libro VI, che ha prodotto incertezze sistematiche e vizi giudiziali.
Sul primo punto è noto che ancora oggi parte della dottrina qualifica i “riti premiali” come “riti inquisitori”, sul presupposto – conseguente al precedente – che essi non costituivano veri e propri giudizi. Il rilievo vale soprattutto per il “patteggiamento” un po’ a causa della collocazione sistematica, ancor più in ragione della sottovalutazione della clausola di salvaguardia (= regola di comportamento) di cui all’art. 129 c.p.p., peraltro, in tal caso, espressamente richiamato.
Eppure il legislatore – qui senza incertezze – aveva chiarito il senso della formula di testa del libro VI. Si legge, invero, in Relazione, che ‹‹la specialità va vista in relazione al procedimento ordinario per i reati di competenza del tribunale, che si sviluppa nella seguente sequenza : indagini preliminari, udienza preliminare, giudizio di primo grado, impugnazioni (appello e ricorso per cassazione)››. Perciò, ‹‹le deviazioni che nei procedimenti speciali si riscontrano rispetto al modello del procedimento ordinario tendono tutte a semplificare i meccanismi processuali o ad abbreviare la durata del processo mediante forme di definizione anticipata rispetto alle forme del giudizio dibattimentale››, specificando,poi, che ‹‹alcune differenze rispetto al modello ordinario sono collegate ai caratteri oggettivi del processo (evidenza della prova), altre si basano sulla volontà delle parti (è questo il caso del giudizio abbreviato e dell’applicazione della pena su richiesta); il giudizio direttissimo (titolo III) si fonda sull’arresto in flagranza ovvero sull’intervenuta confessione dell’imputato››.
Insomma, qui il legislatore predisponeva riforme di strutture rivolte alla filosofia dell’efficienza.
Sennonché – e siamo alla terza annotazione – le vicende successive registrano un sostanziale fallimento dei riti premiali, fino al punto della previsione del c.d. “patteggiamento allargato” (cfr. l. 12.06.2003 n. 134) e della radicale modifica del giudizio abbreviato – di cui si dirà diffusamente.
Su altro fronte, poi, non può non registrarsi una prassi di assoluta inutilità del giudizio immediato (raramente praticato) e, all’opposto, il continuo ricorso al giudizio direttissimo soprattutto in leggi speciali post-codicistiche (cfr., ad esempio, legge n. 356 del 7.8.1992; n. 377 del 19.10.2001; n. 88 del 24.11.2003; n. 162 del 17.8.05) e la utilità deflattiva del decreto penale di condanna.
Queste annotazioni di vario genere suggeriscono oggi il tendenziale abbandono della linea di moltiplicazione delle procedure e di puntare – soprattutto ai fini deflativi – sui poteri decisori del giudice, di cui si è detto nella presentazione dell’udienza di conclusione delle indagini.
Questo recupero di razionalità sistematica, peraltro – che non ignora i presupposti oggettivi e/o soggettivi per la citazione diretta a giudizio anche in chiave di recupero della competenza dell’organo monocratico del Tribunale –, e le ragioni di un accorpamento topografico dei procedimenti penali per i minori e innanzi al giudice di pace – manifestata nelle singole parti della Relazione –, consigliano ora di assorbire sotto “le altre forme di giudizio” le “diverse procedure”, per le quali appare inopportuna qualsiasi specificazione nominalistica, volendo perseguire l’intento di trasmettere al legislatore delegato l’idea che si versi – appunto – in giudizi caratterizzati solo da differenti input connessi ora alla volontà della parte (giudizio abbreviato e decreto penale di condanna) ora a presupposti di prossimità con la vicenda “soggettiva” dell’imputato (citazione diretta di chi è soggetto a misura cautelare, arrestato e/o fermato) oppure a citazione diretta innanzi al Tribunale quale organo monocratico per fatti di non rilevante gravità, secondo direttive che saranno di seguito specificate. In tutte queste ipotesi, però, si prevede che l’imputato possa chiedere di esser chiamato innanzi al giudice dell’udienza di conclusione delle indagini ai fini della scelta del rito abbreviato e/o per sfruttare le potenzialità premiali di tale giudice, previste, queste, nel punto n. 69.

23. (Segue): il giudizio abbreviato

La travagliata vita, giuridica e “giudiziaria”, del giudizio abbreviato è dimostrata dalla quantità di pronunce della Corte costituzionale in argomento, soprattutto di carattere “manipolativo” e “additivo” dei singoli settori normativi della complessa disciplina –precedente e successiva alla legge n. 479 del 1999 – pronunce, peraltro, annunciate con la sentenza n. 88 del 1991, che denunziava la impraticabilità del rito a causa del vizio genetico del codice del 1988 in tema di completezza delle indagini. Peraltro, l’atteggiamento dell’Avvocatura rispetto a questo rito – in parte vincolato dalla prima dottrina, che irrazionalmente lo connotava di inesistenti caratteri di common law – è stato di continua diffidenza vuoi a causa di una irrazionale filosofia colpevolista del rito, vuoi perché comunque esso si muove sulla “imprevedibilità della pena.
Queste osservazioni – che avrebbero militato a favore dell’abolizione del rito – e la opposta esigenza di mantenere in vita questo binario alternativo e parallelo al dibattimento in chiave premiale per la funzione deflattiva di questo, hanno suggerito di muoversi sulla linea di una nuova “ordinarietà” del rito, che ha imposto un’ottica tutt’affatto diversa anche al fine di sopperire alle lacune normative tuttora urgenti in materia.
Come è noto, il giudizio abbreviato nasce nel codice del 1988 con l’intento di offrire all’imputato una scelta strategica di tipo premiale per il caso della condanna. Di qui l’idea di una sentenza allo stato degli atti chiesta dall’imputato previo consenso sull’uso degli atti d’indagini compiuti dal pubblico ministero ai fini delle conoscenze giudiziali e, quindi, con rinuncia alla formazione della prova in contraddittorio.
È questa la rigida logica originaria del rito; è questa la logica – flessibile – che, come si vedrà, sarà seguita nella attuale delega.
Sennonché – quanto al 1988 – la naturale incompiutezza del dibattito sulle alternative al dibattimento e la prevalente idea del bisogno di consenso dell’altra parte e di evitare “secche” decisorie per il giudice suggerirono, a quel legislatore, una articolata procedura introduttiva del rito e, quindi, non solo il consenso del pubblico ministero bensì anche la prevalutazione del giudice circa la “decidibilità” allo stato degli atti.
Queste rigide caratterizzazioni hanno spostato l’asse della scelta, prima, sul pubblico ministero – spesso “colpevole” dello scarno stato degli atti – e, poi – e di conseguenza – sul giudice. In più, quella rigidità – nella interpretazione corrente – impediva anche la mera presentazione di un documento durante il rito da parte dell’imputato, determinandone, così, la pratica estinzione: ad esso si ricorreva solo per i casi non risolvibili col “patteggiamento” e semprechè l’imputato non avesse alcuno elemento ulteriore da fornire al giudice; si aggiunga che, nella originaria versione, mancavano strumenti di correzione dell’errore sulla “decidibilità” commesso dal giudice.
La Corte costituzionale “rattoppò” la disciplina alla men peggio, prima richiedendo la motivazione del dissenso al pubblico ministero con l’auspicio di ottenere, così, una maggiore responsabilizzazione dello stesso nella conduzione delle indagini (cfr. sentenza n. 81 del 1981) e, poi, prevedendo la comparazione con l’attuale disciplina dell’art. 448 c.p.p. nel caso, all’esito del dibattimento, questo giudice rilevasse l’errore del giudice dell’udienza preliminare in sede di ammissione del rito (cfr. sentenza n. 23 del 1992).
La filosofia deflattiva era, così, messa in cantina; al punto che la stessa Corte “minacciò” il legislatore di una prevedibile dichiarazione di illegittimità della intera disciplina nel caso in cui esso non avesse provveduto ad una revisione della materia.
Ed il legislatore provvide (con la legge n. 479 del 1999), non correggendo, però, la filosofia di fondo del rito – comunque reso più praticabile, ma solo di poco, dagli “strumenti” di completabilità delle indagini (attuali artt. 415-bis, 421-bis e 422 c.p.p.), come è risultato dalle audizioni del Comitato Scientifico e come è dimostrato dalle statistiche – attraverso la previsione di poteri di richiesta complessa e/o di poteri probatori anche di ufficio del giudice che celebra il rito.
La parziale opera fu completata dalla legge successiva (n. 144 del 2000) che disciplinò gli effetti della modifica della imputazione durante il rito sulla volontà dell’imputato (art. 421-bis dell’attuale codice).
Residuò, anche questa volta, la mancanza di strumenti correttivi per l’eventuale errore del giudice sulla ammissibilità del rito nel caso di richiesta complessa, dovendo essa far fronte alla “necessità” della prova e alle “esigenze di economia del rito”, connotati la cui elasticità e inafferrabilità è stata subito messa alla prova da un’oscillante giurisprudenza.
La Corte costituzionale ha provveduto anche questa volta, riaffermando, però, con forza, il rapporta tra costi e benefici e, quindi, la concessione del premio solo in caso di reale deflazione (cfr. sentenze n. 54 del 2002 e n. 169 del 2003).
La ricostruzione di “notizie” note e condivise ha precipua funzione, in questa sede, per individuare il terreno riformatore, gli ambiti operativi, ed i punti fermi condivisi dalla Corte costituzionale, soprattutto per mettere in campo le premesse della nuova filosofia del rito quale diritto dell’imputato e, in ogni evenienza, nel suo dominio: solo percorrendo questa via è opportuno tenere in vita il giudizio abbreviato come reale strada alternativa al dibattimento.
È questa la nuova “ordinarietà” del rito, tratteggiata nelle direttive proposte con l’obbligo del giudice di ammetterlo senza uscita – se non per volontà dell’imputato e solo nell’occasione di modificazione dell’imputazione –; con la previsione di un giudice ad acta distrettuale – anche collegiale, per i reati più gravi – secondo le direttive ontologiche della cd. competenza funzionale; con la predisposizione di idonei poteri probatori officiosi, coordinati allo stato degli atti risultanti dal fascicolo del pubblico ministero sollecitati anche dall’imputato ed, in tal caso, col riconoscimento del diritto alla prova contraria da parte del pubblico ministero; la escussione della prova ad opera del giudice per agevolare la snellezza del rito, a meno che le parti non concordino diversamente e il giudice lo ritenga opportuno in considerazione della natura della prova dichiarativa (?) secondo le regole naturali della giurisdizione a cui consegue l’appellabilità della decisione nei limiti previsti per tale tipo di impugnazione; la pubblicità del rito davanti al collegio e, a richiesta, anche di quello davanti al giudice monocratico.
Rispetto a queste linee generali l’unico ulteriore chiarimento è di natura organizzativa. La scelta della sede distrettuale per il giudizio abbreviato risponde, non solo alla logica della omogeneità di indirizzo per fasi analoghe, ma è necessitata contestualmente dai pesanti oneri del giudice dell’udienza di conclusione delle indagini e, all’opposto, dalla mancanza, nei tribunali medi e piccoli, di risorse tali da consentire un giudice ad hoc; peraltro, la composizione collegiale di tale giudice consenta l’utilizzo delle singole unità per la stessa vicenda innanzi al giudice monocratico.
Alla sintesi segue la descrizione delle singole direttive:
- i punti di cui ai nn. 1 e 2 prevedono le regole di ammissione del rito e la ripartizione della competenza tra collegio e giudice monocratico;
- i punti di cui ai nn. 3 e 4 predispongono le regole per l’udienza innanzi al giudice del rito, chiamato a dichiarare, anche, la espressa utilizzazione degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero e delle investigazioni difensive;
- i punti dal n. 5 al n. 11 descrivono le direttive in tema di ammissione della integrazione probatoria sulla scia della “non superfluità” della prova richiesta dall’imputato e dal pubblico ministero in sede di richiesta di prova contraria, nonché secondo la “necessità” deliberativa se ammesse d’ufficio dal giudice. Peraltro, il diniego del giudice non comporta pregiudizio per le parti, non per la revocabilità dell’ordinanza, ma anche perché residua ad esse specifico motivo in sede di impugnazioni;
- i punti dal n. 12 al n. 16 regolano le evenienze connesse alla modifica dell’impugnazione – possibile soltanto a seguito di attività istruttoria – vuoi sotto il profilo delle scelte strategiche dell’imputato vuoi sotto l’aspetto della competenza del giudice; nonché nel caso di scelta dell’imputato per il rito ordinario, la trasmissione degli atti al giudice competente per il dibattimento, a meno che l’imputato non faccia in quella sede richiesta di applicazione della pena ai sensi del punto 74. A questa scelta consegue l’acquisizione degli atti compiuti in sede di abbreviato al diverso giudice per il dibattimento e/o del pubblico ministero;
- i punti dal n. 17 al 19 predispongono la disciplina della prosecuzione e della conclusione del rito. La novità saliente risponde ai suggerimenti provenienti dall’Avvocatura che, in diverse occasioni, ha denunziato che causa della impraticabilità del rito per i reati meno gravi è dovuta all’irrisoria riduzione della pena che rende non appetibile il rito in questa ipotesi. Perciò è sembrato indispensabile graduare la riduzione di pena secondo segmenti geometrici più consoni ad un effettivo beneficio.

24. (Segue): il procedimento per decreto

La palese natura “inquisitoria” del decreto penale di condanna – vuoi sul fronte dell’esercizio dell’azione penale vuoi sul terreno della effettività della giurisdizione – suggeriva l’abolizione della particolare figura procedimentale anche per la esclusa partecipazione della persona offesa in tale fase.
Sennonché, l’osservazione statistica colloca questa particolare procedura al primo posto della pratica dei cc.dd. procedimenti speciali, addirittura dimostrando che essa è utilizzata per circa il 30% di tali procedimenti e che di quel dato solo il 10% è opposto.
In questa situazione ed in presenza di una elevata richiesta rivolta a tenere in vita l’utile strumento deflativo per le ipotesi di reato di minore gravità, compito della Commissione è stato quello di condurre a razionalità e coerenza sistematica il risalente istituto, facendo tesoro delle critiche della dottrina e degli “insegnamenti” giurisprudenziali, ma soprattutto delle discipline di garanzia che essa ha messo in campo per la partecipazione dei soggetti “privati” alle indagini preliminari.
Sul primo versante non può ignorarsi che l’insofferenza della dottrina verso l’istituto fu “aggirata”, già nel 1988, con il suo mantenimento nel primo codice accusatorio del Paese.
Nella Relazione a quel codice, invero, si legge: ‹‹Tra i riti differenziati rientra anche il decreto penale di condanna, a cui si richiamano, come strumento privilegiato di definizione anticipata del procedimento, pressoché tutti gli interventi nel corso del dibattito parlamentare, nonché le relazioni della Commissione Giustizia della Camera e del Senato e la relazione del ministro Martinazzoli al disegno di legge-delega, presentata alla Camera dei deputati il 21 ottobre 1983. Unitamente a queste indicazioni di fondo sulla funzione svolta dal procedimento per decreto, la linea di tendenza ad allargarne l’ambito di operatività trova espressione nell’estensione dell’istituto anche al caso di condanna a pena pecuniaria inflitta in sostituzione di pena detentiva ribadita dalla direttiva 46 della legge-delega. Non ha invece trovato accoglimento nella nuova delega la proposta, espressa in un emendamento del ministro Morlino presentato alla Commissione Giustizia della Camera il 21 febbraio 1980, di allargare l’ambito di operatività del decreto alle condanne a pene detentive non superiori a tre mesi, purché sospese condizionalmente o estinte per indulto››. Dunque, secondo quel legislatore la disciplina della legge-delega non suscitava ‹‹controversie ed esprimeva in modo univoco l’intendimento di riservare ampio spazio al decreto penale di condanna, pur senza estenderne l’ambito di operatività alle pene detentive brevi››, addirittura prevedendo ‹‹un potenziamento dell’istituto del decreto››. Questa scelta si poneva in controtendenza con il Progetto preliminare del 1978, che circoscriveva l’operatività dell’istituto ai soli reati di competenza pretoriale; epperò tale scelta apparve al legislatore del successivo decennio motivata più da una sorta di acritico adeguamento alla tradizionale portata dell’istituto che all’esistenza di controindicazioni di politica legislativa o tecnico-giuridiche; perciò egli ne predispone l’estensione ai reati di competenza del tribunale ed incentivava l’acquiescenza al decreto inserendolo nelle prospettive ‹‹premiali›› che ispirano gli altri riti abbreviati.
Il dibattito si è riacceso con la legge n. 479 del 1999, soprattutto da parte di chi riteneva che ragioni di razionalità sistemica e di eguaglianza di trattamento dovessero presiedere alla applicabilità – particolarmente in questa procedura – del nuovo istituto dell’avviso di conclusione delle indagini (art. 415-bis c.p.p.).
Sennonché, anche per i limiti interni della questione proposta, la Corte costituzionale (cfr. ord. n. 8 del 15.1.2003) non percepì il vero nocciolo della questione che si dipanava sul doppio e contestuale fronte della conoscenza del procedimento e della razionalità sistematica. Nel senso che, se si reputava necessario l’avviso per chi si approcciava al processo, a maggior ragione quello risultava dovuto per una pronuncia di condanna.
La dottrina ha letto, in questa pronuncia, un self-restraint della Corte sul terreno dell’efficienza del processo, più che una convinta condivisione della soluzione. Invero, se il terreno del diritto di difesa poteva (ma non è così) ritenersi soddisfatto dal potere di opposizione al decreto, le nuove regole per la giurisdizione – particolarmente quella del terzo comma dell’art. 111 Cost. invocata nella questione – avrebbero dovuto spostare l’ottica critica del giudice di validità delle leggi sul fronte della “partecipazione” come esigenza prioritaria e preventiva rispetto ad una pronunzia di condanna i cui effetti – il più delle volte – non sono percepiti da chi riceve il decreto.
Peraltro è innegabile la difficoltà della dottrina di inquadrare tale procedura nell’ambito della giurisdizione essendo elevato il dubbio che si tratti di un processo senza azione e/o di un giudizio senza accertamento, dal momento che la mancata “esposizione” della imputazione non fa nascere l’azione e che, nel giudizio che porta al decreto non v’è giurisdizione in senso oggettivo mancando qualunque forma – anche embrionale – di contraddittorio e di rinuncia ad esso.
Ebbene, questi insegnamenti non possono essere ulteriormente disattesi; perciò l’ottica ora si sposta sul fronte della razionalità sistematica e dell’eguaglianza delle opportunità partecipative alla vicenda-processo, reso possibile sfruttando la previa conoscenza della vicenda ed il consenso dell’“imputando”.
Così ricavato il principio-guida per la tenuta accusatoria del nuovo istituto, i terreni di elezione non potevano che essere quelli:
› della informazione di garanzia – utile anche per la conoscenza delle prospettive operative del pubblico ministero da parte della persona offesa –, che consegna alla persona sottoposta alle indagini il “dominio” sul decreto nella fase preliminare alla richiesta, potendolo evitare accedendo alla proposta oblativa del pubblico ministero. Peraltro, la pluralità di itinerari paralleli alla giurisdizione, consente al pubblico ministero di rimettere le parti alla mediazione nel caso di opposizione da parte della persona offesa;
› della scelta del terreno processuale su cui far valere la pretesa definitoria: l’oblazione, prevista come ipotesi di estinzione del reato se praticata, a pena di decadenza, dopo l’informazione di garanzia onde consente la archiviazione degli atti.
Perciò il nuovo procedimento si realizza:
- nel punto 86.1 ove sono predisposti i contenuti e gli avvisi dell’informazione di garanzia per la specifica evenienza e le avvertenze dovute per gli adempimenti oblativi;
- nel punto 65.1, ove si prevede il potere del pm di chiedere al gip la archiviazione per la intervenuta oblazione;
- nel punto 68.1, ove le difficoltà dogmatiche della richiesta di decreto penale quale forma di esercizio dell’azione penale sono risolte con la formula “se non ha chiesto l’emissione di quel decreto”;
- nel punto 86 che ne descrive il procedimento per i casi predeterminati per i quali esso sarà consentito, secondo le nuove previsioni di fattispecie di reato e di determinazione, per ciascuna di esse, del “carico” sanzionatorio, col limite, però, che il decreto non possa riguardare pene irrogabili superiori a due anni o altra pena equipollente (nn. 86.1 e 86.2).
Nell’ambito di queste direttive, poi – e specificamente – è previsto: l’obbligo per il pubblico ministero di interrogare la persona sottoposta alle indagini, se questa lo chiede (n. 86.3); il potere del condannato di presentare opposizione (in un congruo termine: n. 86.6) indicando il giudice innanzi al quale la vuole rappresentare con le garanzie di difesa ed in contraddittorio anche della parte offesa, se si costituisce, per consentirgli di praticare le opportunità “premiali” in sede propria, a cui, ovviamente, seguono gli effetti specifici della procedura anche in tema di impugnazione (n. 86.4 e 86.5).

25. (Segue): il procedimento innanzi al Tribunale per i minorenni

Il dibattito sulla giurisdizione penale minorile – rinvigorito da recenti iniziative parlamentari abolitive del Tribunale per i minorenni e/o iniziative del Tribunale per la famiglia – ha solitamente evidenziato tre terreni di confronto:
› la legittimazione costituzionale di una giurisdizione specializzata per i reati commessi da minori;
› la coerenza sistematica di clausole di compatibilità, per quella giurisdizione, di talune regole fondanti il “giusto processo”;
› e, di riflesso, nella prassi, l’atteggiamento paternalistico della stessa giurisdizione, indipendentemente da un severo accertamento della responsabilità penale del minore stesso.
Sul primo terreno, la filosofia seguita nella precedente legge (n. 448 del 1988) – quella, cioè, di evitare che la vicenda penale del minore possa costituire interruzione del suo processo di formazione (già indotta da continue pronunce della Corte costituzionale a partire dal 1963 e fino alla sentenza n. 311 del 15.10.1997) – va confermata e, con essa, gli strumenti che la realizzano, quali la dichiarazione di tenuità dell’offesa; la messa alla prova; la definizione consensuale del processo prima del dibattimento (prevista con successiva legge). Anzi, a questo punto è noto che la difficile sperimentazione di tali strumenti – soprattutto della messa alla prova – ha dato ridotti risultati a causa di inadeguate strutture collaterali a cui è indispensabile provvedere –, eppure tali da consentire l’adozione di quegli strumenti in via ordinaria e non solo per i processi a carico di minori.
Per questo, vi sono ragioni di sistema più profonde che rafforzano quella filosofia e – con le correzioni dovute – ne impongono la continuità.
La previsione dell’art. 27 comma 3 Cost., se quanto al sistema penale ha prodotto un ricco ed articolato dibattito in tema di funzione della pena e robuste critiche alle tesi monocratiche e polifunzionali fino alla teoria della polidimensionalità istituzionale – dibattito qui non ripetibile –, quanto alla giurisdizione ha avuto residuale attenzione se si escludono isolati riferimenti – soprattutto da parte della “nuova difesa sociale” – ai naturali riflessi, su di esso, del progetto costituzionale previsto nella disposizione. La causa di tale disinteresse va ricercata nel bisogno di mantenere inalterata la funzione di accertamento del processo e, in ragione di esso, dei compiti punitivi del giudice in chiave di retribuzione, unico criterio di garanzia per la certezza del diritto, per la comparazione tra fatto e pena e per il rispetto dei bisogni di eguaglianza del trattamento.
Su questo fronte la legge n. 448 del 1988 dimostrò attenzione e coraggio, assumendo nel processo per i minorenni le esigenze di “recupero”, essendo, questi soggetti, portatori dell’ulteriore diritto alla formazione: evitare che il processo penale potesse incidere sul complesso iter formativo del minore fu la logica su cui si attestò quel legislatore e dalla quale l’odierno legislatore non può discostarsi se vuole coltivare coerenza costituzionale.
Peraltro, la singolare particella “per” acquista forza espressiva nel caso dell’esercizio della giurisdizione penale minorile, perché affida compiti di inserimento nel processo di formazione del minore anche della vicenda penale secondo la logica del recepimento – da parte del minore – della “lezione” che la vicenda stessa fornisce. Perciò il giudice minorile è (=deve essere) espressione di una pluralità di sapere e di esperienze; perciò le decisioni – anche sulla libertà personale – vanno assunte da giudice collegialmente rappresentativo di quei saperi e di quelle esperienze.
Gli altri terreni – coerenza sistematica e prassi – si combinano tra loro, denunciando la caduta del primo e, quindi, l’affievolimento della funzione primaria del processo a causa di una cultura “buonista” coltivata come esigenza prevalente nel processo per i minori proprio in ragione del bisogno di coltivare particolare attenzione alla formazione della persona.
Per rimuovere questa “cattiva abitudine” la scelta topografica appare indispensabile: l’attrazione della legge per il processo a carico di minori nel corpo codicistico vuol significare il recupero delle istanze del “giusto processo” anche in quel contesto e la presupposta validità dei principi e delle regole processuali anche in quel giudizio.
L’operazione è rinforzata sul primo terreno dalla previsione tassativa delle situazioni processuali incompatibili con l’esercizio della giurisdizione minorile e/o con la predisposizione di regole “speciali” coerenti con la filosofia che ispira l’intervento legislativo. E ciò, anche perché la clausola contenuta nell’attuale art. 1 del d.leg. n. 448 del 1998, affidando al giudice ampio potere discrezionale, sembra essere stata causa delle “deformazioni” innanzi denunciate. Perciò, oggi, è di automatica applicazione al processo innanzi al Tribunale per i Minorenni qualsiasi disciplina non espressamente esclusa o che risulti incompatibile con le finalità della “speciale” giurisdizione.
Peraltro, l’osservazione delle forme più gravi di criminalità minorile ha indotto la Commissione a discutere la proposta di sottrarre al Tribunale per i minorenni il giudizio su reati di particolare gravità commessi da minori di età compresa tra i 16 e i 18 anni.
Come si sa, in altri Paesi, anche Europei, i sistemi adottati di solito affidano a quel Tribunale la valutazione della gravità del fatto e, quindi, l’attribuzione di competenza a questo e/o a quel giudice.
L’ipotesi non è praticabile nel nostro Paese in presenza della rigida clausola dell’art. 25 comma 1 Cost.; tant’è che le forme di modifica della precostituzione del giudice – mai quanto alla competenza per materia, ma solo in specifiche ipotesi di “competenza funzionale” – sono affidate alla volontà della parte (= imputato) e legittimamente predisposte in tema di “naturalità” per particolari procedimenti (si pensi al giudizio abbreviato).
Per cui nel caso il Parlamento – a cui naturalmente ed opportunamente si rimette la questione per la sua elevata politicità – dovesse ritenere praticabile tale ipotesi, l’unica strada perseguibile sarebbe quella della prederminazione dei casi per i quali lo “spostamento di competenza” è consentito.
Su queste premesse si innestano le direttive di delega, delle quali le prime due (n. 87.1 e 87.2) ne esprimono la sintesi. Peraltro, l’esclusione della praticabilità del decreto penale di condanna e della citazione diretta a giudizio a seguito di arresto in flagranza e/o fermo rispondono proprio al bisogno di evitare processi nei quali non risulta possibile la osservazione della personalità del minore.
La novità del punto 87.3 è costituita dalla necessaria partecipazione della difesa – intesa nella più ampia latitudine – alle operazioni di osservazione della persona.
A tale previsione segue (n. 87.4) – naturalmente – l’attribuzione del potere di sospensione del processo per l’espletamento di quelle attività, a cui – altrettanto naturalmente – segue l’effetto della sospensione della prescrizione.
Il contenuto dei punti 87.5; 87.6; 87.7; 87.8 e 87.15 – peraltro ripetitiva di esperienze legislative e giudiziarie risalenti – si esplica da solo.
Saliente novità è costituita dal punto 87.9. Riconosciuta tendenziale facoltatività dell’adozione di misure coercitive a carico di minori – che, peraltro, il legislatore delegato dovrà specificare con opportune novità di forme secondo la logica della graduazione ed in ovvia presenza dei presupposti e delle condizioni previste in via generale – segue la previsione della collegialità – togata e laica – del giudice, sfuggendo la vicenda, in questo caso e per le ragioni dette, ai profili meramente tecnici. Questa collegialità mista del g.i.p. a cui è presentata la richiesta, , nel caso di specie, è necessariamente indipendente dalla scelta circa la analoga situazione prevista per il processo “ordinario”. Ad essa naturalmente segue la inappellabilità – in qualsiasi forma – del provvedimento, non la sua ricorribilità, per i casi di violazione di legge.
Il punto 87.10 indica la necessità di predisporre termini di “custodia” diversi da quelli previsti in via ordinaria, tenuto conto, anche, dell’età del minore.
I punti n. 87.11 e 87.12 adeguano alla vicenda minorile i poteri del giudice dell’udienza di conclusione delle indagini.
Il punto 87.13 modifica il regime “ordinario” di impugnazione dei provvedimenti emessi nella sede ora richiamata, prevedendo, in mancanza di consenso, la opposizione innanzi al Tribunale.
La particolare collocazione dei punti nn. 87.14 e 87.15 sembra destinare le direttive alla predisposizione dei poteri del giudice del dibattimento; il che è esatto quanto alla prima, essendo essa regola generale per l’udienza di conclusione delle indagini (cfr. n. 68). Epperò, l’indirizzo della seconda non può non valere anche per il giudice di quella udienza, indipendentemente dalla richiesta ordinaria dei “premi”. La differenza si giustifica in ragione della filosofia dello “speciale” procedimento. Invero, in questo caso, il consenso alla definizione anticipata attiva, in caso di condanna, il circuito della fuoriuscita del minore dal processo e la maggiore “clemenzialità” sanzionatoria.
L’ultimo punto – il n. 87.18 – prevede la istituzione di uno speciale casellario giudiziario nel quale far confluire anche le decisioni sulla “tenuità dell’offesa” e sulla “messa alla prova” utilizzabile all’interno del Tribunale per eventuali ulteriori vicende processuali. Le annotazioni ivi contenute confluiranno, poi, nel casellario giudiziario generale – secondo le regole di questo – solo quando il minore abbia compiuto i 18 anni di età.

26. (Segue): il procedimento innanzi al giudice di pace

La legge 21 novembre 1991 n. 374, istitutiva del giudice di pace, conteneva anche una delega al Governo in tema di competenza e procedimento penale che avrebbe dovuto essere attuata entro il 30 settembre 1994 ma alla quale – com’è noto – non venne fatto seguire un testo normativo delegato non tanto per l’estrema genericità dei principi e dei criteri direttivi che vi erano espressi quanto per l’incognita delle strutture giudiziarie, che avrebbero dovuto essere funzionali e serventi alla riforma, e per la diffusa preoccupazione che la magistratura onoraria non fosse allora adeguatamente preparata al nuovo compito.
L’idea – guida che vi si leggeva in filigrana,ovvero che bisognasse intraprendere un percorso di costruzione di una nuova funzione giudicante che potesse corrispondere alla crescente domanda di giustizia penale accelerando la risposta del sistema, si tradurrà poi – com’è altrettanto noto – nella nuova legge delega 24 novembre 1999 n. 468 e nel conseguente decreto legislativo 28 agosto 2000 n. 274 che, senza contraddire la prassi di sanzionare penalmente quei comportamenti ritenuti lesivi di interessi particolarmente significanti, fecero fronte sul piano ordinamentale ai bisogni di ragionevole durata del processo.
L’attribuzione di competenze penali al giudice di pace, ancorché condizionata dalla ricerca di una riduzione quantitativa dei carichi di lavoro della magistratura ordinaria, non è stata – pertanto – il derivato di una negoziazione riduttiva ma, al contrario, il prodotto di una impostazione di studio e di un confronto politico positivamente orientati a costruire un disegno strutturale e procedurale capace di assicurare un compiuto governo del processo penale.
Sono queste, in estrema sintesi, le ragioni per le quali la Commissione – a voti unanimi – ritiene irretrattabile la chiamata al proscenio del giudice di pace che si pone, infatti, come centro irrinunciabile di un disegno organizzativo che voglia dare concretezza, con soluzioni strutturali mirate e con armonie procedurali complessive, ai valori costituzionali della ragionevole durata del processo, della obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale e del buon impiego della magistratura onoraria rispettivamente previsti dagli artt. 111, 112 e 106 Costituzione.
Nella ricerca di una stretta corrispondenza tra tali distinti precetti ed il modello organizzativo del processo, il mantenimento di un potere di cognizione penale in capo al giudice di pace è – dunque – assolutamente strategico in funzione della salvaguardia di tali valori che sono stati, per troppo tempo, largamente disattesi.
Molteplici e convergenti, guardando a ritroso, le cause di tanta divaricazione tra le ragioni della giustizia e le esigenze del cittadino.
La magistratura ordinaria, già schiacciata dalla generale propensione a privilegiare lo strumento processuale penale anche per la risoluzione di controversie che meriterebbero invece d’essere composte nella sede loro propria, è stata chiamata a misurarsi con un crescente allargamento dell’area del penalmente rilevante; alla crescita dei diritti delle parti nel processo, conseguenza diretta dell’approdo ad un modello accusatorio, non è stato fatto corrispondere un adeguato potenziamento dei servizi; la magistratura onoraria, per un certo ritardo culturale nel liberarsi d’un passato nel quale era stata chiamata unicamente ad un ruolo di supplenza, ha continuato ad essere subalterna rispetto a quella ordinaria.
Da questo punto di vista, il passaggio di competenze penali dal tribunale monocratico al giudice di pace si propone – dunque – come rimedio di ragione che conferisce concretezza a tali valori costituzionali rifuggendo, peraltro, dai vizi opposti di un passato nel quale l’affanno continuo della magistratura ordinaria ed il vuoto organizzativo delle risorse amministrative venivano di regola mascherati affidandosi all’effetto placebo delle ricorrenti amnistie.
L’allargamento della platea degli organi giudicanti, con l’innesto di un giudice di pace da tempo sperimentato sul campo e largamente presente sul territorio, non potrà pertanto non avere che una ricaduta positiva sulla tenuta complessiva del sistema consentendo quelle accelerazioni di cui abbisogna.
Il congruo numero di affari penali attribuiti alla cognizione della magistratura onoraria e la simmetrica deflazione dei carichi di lavoro di quella ordinaria sono gli indicatori di direzione, in altri termini, di una recuperata attenzione per una giustizia penale, meno virtuale e più puntuale, fondata sui principi inscindibili della obbligatorietà dell’azione penale e della ragionevole durata del processo nella mancanza di effettività dei quali si riassumono larga parte dei problemi dell’amministrazione della giustizia.
L’attribuzione di un potere di cognizione penale al giudice di pace, sebbene imposto dalla insostenibilità di una situazione che era precipitata per il venir meno delle ricorrenti amnistie, è stata, nell’anno 2000, un ritaglio di efficienza del sistema processuale perché la moltiplicazione degli organi giudicanti ha certamente giovato, e non poco, all’esercizio concreto dell’azione penale ed ai tempi di durata del processo.
Abiurare tale scelta di politica legislativa, proprio oggi che se ne cominciano ad apprezzare i risultati positivi (il giudice di pace assorbe circa un quarto del contenzioso penale ed i tempi di definizione dei processi incardinati davanti alla magistratura ordinaria hanno fatto significativi passi in avanti), sarebbe invece un ritaglio di nebbia che riporterebbe il sistema ad un tempo in cui il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale era più di facciata che reale, la durata dei processi lasciava sostanzialmente indifferenti, la visibilità della magistratura onoraria era oscurata dalla negazione di una competenza penale.
Ed è proprio per questa ineliminabile funzione di supporto alla giurisdizione penale che è parso opportuno l’inserimento della normativa sul procedimento innanzi al giudice di pace all’interno del corpo codicistico, in tal modo volendosi riconoscere l’appartenenza della materia alla procedura penale e rimarcare la necessità che, pure in un contesto procedimentale semplificato, le regole fondamentali della giurisdizione hanno pregnante valore innanzi a quel giudice.
Il gruppo di lavoro si è interrogato a lungo sulla precisa linea di confine tra reati da riservare alla cognizione del giudice ordinario e reati da fare migrare al giudizio del giudice di pace ed è pervenuto, per passaggi successivi, alla conclusione che la competenza di quest’ultimo debba essere circoscritta a quelle sole fattispecie di reato per le quali, secondo le indicazioni formulate de iure condendo dalla Commissione Pisapia per la riforma del diritto penale, la pena edittale prevista sia diversa, anche in via alternativa, da quella detentiva o interdittiva.
L’opzione iniziale, ossia di individuare lo spartiacque nei reati perseguibili a querela, è stata fatta cadere, nonostante si trovasse in asse con la naturale vocazione del giudice di pace alla funzione conciliativa, sulla base della considerazione che alla procedibilità a querela non sempre è fatto corrispondere, dall’ordinamento penale, quel trattamento sanzionatorio di attenuato rigore che legittima il ricorso alla magistratura onoraria e che trova la sua radice normativa nel divieto costituzionale, fatto ai magistrati onorari, di svolgere funzioni diverse da quelle attribuite a giudici singoli (art. 106, comma 2, Cost.).
Allo stesso modo, è stata valutata negativamente l’ipotesi di temperare l’ampiezza di una tale apertura ricorrendo al correttivo del riferimento normativo, in chiave di tassatività, dei reati procedibili a querela da attribuire alla cognizione del giudice di pace. Decisiva ed assorbente, in questa direzione, è stata la constatazione che è in corso di elaborazione, da parte della stessa commissione di riforma del Codice Penale, la rivisitazione delle fattispecie di reato e che quindi sarebbe venuto meno, per questa via, ogni utile ancoraggio normativo di riferimento.
E’ stata, insomma, l’impraticabilità di una soluzione diversa ad imporre il criterio direttivo qui enunciato; ma alla insoddisfazione per il modo in cui ci si è arrivati non corrisponde un’eguale insoddisfazione per il risultato finale che ha infatti enucleato un criterio direttivo dai contorni rigorosamente specifici e ben definiti.
Il profilo che vi si coglie, non diversamente da quanto oggi emerge dalla attuale legge di riferimento, non è dunque quello di un giudice di pace ripiegato sulla conciliazione di micro-conflittualità individuali ma quello di un giudice al quale potranno essere attribuite, indipendentemente dal fatto che siano procedibili d’ufficio o a querela, quelle fattispecie alle quali l’ordinamento riconnette un modesto disvalore sociale della condotta facendovi corrispondere le meno afflittive delle sanzioni penali (secondo lo schema Pisapia soltanto quando possa trovare applicazione o una pena pecuniaria o una pena c.d. prescrittiva).
Non è – allo stato – possibile stimare con sufficiente attendibilità l’incidenza deflattiva del criterio direttivo qui proposto anche se pare possa ragionevolmente escludersi quell’arricchimento delle competenze penali del giudice di pace che era stato auspicato nella relazione di accompagnamento al decreto legislativo 28 agosto 2000 n. 274.
Ed è proprio questo il risultato che si vuole qui determinare con l’anzidetto criterio direttivo nella consapevolezza che sia poco istituzionale sottrarre, nel nome di una esasperata deflazione, l’attribuzione dei reati di maggior gravità ad un organo giudicante fortemente professionale.
Nel passaggio dal vecchio al nuovo ordinamento giudiziario sono andati travolti quei poteri di indirizzo che la disciplina paranormativa (prima) e l’art. 6 del decreto legislativo 19 febbraio 1998 n. 51 (dopo) avevano intestato al CSM in ordine alla organizzazione degli uffici del pubblico ministero.
L’assetto degli interna corporis della Procura della Repubblica è oggi, in forza del decreto legislativo 20 febbraio 2006 n. 106, rimesso al responsabile apprezzamento del Procuratore; ed il risultato che ne è derivato è stata la perdita di un modello organizzativo unitario e comune a tutti gli uffici requirenti.
Su questa constatazione di fatto, ritiene la Commissione necessaria l’adozione, presso ogni Procura della Repubblica., di una articolazione interna che si occupi, in via esclusiva, dei reati attribuiti alla cognizione del giudice di pace facendo così corrispondere, ad un modello di procedimento e di processo tutto diverso da quello previsto per il giudizio ordinario, una struttura organizzativa specializzata.
Non viene messo in discussione, per questa via, il potere direttivo del Procuratore che è, più semplicemente, chiamato ad una specifica assunzione di responsabilità attraverso la costituzione di una articolazione interna che è inderobagile ma rispetto alla quale egli mantiene ogni ampio margine operativo tanto in ordine alla quantificazione delle unità necessarie quanto alla individuazione degli addetti.
E’ conservato, nel contempo, l’essenziale contributo offerto dai “delegati del Procuratore” (art. 50 decreto legislativo n. 274/2000) anche se il loro impiego viene circoscritto alla sola partecipazione alle udienze con esclusione, conseguente, di ogni loro coinvolgimento nella fase delle indagini.
Viene meno – così – il potere di richiedere l’archiviazione e di esprimere parere in ordine alla ammissibilità del ricorso immediato al giudice, oggi riconosciuto ai soli vice procuratori onorarti dalla lettera b) del citato art. 50; ed a tanto la Commissione si è determinata sulla considerazione che il passaggio relativo al mancato promuovimento dell’azione penale sia troppo forte per potere essere sottratto alla magistratura professionale.
La partecipazione dei delegati del Procuratore alle udienze non è più peraltro, come nel presente, sottratta ad ogni regola ma rigorosamente circoscritta alla sopravvenienza di difficoltà organizzative che non consentano la partecipazione in udienza dei magistrati del pubblico ministero.
E’ stata riscritta – da ultimo – la griglia dei “delegati del Procuratore” apportando, rispetto alla disciplina oggi vigente, due esclusioni e tre nuovi ingressi.
La rinuncia all’utilizzo del personale in quiescenza della polizia giudiziaria, reso oggi possibile dalla specifica disposizione contenuta nell’art. 17 del decreto legge 27 luglio 2005 n. 144 (convertito in legge n. 155/05), deriva da due constatazioni: la prima è che siffatta sperimentazione, alla prova dei fatti, è largamente fallita per la mancata previsione di quella indennità di udienza che è invece riservata a vice procuratori onorari (art. 4 decreto legislativo 28 luglio 1989 n. 273); la seconda è che la polizia giudiziaria in quiescenza dal almeno un biennio perde, con il passare degli anni, quella professionalità di cui era portatrice ed al cui mantenimento non ha interesse non potendo più essere chiamata a tale nuovo compito in coincidenza con il quinto anno dalla quiescenza stessa.
La rinuncia all’utilizzo in udienza dei laureati in giurisprudenza che frequentino il secondo anno delle scuole di specializzazione per le professioni legali ha, invece, altra ragion d’essere: la loro professionalità, ancora acerba proprio perché in via di formazione, è controindicata rispetto ad un processo accusatorio nel quale l’egalitè des armes non è certo assicurata dalla presenza fisica delle parti ma dalla sperimentata capacità di sapere argomentare le proprie ragioni.
Sono queste le considerazioni di fondo che hanno orientato la commissione a consigliare di chiamare al ruolo di pubblico ministero d’udienza, in aggiunta ai soggetti che già vi partecipano davanti al tribunale, altre tre categorie professionali: ufficiali di polizia giudiziaria addetti alla sezione di polizia giudiziaria, laureati in giurisprudenza che abbiano di già conseguito il diploma di specializzazione presso una scuola per le professioni legali, laureati in giurisprudenza ammessi al patrocinio davanti al tribunale di un circondario diverso.
I primi sono infatti portatori di una professionalità che si alimenta e cresce nel quotidiano, i secondi hanno completato il loro percorso formativo, i terzi hanno consuetudine concreta con il processo.
I principi ed i criteri direttivi pensati dalla Commissione sullo specifico versante delle indagini preliminari riproducono l’orditura oggi vigente sulla cui positiva sperimentazione unanime è stata la valutazione che se ne è data.
Salvo che il pubblico ministero non ritenga di compierle direttamente, di assumerne la direzione ovvero di delegare un singolo atto, le indagini preliminari saranno compiute, d’iniziativa e con piena titolarità, dalla polizia giudiziaria del circondario del giudice competente per il giudizio che ne riferirà l’esito al Procuratore della Repubblica.
Le indagini peraltro, simmetricamente a quanto è stato previsto per i reati attribuiti alla cognizione del giudice ordinario, andranno compiute entro un termine predeterminato che sarà rapportato ai ridotti tempi che sono solitamente indispensabili per l’accertamento dei reati riservati al giudizio del giudice di pace con due specifiche avvertenze: l’inutilizzabilità degli atti d’indagine compiuti successivamente allo spirare del termine finale e la preclusione, pe la polizia giudiziaria, di procedere ad atti irripetibili senza preventiva autorizzazione del pubblico ministero.
La decorrenza del termine per le indagini non potrà, d’altra parte, non tener conto del fatto che la inutilizzabilità intende sanzionare una inerzia investigativa. Il termine iniziale sarà fatto pertanto decorrere, quanto ai reati perseguibili d’ufficio, dalla conoscenza del fatto mentre lo stesso termine, quanto ai reati per i quali è prevista una condizione di procedibilità, farà il suo corso a far data dal sopraggiungere di questa.
La naturale vocazione del giudice di pace alla conciliazione ed i ristretti tempi di indagine qui previsti, non diversamente da quanto codificato dalla normativa attualmente vigente, ostano all’ingresso di misure coercitive ed all’applicabilità delle norme relative all’udienza preliminare ed all’incidente probatorio (l’approdo al dibattimento, filtrato attraverso un passaggio intermedio, sarebbe inevitabilmente rallentato mentre le cogenti esigenze di assunzione della prova sono salvaguardate da un iter procedurale che consente l’immediato affaccio alla sede propria del giudizio).
A conclusione delle indagini, e semprechè non debba essere richiesta archiviazione, vien fatto obbligo al pubblico ministero di esercitare l’azione penale entro un anno, computato nei modi già descritti, dall’inizio delle indagini stesse.
Le pressanti esigenze di semplificazione, che sono coessenziali al modello accusatorio, giustificano l’innesto di uno strumentario che sia capace di imprimere il massimo di snellezza e di essenzialità all’iter del procedimento e di porre un arresto a quel reticolo largo di inciampi che ne zavorrano l’ordinato svolgimento.
Governare il processo, in funzione della salvaguardia della sua ragionevole durata, significa dunque chiudere i varchi dei tanti tempi morti, che sono tra i fattori più devastanti del cattivo funzionamento del processo, rimuovendo così ogni possibile occasione di rallentamento.
Il processo deve essere – cioè – aperto alla tutela di quei valori e di quegli interessi che meritano di essere salvaguardati e sviluppati ma chiuso, al tempo stesso, a tutte quelle istanze nelle quali non sia riconoscibile la dovuta condivisione di una corretta dinamica processuale.
In questa direzione viene previsto l’obbligo per il querelante di dichiarare o eleggere domicilio ai fini delle notificazioni e di comunicarne ogni mutamento facendone derivare l’improcedibilità dell’azione tutte le volte in cui la polizia giudiziaria, che è tenuta a sentirlo a conclusione delle indagini per verificare l’attualità del suo interesse alla definizione del procedimento, non abbia potuto citarlo nel domicilio dichiarato o eletto per negligenza a lui addebitabile.
Nella stessa direzione, e muovendo dalla constatazione che la ingiustificata assenza del querelante alla prima udienza dibattimentale ovvero a quella di discussione finale sia indice certo del fatto che alla iniziale rappresentazione di una domanda di tutela non corrisponda più un interesse alla sorte del processo, viene fatta corrispondere la rinuncia all’azione.
L’assenza del querelante per tali udienze dibattimentali, nelle quali viene esperito il tentativo di conciliazione tra le parti e vengono discusse le ragioni dell’accusa e della difesa, non è infatti muta ma assai significativa.
In quel vuoto si coglie e si apprezza - in verità - il riflesso esteriore di un sopravvenuto distacco rispetto alla iniziale istanza di punizione e quindi alla sanzionabilità del fatto.
La vocatio in iudicium – salvo quanto sarà detto più avanti – viene affidata ancora una volta ad un decreto di citazione che dovrà essere emesso entro un anno dalla effettiva acquisizione della notizia di reato e che conterrà tanto l’imputazione quanto l’avviso del deposito degli atti di indagine compiuti.
Tale duplice indicazione non è “di contesto” ma significativa di un attaccamento di fondo ai “diritti nel processo” e di una certa peculiarità del rito processuale davanti al giudice di pace.
Il rinnovato richiamo alla formulazione del capo di imputazione vuole infatti rimarcare, anche per i reati di minore allarme sociale, il diritto dell’imputato a sapere non soltanto il contenuto dell’accusa ma soprattutto a conoscerlo in forma chiara e comprensibile mentre il riferimento all’avviso di deposito degli atti di indagine compiuti assolve ad una esigenza di parità tra difesa ed accusa privata perché imputato e persona offesa potranno “difendersi provando” venendo messi a conoscenza, in uno stesso arco temporale, dell’attività investigativa espletata.
La specifica peculiarità del rito processuale si riflette, invece, nella mancata codificazione, nel momento del passaggio dal procedimento al processo, di quella udienza di conclusione delle indagini che è invece prevista, o in via ordinaria o su richiesta dell’imputato tratto a giudizio con citazione diretta, per i reati attribuiti alla cognizione del giudice ordinario (direttive 68.1 e 83.2).
Sospeso tra discontinuità e conservazione è stato – nello stesso tempo – il confronto sulla individuazione del soggetto chiamato ad emettere il decreto di citazione.
In questa direzione, è stata presa in considerazione l’ipotesi di sottrarre al pubblico ministero la titolarità del decreto di citazione e di affidarla al giudice di pace; in particolare il pubblico ministero avrebbe esercitato l’azione penale presentando una richiesta di rinvio a giudizio, completa di imputazione, al giudice di pace territorialmente competente per il giudizio sul quale sarebbe stato quindi trasferito l’onere di emettere il decreto di citazione e di incaricarsi delle necessarie notificazioni.
In favore di un tale decentramento è stata segnalata la confluenza di interessi generali e particolari: la ripartizione dei decreti di citazione tra i tanti giudici di pace del circondario si sarebbe tradotta in una accelerazione nei tempi di fissazione delle udienze e, al tempo stesso, in un più equilibrato riparto dei carichi di lavoro tra Procure della Repubblica ed Uffici del giudice di pace.
E’ prevalsa, all’esito di un lungo ed articolato dibattito, la soluzione di tenere ferma la titolarità del decreto di citazione in capo al pubblico ministero sul rilievo che il rimedio del decentramento sarebbe per un verso illusorio, non potendo assicurare nel concreto l’auspicata accelerazione, e per altro verso eccessivamente oneroso per le limitate risorse amministrative di cui ogni ufficio del giudice di pace solitamente dispone.
La formazione progressiva del decreto di citazione con il concorso di due distinti soggetti (un pubblico ministero che propone richiesta di rinvio a giudizio ed un giudice di pace che trasferisce l’imputazione ivi contenuta in un decreto di citazione a sua firma) è sembrata infatti pericolosamente aperta a ritardare la vocatio in iudicium per via dei “tempi morti” che le comunicazioni tra uffici che hanno sede in realtà territoriali diverse e tra loro distanti (con la sola eccezione del giudice di pace del capoluogo del circondario) solitamente comportano e per la duplicazione di attività che ne sarebbe derivata dovendo il giudice di pace riprendere dalla richiesta di rinvio a giudizio del pubblico ministero i dati essenziali per la citazione (generalità delle parti e loro domiciliazione, imputazione, indicazione dei difensori già nominati) e trasferirli nella vocatio in iudicium.
I carichi di lavoro – d’altra parte – non sarebbero stati egualmente ripartiti dovendo gli uffici del giudice di pace farsi carico, come si vedrà più avanti, della citazione conseguente all’esercizio dell’azione privata accordata alla persona offesa per i reati perseguibili a querela.
La prassi ha mortificato la innovazione più significativa del decreto legislativo n. 274/2000 che ruppe, prevedendo il c.d. il ricorso immediato al giudice, il monopolio dell’azione penale con una opportuna lettura “innovativa” dell’art. 112 Cost. che ha trovato indiretta conferma nella ordinanza della Corte costituzionale n. 381 del 7 ottobre 2005 dichiarativa della inammissibilità della questione di costituzionalità sollevata dai giudici di pace penale di Osimo e di Napoli per asserita violazione del predetto art. 112.
Il segnale non fu allora colto dalla dottrina né valorizzato dalla giurisdizione nonostante la relazione, con manifesta chiarezza, affermarsse che “una delle innovazioni più significative ( anche sul piano generale) introdotta dalla delega” è quella di autorizzare il privato “pur con alcuni temperamenti relativi all’informazione del pubblico ministero finalizzata ad un suo eventuale intervento a promuovere direttamente il giudizio in materia penale, così evocando la figura dell’azione penale privata”.
Il corsivo della Commissione e rimarca i segnali non completamente compresi né recepiti e ciò perché, allora, tra una soluzione decisamente orientata verso quell’istituto, che comportava l’insorgere di una vera e propria imputazione per volontà privata, si preferì di “contemperare i benefici di speditezza per l’interessato e di deflazione del carico di lavoro dell’organo pubblico, assicurati dall’iniziativa del privato, con le insopprimibili esigenze del controllo preventivo del pubblico ministero anche a garanzia dei diritti di difesa”.
Il felice “azzardo” oggi va portato a compimento:l’azione penale privata innanzi al giudice di pace è la naturale potenzialità operativa per i reati a prevalente contenuto di conflitto intersoggettivo.
Su queste premesse, il largo favore per il modello accusatorio, che costituisce la matrice culturale di riferimento dell’impianto codicistico, ha convinto la maggioranza della Commissione, al cui interno plurime sono state le voci di dissenso, a spingersi oltre il c.d. ricorso immediato al giudice, oggi disciplinato dagli artt. 21 e seguenti del decreto legislativo n. 274/2000, dando spazio ad un’azione penale esercitabile dal privato. In particolare, e limitatamente ai reati procedibili a querela, è stato così previsto che la persona offesa possa, in alternativa con la possibilità di continuare a rivolgersi agli organi statuali (polizia giudiziaria e pubblico ministero) per la verifica della fondatezza della notizia di reato, esercitare l’azione penale, con il ministero di un difensore e con contestuale deposito degli atti di investigazione eventualmente compiuti, secondo un modello di citazione speculare a quello dettato per il promuovimento dell’azione penale da parte della mano pubblica.
Sono note, al riguardo, le obiezioni di principio e di opportunità sulle quali si è fatto leva in passato per contrastare il riconoscimento di questa bipolarità tra accusa pubblica e privata: l’elevazione a dignità costituzionale del principio di officialità e obbligatorietà dell’azione penale del pubblico ministero escluderebbe in radice la coesistenza di un’azione penale privata perché la costituzionalizzazione di un tale obbligo assumerebbe il significato di una legittimazione monopolistica statuale ad agire per la repressione del reato; l’azione penale privata sarebbe superflua e pericolosa perché diverrebbe fatalmente, ove non accompagnata da un forte senso civico, mezzo improprio di pressione quando non di intimidazione, strumento per soddisfare ritorsioni e vendette, occasione per accrescere la litigiosità dei consociati.
Sul primo versante, ritiene la Commissione, in ciò confortata dalla Corte costituzionale che ha in più occasioni affermato come la previsione di azioni penali sussidiarie e concorrenti rispetto a quella obbligatoria del pubblico ministero non si ponga in contrasto con il precetto costituzionale, che il dogma del monopolio pubblico dell’azione penale risenta di una sorta di esasperazione della tradizione storica ma non trovi corrispondenza nella Carta costituzionale.
Decisivo, in questa direzione, è l’esame dei lavori del Costituente. E’ noto, infatti, come nell’art. 101 del progetto di Costituzione stesse scritto che “l’azione penale è pubblica”; ed è altrettanto noto come, in accoglimento del rilievo per il quale una tale puntualizzazione non era necessaria apparendo invece opportuno rimettersi alle scelte del legislatore ordinario, la formulazione definitiva dell’art. 112 della Carta costituzionale si sia fatta carico di tali osservazioni rimuovendo il riferimento testuale alla natura esclusivamente pubblica dell’azione penale (“il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”).
La comparazione tra il testo del progetto e quello della formulazione definitiva fa risaltare, in altri termini, il chiaro arricchimento della prospettiva dell’azione penale privata se solo si consideri come il baricentro della norma si sia spostato dalla originaria previsione di un monopolista pubblico, contenuta nell’art. 101 del progetto, alla sola costituzionalizzazione della negazione di una qualsiasi facoltà discrezionale in capo al pubblico ministero.
Sembra poter dire, pertanto, che l’art. 112 della Carta costituzionale abbia affermato l’obbligatorietà ma non l’esclusività dell’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero e che non vi siano pertanto controindicazioni, d’ordine costituzionale, per l’apertura ad un’azione penale mossa dalla persona offesa.
A valle di tale passaggio, la direttiva qui illustrata si è fatta carico, peraltro, della seria preoccupazione per il possibile uso pretestuoso dell’azione penale privata prefigurando tre correttivi alla irragionevole volontà di procedere della persona offesa. E’ stato infatti previsto che la richiesta di citazione a giudizio venga presentata al giudice di pace con il ministero di un difensore, ch’essa debba essere notificata all’ufficio del pubblico ministero per le eventuali iniziative di quest’ultimo, che il giudice emetta decreto di citazione previa trascrizione del capo di imputazione.
Comune a tali contrappesi non è una logica di contenimento, che tradirebbe nei fatti l’apertura al nuovo modello di vocatio in iudicium, ma di serietà e quindi di corretto esercizio dell’azione penale attraverso la codificazione, in rapida sequenza, di tre distinti momenti valutativi della attendibilità del fatto – reato riferito dalla persona offesa.
La previsione obbligatoria del ministero di un difensore assolve alla funzione di individuare una figura professionale, liberamente scelta e quindi di fiducia della persona offesa, che valuti l’esposizione dei fatti avuta da questi e che quindi sappia orientarlo responsabilmente nella scelta di procedere o meno; l’onere di notificare al pubblico ministero la richiesta di citazione a giudizio dell’imputato vuole assicurare un successivo momento valutativo, questa volta affidato ad un soggetto istituzionale, finalizzato a segnalare al giudice ragioni ostative, di merito o di rito, al passaggio alla fase del giudizio; il dovere del giudice di emettere il decreto di citazione, previa trascrizione dell’imputazione formulata dalla persona offesa, non lo esonera affatto, in applicazione dei principi generali, dal dovere di emettere sentenze di assoluzione, di non luogo a procedere, di applicazione di cause estintive del reato, quando ne ricorrono le condizioni nella fase antecedente alla emissione del decreto di citazione.
Così ricostruita l’azione penale privata, il tratto distintivo che la distingue dall’attuale ricorso immediato al giudice di pace è rappresentato dal fatto che il pubblico ministero perde il potere di interdire il passaggio dal procedimento al processo, rifiutando di formulare quel capo di imputazione che è oggi essenziale per l’esercizio dell’azione penale, ed arretra su una posizione consultiva (peraltro non obbligatoria ma facoltativa) in ordine al corretto esercizio dell’azione penale.
Queste che si scorgono in superficie sono naturalmente differenze di struttura; ma è anche vero che la diversità di struttura è dominata dalla diversità del risultato che se ne vuole far derivare.
La finalità dichiarata del ricorso immediato al giudice di pace era quella di alleggerire i carichi di lavoro investigativi della polizia giudiziaria e del pubblico ministero sicchè la sua struttura organizzativa si arrestava inevitabilmente sulla soglia del processo.
La finalità dell’azione penale privata è, invece, quella di assicurare speditezza processuale sicchè la sua struttura è stata costruita per rimuovere i possibili ritardi del pubblico ministero nel determinarsi in ordine all’esercizio o meno dell’azione penale.
Il mutamento che se ne coglie è sensibile. L’azione penale privata si colloca infatti su una posizione di frontiera più avanzata rispetto al ricorso immediato al giudice perché viene fornito alla persona offesa uno strumento processuale che vuole garantire, per i casi in cui per lo stesso fatto non abbia già proposto querela (electa una via, recursus ad alteram non datur), un rapido accesso al giudice per la tempestiva verifica della sua pretesa punitiva.
Il dibattito che ha preceduto e seguito la legge istitutiva della giurisdizione penale di pace ha messo in luce la peculiare funzione di questi, solo in superficie rientrata deflattiva del carico giudiziario “ordinario”.
Ed infatti, nella Relazione di accompagnamento al decreto legislativo n. 274/2000 è sottolineato che il “processo, in parte inevitabile, di ampliamento dell’area penalmente rilevante ha comportato una progressiva divaricazione tra le ragioni della giustizia e le esigenze del cittadino comune, che lamenta una intollerabile lentezza, quando non addirittura un deficit della risposta dello Stato”. Perciò si ritenne che “la dislocazione sul territorio del giudice di pace in uno con la sua caratterizzazione professionale costituiranno un riavvicinamento della collettività all’amministrazione della giustizia anche nel delicato settore del diritto penale” che, proprio per l’attribuzione della competenza penale al giudice di pace, acquista e realizza “la nascita di un diritto più leggero, dal volto mite e che punta dichiaratamente a valorizzare la conciliazione tra le parti come strumento privilegiato di risoluzione dei conflitti”.
In questo contesto appariva opportuno e doveroso l’ampliamento delle funzioni della giurisdizione penale per aprirne le prospettive alle nuove potenzialità dell’art. 27 comma 3 Cost., facendo ricadere in diverse forme di giurisdizione – conciliativa e riparatoria; non mediativa, come si è detto – il programma costituzionale ed un più penetrante ruolo della vittima nella giurisdizione panale.
Ed invero, nella richiamata Relazione veniva evidenziata “la peculiare funzione conciliativa dell’udienza di comparizione… valorizzata appunto prevedendo nei casi di reati perseguibili a querela un intervento compositivo ad opera del giudice di pace, tenuto a procedere al tentativo di conciliazione delle parti private, finalizzato alla remissione della querela”; anche perché – si disse – “l’attribuzione diretta dell’attività di conciliazione al giudice – anziché al pubblico ministero, parte processuale, alla quale dunque sembra difficile riconoscere un reale ruolo di mediazione – è ora prevista in via ordinaria nel procedimento dinanzi al giudice monocratico ed appare particolarmente congeniale alla natura ed alla vocazione proprie del giudice di pace”.
Il sintagma “giudice di pace” – d’altra parte – è un costrutto politico, ancor prima che giuridico, che sta a significare la specificità che quest’organo di giustizia assume nel quadro dell’ordinamento attraverso la combinazione del dovere del giudicare con quello del promuovere la conciliazione tra le parti.
All’interno di tale qualificazione soggettiva, il riferimento alla “pace” non è infatti neutrale ma significativo dell’innesto, sul tronco della funzione propria dello ius dicere, dell’eguale compito di adoperarsi per la composizione dei conflitti tra privati.
Giudicare e conciliare sono – in altri termini – due aspetti intrecciati di un certo modo di costruire la funzione del giudice di pace che non possono non illuminare la disciplina processuale di riferimento che ne deve essere quindi il necessario riflesso.
Sono queste – dunque – le ragioni per le quali, sebbene nell’ottica della riforma il potere di mediazione venga sottratto alla giurisdizione ed attribuito ad un organo terzo appositamente a ciò predisposto (direttiva 2.4), risulta indispensabile tenere in vita un potere di conciliazione del giudice di pace indipendentemente dal fatto che i soggetti abbiano o meno percorso la via della mediazione.
In particolare, viene previsto che, alla prima udienza di comparizione, il giudice di pace abbia l’obbligo di procedere al tentativo di conciliazione tra le parti presenti.
A tale bidirezionalità funzionale, nella quale la ricerca di pacificazione costituisce un prius rispetto alla trattazione del merito, vien fatta corrispondere una tempistica che fa propria l’indicazione costituzionale di ragionevole durata del processo.
Al tentativo di conciliazione tra le parti, che deve essere necessariamente promosso ed orientato dal giudice con la sola esclusione dei reati di mera condotta, è riservata unicamente la prima udienza di comparizione perché la concentrazione dell’esperimento in tempi stretti e l’ufficialità che l’ammanta rendono il segno della serietà dovuta a quel tipo di approccio anche se le parti potranno comunque provare a conciliarsi in sede extragiudiziaria ed in costanza del processo.
Alla trattazione del merito, conseguente al fallimento della conciliazione, è invece riservato, tenendo conto di eventuali cause di sospensione necessaria del dibattimento un tempo di dodici mesi che viene stimato congruo per pervenire alla decisione.
La sanzione di prescrizione processuale dell’azione penale, che viene prevista per lo sforamento di tale tempo massimo di conclusione, si confida possa dispiegare effetti largamente positivi sulla durata del processo: calmiererà certamente i rinvii immotivati, accorcerà i tempi tra un’udienza e l’altra, chiamerà il giudice ad una maggiore assunzione di responsabilità nella gestione dei tempi e delle cadenze del processo.
La direttiva n. 88.8, seconda parte, prevede una “ridefinizione delle ipotesi di connessione che tenga conto della particolare natura dei reati devoluti alla cognizione del giudice di pace” ed esprime, nella sua laconicità, una rigida scelta di campo ed una altrettanto chiara linea di indirizzo alla quale conformare la disciplina delegata.
All’interno di tale formulazione, la chiave di lettura è rappresentata dal lessico “ridefinizione”, che infatti allude ad una “rivisitazione” e mai comunque ad una “negazione”, ed al suo accostamento alla particolare natura dei reati di competenza del giudice di pace.
E’ stata così rifiutata, affidandone il messaggio alla “ridefinizione”, l’opzione di escludere sempre e comunque una possibile migrazione, dal basso verso l’alto, dei reati attribuiti alla cognizione del giudice di pace, in applicazione delle regole che governano la connessione c.d. eterogenea, perchè una tale rigida separatezza è controindicata per ragioni di economia processuale (duplicazione di procedimenti e possibili contrasti tra giudicati).
Ed è stata rifiutata, nello stesso tempo, e sempre in punto di connessione eterogenea, l’idea opposta di consentire un flusso a maglie larghe perché il risultato che ne deriverebbe sarebbe un sostanzioso svuotamento di competenze del giudice di pace i cui reati verrebbero sistematicamente attratti dal tribunale o dalla Corte di Assise.
Il dovere di coniugare il riposizionamento della connessione eterogenea con la particolare natura dei reati del giudice di pace indica – pertanto – un canale di passaggio assai stretto perché il simultaneus processus travolgerebbe inevitabilmente il tentativo di conciliazione che consegue a quella scarsa offensività che è contrassegno certo dei reati attribuiti alla cognizione del giudice di pace.
Sul versante, al contrario, della connessione c.d. omogenea, ovvero tra reati attribuiti alla cognizione di giudice di pace territorialmente diversi, la rivisitazione delle regole generali sarà orientata unicamente da esigenze di celerità e di speditezza processuale.
Il processo penale punta certamente ad accertare se un fatto costituente reato è realmente accaduto e se a porlo in essere è stato il soggetto cui esso è attribuito,. Codesto non è però il fine esclusivo del processo penale davanti al giudice di pace perché il giudizio, tanto nella vigente legislazione che nel presente schema di legge – delega, ne costituisce lo sbocco obbligato solo nella misura in cui sia fallito il tentativo necessario di conciliazione tra le parti venute in conflitto.
A questa specificità non ha corrisposto – fin qui – una adeguata regolamentazione della meccanica processuale perché l’assunzione delle prove dichiarative, in linea con un modello accusatorio imperniato sul concetto di lite, è rimasta nella signoria dei soggetti che ne hanno fatto richiesta i quali possono assumerle direttamente ovvero rimetterne il compito al giudice di pace che può infatti provvedervi soltanto “sull’accordo delle parti” (art. 32 decreto legislativo n. 274/2000).
Ritiene la Commissione – al contrario – che costruire l’intervento del giudice di pace nell’assunzione della prova orale secondo una logica di subalternità, rispetto alla volontà delle parti processuali, sia insufficiente a definire e rendere il ruolo di promotore della composizione del conflitto che egli è chiamato a svolgere, nonostante il fallimento del tentativo fatto alla prima udienza di comparizione, fino alla soglia del giudizio.
L’innovazione, rispetto al presente, è racchiusa in quella parte della direttiva laddove è detto “prevedere che l’acquisizione di prova dichiarativa sia condotta dal giudice”; e tale formulazione, lungi dal testimoniare di un certo recupero del modello inquisitorio, altro non è se non il dovuto riconoscimento ad un contesto scenico che deve rimanere lontano, senza con questo decampare dalla ricerca della verità, da certe esasperazioni delle tonalità che la prassi ha in più occasioni offerto.
Rimettere l’assunzione delle prove orali al giudice di pace non significa, pertanto, che egli ne diventa il centro motorio o, peggio, che egli possa incidere sull’accertamento della verità; significa, molto più semplicemente, che i temi di prova introdotti dalle parti saranno assunti, attraverso il filtro di un giudice che non rimane spettatore passivo, in un contesto che rifiuta l’esasperazione della contesa e che, proprio per questo, rimane sempre aperto a spazi di conciliazione.
Quelle fin qui riassunte sono state linee di scrittura di una disciplina che ha una portata derogatoria rispetto alle norme processuali previste in via generale le quali troveranno pertanto applicazione anche al procedimento ed al processo davanti al giudice di pace nella misura in cui il loro ingresso non sia impedito per ragioni di sistema ovvero espressamente negato, anche quando potrebbero avervi applicazione, da specifiche esclusioni.
E’ questo, in estrema sintesi, il significato della direttiva “prevedere che, in quanto compatibili, si osservino le disposizioni del codice di procedura penale con esclusione di quelle relative alle misure personali coercitive, all’udienza di conclusione delle indagini, al giudizio abbreviato ed all’incidente probatorio” che infatti delinea e descrive una orditura complessa, ma non ambigua, che trova nei principi che regolano il concorso apparente di norme il suo modello astratto di riferimento e che riprende quindi la tecnica legislativa del vigente art. 2 decreto legislativo n. 274/2000.
In quest’opera di misurazione delle concordanze e delle differenze, il solo istituto processuale che ne rendeva obbligata la menzione era l’incidente probatorio dovendo l’inapplicabilità delle misure personali coercitive, dell’udienza preliminare e del giudizio abbreviato già cogliersi dal sistema; ciò nondimeno la Commissione ha ritenuto opportuno richiamarle espressamente per escluderle, in radice, possibili querelles interpretative.
La praticabilità dell’incidente probatorio, che in considerazione della tipologia dei reati attribuiti alla cognizione del giudice di pace sarebbe stato comunque del tutto eccezionale, è stata negata sul duplice rilievo che la direttiva 88.2 assicura intanto il compimento di atti irripetibili da parte della polizia giudiziaria e che l’esigenza di tempestiva assunzione delle prove, per ragioni diverse dalla irripetibilità, è largamente salvaguardata dai tempi stretti della fase investigativa e dall’immediato approdo al dibattimento che il procedimento davanti al giudice di pace comunque consente specie a seguito dell’innesto dell’azione penale del privato.
Se è vero, in altri termini, che la funzione propria dell’incidente probatorio è quella di evitare che possano andare dispersi mezzi di prova in ragione dei tempi lunghi che solitamente separano la fase investigativa da quella del giudizio, tale pericolo è già escluso dalla peculiarità di un procedimento che consente di arrivare al dibattimento in tempi assai ravvicinati e non apprezzabilmente diversi da quelli tecnici occorrenti per innescare e completare lo svolgimento dell’incidente probatorio stesso.
Ragioni di sistema ostano invece all’ingresso di misure limitative della libertà personale perché queste, già controindicate rispetto ad un giudizio che punta al superamento dei conflitti, non sono comunque coniugabili con quel modesto disvalore sociale della condotta che la collettività solitamente correla ai reati attribuiti alla cognizione del giudice di pace.
Da questo punto di vista, la direttiva 3.4, attribuitiva della cognizione al giudice di pace, non è soltanto un criterio di riparto della competenza per materia tra giudice professionale e giudice onorario ma anche un indice di dichiarata ostilità alla coercibilità della libertà personale.
Il profilo basso di sanzione possibile, sospeso tra comminatoria di pene pecuniarie e pene prescrittive, esclude invero già da sé l’applicabilità delle pene detentive ed assume il valore di anticipazione di un rifiuto sistemico di misure coercitive personali che poi si coglie nei passaggi successivi.
L’inizio anticipa cioè la conclusione e questa, alla fine, si ricollega ad esso. Il trattamento sanzionatorio dei reati del giudice di pace esprime infatti un criterio organizzativo completo che non prevede il sacrificio della libertà personale (direttiva 3.4) e questa scelta di politica legislativa si riflette nel successivo divieto di arresto in flagranza e di fermo, implicitamente espresso nelle direttive 43.3 e 43.4, nella conseguente impercorribilità del rito direttissimo perché questo presuppone un arresto (direttiva 85.1) e nel conclusivo divieto di applicazione di misure coercitive personali richiamato expressis verbis nella presente direttiva.
Ancora più rilevante, per segnare le differenze, è la mancanza della udienza di conclusione delle indagini che deriva ancora una volta, prima che dall’esplicito divieto fattone nella presente direttiva, dall’imprinting autenticamente accusatorio del modello di processo penale davanti al giudice di pace e dalla diversa modalità di esercizio dell’azione penale rispetto ai reati tipici del giudice ordinario.
La trasferibilità dell’udienza di conclusione delle indagini dal processo ordinario a quello davanti al giudice di pace non può invero trarsi dalla direttiva 68.1 perché qui essa è strutturata come passaggio obbligato limitatamente alle vicende per le quali l’azione penale è stata promossa con richiesta di rinvio a giudizio; e non la si può neppure fare derivare dalla direttiva 83.2 che, quanto ai casi di citazione diretta davanti al tribunale monocratico, non la prevede infatti come regola ma soltanto in linea eventuale in quanto condizionata ad espressa istanza dell’imputato e comunque preordinata unicamente ad un giudizio con rito abbreviato ovvero a richiesta di condanna o di applicazione della pena.
Lette in comparazione, la direttiva 83.2, da una parte, e le direttive 88.4 e 88.5, dall’altra, forniscono una rassicurante chiave di lettura: in applicazione del canone ermeneutica ubi voluti dixit, ubi noluit tacquit, il sistema mostra chiaramente di avere rifiutato l’applicabilità dell’udienza di conclusione delle indagini ai processi davanti al giudice onorario perché, dopo averla menzionata nella citazione diretta davanti al tribunale monocratico, non ha fatto altrettanto per le citazioni dirette davanti al giudice monocratico di pace promosse dal pubblico ministero e dalla persona offesa.
Le ragioni di sistema che si oppongono ad una diversa lettura hanno, oltretutto, radici più profonde: posto in verità, che l’eventuale udienza di conclusione delle indagini a richiesta dell’imputato dovrebbe inevitabilmente introdurre una richiesta di condanna o di applicazione della pena (non anche il giudizio abbreviato perché questo è escluso espressamente dalla direttiva qui esaminata) verrebbe meno ogni spazio per il tentativo obbligatorio di conciliazione che trova infatti la sua sede propria solo e soltanto nella udienza di prima comparizione al dibattimento e che è strategicamente servente al superamento dei conflitti interpersonali e quindi ad un tipo di giustizia che sia più vicino ad interessi quotidiani del cittadino.
L’esplicito divieto di udienza di conclusione delle indagini fatto nella direttiva non è peraltro pleonastico ma indicativo, in modo indiretto, della inapplicabilità dei riti c.d. alternativi che sono infatti azionabili solo in quel contesto e che vengono così esclusi perché incompatibili con la necessità doi assicurare un’adeguata tutela delle ragioni della persona offesa ed una pubblica occasione di confronto.
Il meccanismo di proroga delle indagini (direttiva 62.2) non è, nel sentire della Commissione, compatibile con la direttiva 88.2 che prevede infatti un primo termine (da definire, ma congruo) concesso alla polizia giudiziaria per lo svolgimento dell’attività d’indagine assunta d’iniziativa e la possibilità, per il pubblico ministero, di disporre le integrazione egli approfondimenti necessari entro il termine ultimo di un anno dalla acquisizione della notizia di reato.
Nella sua semplicità, la legge 30 luglio 1990 n. 217, istitutiva del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti, esaltava il necessario rapporto fiduciario tra patrocinante e patrocinato prevedendo che le parti private che vi erano ammesse, per avere un reddito inferiore ad una certa soglia di povertà, potessero nominare un difensore scegliendolo tra gli iscritti all’albo professionale del distretto di Corte di appello nel quale aveva sede il giudice davanti al quale pendeva il procedimento (artt. 1, 3 e 9 della legge).
Veniva data – così – una prima seria attuazione al precetto costituzionale espresso dal terzo coma dell’art. 24 Cost. e venivano create, al tempo stesso, le premesse per successivi adeguamenti e sviluppi che in effetti sopraggiunsero con l’art. 17 della legge 29.3.2001 n. 134 (successivamente trasfuso nell’art. 81 del Testo Unico 30 maggio 2002 n. 115 sulle spese di giustizia) che assicurava una alta professionalità dei patrocinatori potendo la scelta cadere unicamente su avvocati che avessero una anzianità professionale non inferiore a sei anni e che si fossero mostrati interessati a tale tipo di incarico dandone la disponibilità all’ordine professionale di appartenenza che li inseriva in un apposto elenco.
Il fatto che tale disciplina abbia passato il vaglio di costituzionalità, vincendo le riserve che la volevano lesiva del diritto di scegliere liberamente il proprio difensore senza la previsione di una soglia minima di anzianità professionale (Corte costituzionale, sentenza n.299/02) e la presa d’atto della avvenuta riduzione dello sbarramento a soli due anni dall’iscrizione nell’Albo degli Avvocati (art. 2 della legge n. 25/05) non possono d’altra parte essere di ostacolo, in una sede in cui la disciplina processuale viene interamente ridisegnata, ad una riconsiderazione dell’istituto e quindi alla ricerca di requisiti di anzianità meno elevati di quelli attualmente previsti.
In questa direzione, ritiene la Commissione che non distinguere tra processo ordinario e processo davanti al giudice di pace e quindi applicare meccanicamente a questo una regola che è stata pensata e impostata nei suoi fondamenti quando la attribuzione di competenze penali al giudice di pace non era ancora entrata in vigore (2 gennaio 2002), significhi in qualche misura guardare al nuovo attraverso la lente deformante del passato.
La riserva della difesa a spese dello Stato ai soli avvocati iscritti all’albo professionale da almeno due anni giova infatti a far comprendere quanto ad un processo penale fortemente tecnico serva una difesa che renda effettiva e credibile il patrocinio ma assai meno vale a far capire il perché una eguale prestazione di qualità non possa essere garantita, in un giudizio di pace che oltretutto punta alla conciliazione più che alla definizione del merito e nel quale si dibattono comunque vicende minori, anche da laureati in giurisprudenza abilitati da almeno un anno al patrocinio davanti al Tribunale monocratico e quindi per fattispecie di reato per le quali il trattamento sanzionatorio è più afflittivo di quello previsto per i reati attribuiti alla cognizione del giudice di pace.
L’iscrizione all’Albo da almeno un biennio è garanzia, in altri termini, di una partecipazione di qualità offerta al non abbiente nel processo ordinario nel quale le strategie processuali richiedono sperimentate esperienze ed assoluta padronanza delle regole processuali che governano la fase delle indagini preliminari ed i riti alternativi. Una eguale previsione anche per il processo davanti al giudice di pace, nel quale la fase investigativa è molto semplificata ed i riti alternativi addirittura assenti, assumerebbe al contrario il significato di travestimento dotto di una conventio ad escludendum priva, in quanto tale, di sostenibile ragionevolezza.
Non secondaria, in questa stessa direzione, è la ricaduta positiva per le sostanze dell’erario che certamente deriverebbe dall’apertura qui suggerita: gli onorari ed i diritti previsti dalla tabella forense recepita dal D.M. giustizia 8.4.2004 n. 127 sono infatti ridotti della metà (art. 7 del D.M. citato) per i praticanti ammessi al patrocinio, con conseguente risparmio di una voce di spesa che incide in modo crescente sul bilancio del Ministero della giustizia.
All’interno di una direttiva così necessariamente aperta (“predeterminazione dei casi di inappellabilità delle sentenze del giudice di pace”) e la cui sorte attuativa dipende da come sarà normato il giudizio di appello in generale, ritiene la Commissione che l’individuazione dell’organo giudicante in un giudice collegiale si lasci preferire ad un giudice singolo (oggi è il tribunale monocratico) anche per evitare che possa accadere che l’intero giudizio di merito, ove il giudice del gravame dovesse essere impersonato da un giudice onorario di tribunale, rimanga interamente affidato alla magistratura non professionale.
Sul punto, anzichè guardare alla Corte d’appello la cui sede è solitamente così lontana dal giudice di prima istanza da rendere virtuale il mezzo di gravame, misura organizzativa congrua appare l’individuazione del giudice di secondo grado nel tribunale collegiale del circondario in cui ha sede l’ufficio del giudice di pace che ha emesso la sentenza.
Quanto al resto, la banda sonora è – certo – appena percettibile ma il segnale della direttiva è sufficientemente chiaro: evitare che possa esserci sovrapposizione tra la disciplina dell’appello avverso le sentenze del giudice ordinario e quelle del giudice di pace, come sarebbe stando a quanto previsto dalla terza preposizione della direttiva 88.8, e quindi limarne il campo di applicazione in ragione dell’esigenza di semplificazione contenuta nella direttiva 1.7.
A tal riguardo, in applicazione del c.d. principio di soccombenza, l’appello andrebbe riservato alla parte non vittoriosa: l’imputato non potrà pertanto appellare le sentenze che non si sostanzino in un verdetto di condanna mentre pubblico ministero e persona offesa che ha esercitato l’azione penale privata potranno appellare unicamente le sentenze che abbiano mandato l’imputato esente da pena.

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  • Avv. Vincenzo Comi

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