La rassegna di dottrina e giurisprudenza del Corso nazionale di formazione specialistica dell'avvocato penalista organizzato dall'Unione delle Camere penali italiane in collaborazione con il Centro per la formazione e l'aggiornamento professionale degli avvocati del Consiglio Nazionale Forense.

3 settembre 2007

Relazione al nuovo codice di procedura penale (Commissione Riccio) ; parte prima .

da santamariagiustizia.it
RELAZIONE

SOMMARIO: 1. La genesi della riforma in senso accusatorio del Codice di Procedura penale. – 2. Il primo approccio ai nuovi bisogni di riforma del Codice. – 3. Le ragioni della scelta a favore della legge-delega. – 4. La modifica genetica del processo e le più recenti cause della crisi della Giustizia. – 5. Le ragioni di natura “politica” ed il nuovo art. 111 della Costituzione. – 6. La “deriva giudiziaria” quale effetto delle decisioni della Corte europea dei Diritti dell’Uomo. – 7. L’acculturamento sulle categorie fondamentali del processo quale premessa ontologica dell’opera riformista. – 8. Le linee generali del nuovo impegno di riforma. – 9. Il valore garantista delle regole per il processo. – 10. Il modello logico “potere-atto-scopo” quale premessa per la determinazione del sistema sanzionatorio processuale penale. – 11. La prescrizione processuale. – 12. La giurisdizione. – 13. Gli atti. – 14. La prova. – 15. La libertà personale. – 16. Le indagini preliminari. – 17. (Segue): il coordinamento investigativo. – 18. Azione penale ed archiviazione. – 19. L’udienza di conclusione delle indagini. – 20. (Segue): le implicazioni decisorie: applicazione di pena concordata e condanna su richiesta. – 21. I giudizi: il dibattimento. – 22. (Segue): le altre forme di giudizio: considerazioni preliminari. – 23. (Segue): il giudizio abbreviato. – 24. (Segue): il procedimento per decreto. – 25. (Segue): il procedimento innanzi al Tribunale per i minorenni. – 26. (Segue): il procedimento innanzi al giudice di pace. – 27. Il regime delle impugnazioni. – 28. Il giudice della pena. – 29. I rapporti giurisdizionali con autorità straniere: princìpi generali in tema di cooperazione a fini di giustizia penale. – 30. (Segue): l’assistenza giudiziaria. – 31. (Segue): l’estradizione. – 32. (Segue): il riconoscimento di sentenze penali di altri Stati ed esecuzione all’estero di sentenze penali italiane. – 33. (Segue): l’attuazione del principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie nei rapporti con gli altri Stati membri dell’Unione europea.

1. La genesi della riforma in senso accusatorio del Codice di Procedura penale

La riforma – alla fine degli anni ‘80 – del Codice di Procedura penale – pur in un clima di resistenza istruttoria soprattutto da parte di taluni “operatori” – realizzò un’opera rivoluzionaria nella misura in cui realizzò la netta rottura con una tradizione ultracentenaria di continuità inquisitoria.
Ebbene, ripercorrere le tappe di quell’itinerario riformista – sia pure in sintesi – può sembrare eccessivo e superfluo in questa sede, rivolta ad una radicale revisione di quel Codice e, quindi, concentrata sul rilevamento delle cause strutturali del suo “fallimento”. Epperò, mettere a fuoco quel percorso, il dibattito che lo sosteneva e le consequenziali realizzazioni normative appare utile – non solo in punto di metodo – per cogliere lo stato della cultura giuridica sul tema e le radici di talune resistenze sull’opera in corso.
Avvertito immediatamente dopo l’emanazione della Costituzione, il bisogno riformista era sostenuto da una situazione intellettuale che alimentava le esigenze del “garantismo difensivo” e da una Corte costituzionale, che sin dai primi anni di vita, non perdeva occasione per segnalare l’eccessiva fragilità del tasso di tutela dell’individuo nel processo penale e la incerta presenza dei modi di esercizio dei diritti procedurali dell’imputato.
Invero l’impatto del Codice del 1930 con la Costituzione – alla fine degli anni ‘40 – fu devastante ed avviò riflessioni “parallele” sulla funzione del processo e sulla necessità di por mano alla modifica delle strutture per la realizzazione dei diritti della persona imposte dall’entrata in vigore del nuovo Statuto; invertendo, questo, il rapporto Stato-individuo, eguale inversione doveva essere realizzata per tutelare nell’ordito codicistico le situazioni soggettive procedurali.
Peraltro, l’idea di riscrivere il Codice di rito penale nacque, anche, dall’attribuzione allo Stato di compiti solidaristici. La Costituzione, approdata all’idea secondo la quale lo Stato “riconosce” i diritti di cui è portatore l’individuo, segnò, nella sua prima parte, le garanzie minime per la tutela della persona nel processo penale, che la dottrina successiva portò ad unità razionale racchiusa nella formula “Preambolo penalistico della Costituzione”; formula che raccoglie le singole componenti costituzionali per costruire – e riconoscere – la filosofia di sintesi del sistema che l’Assemblea aveva coltivato.
Specificamente per quanto riguarda il Preambolo penalistico, invero, sin dai primi anni di emersione della sua funzione di sintesi dell’impegno del Costituente sui temi della procedura penale, risultò evidente: che esso manifesta una netta predilezione per il processo accusatorio contro quello inquisitorio allora vigente; che privilegia il processo partecipato contro il processo monologico del giudice; che predispone il metodo dialogico non quello monologico e che, quindi, il contraddittorio è (= deve essere) metodo cognitivo irrinunciabile nella e per la giurisdizione; che le garanzie della persona sono (= devono essere) la premessa del processo e l’obiettivo per il legislatore.
Peraltro va annotato che su questo terreno la Costituzione si riconosce nel pensiero liberale della Scuola classica. Invero, a leggere, tra altre, le pagine di Francesco Carrara è decisa la denunzia «per l’”insano” consenso alla legislazione francese» dell’epoca di un insopportabile arretramento, nel codice di procedura penale, delle guarentigie di difesa, che capovolgeva la funzione stessa della procedura penale ed il senso della scienza processuale, precipuamente rivolta alla «protezione del diritto in tutti ed avverso tutti; e così anche il diritto del suddito in faccia al legislatore: ed il diritto del suddito, tanto se egli è innocente, quanto se egli è colpevole: perché anche il colpevole per essere tale non ha perduto la sua personalità giuridica; e la sua colpa lascia permanente in lui il diritto di non essere punito oltre il giusto».
Dalla “antitesi” delle due situazioni riferite, il Carrara ricavava la forza garantista della procedura penale «quando prescrive stretta adesione alle competenze; leale, completa, e tempestiva contestazione dell’accusa; temperanza nella custodia preventiva; pienezza di prove; cautele per la veridicità dei testimoni; condizioni per la legalità delle confessioni; ostracismo di ogni suggesto, di ogni frode, di ogni subdolo artifizio che possa dare al falso la sembianza del vero; critica imparziale nella valutazione degli indizi; liberissimo campo all’esercizio del patronato; favori per la difesa; forme sacramentali per la sentenza; rimedii di appello o di revisione; in una parola, da capo a fondo in quanto essa comanda come assoluta condizione di legittimità del procedimento, e del giudizio».
Sicché, il capovolgimento della premessa filosofica tra diritto e procedura rappresenta la ratio del giure penale, essendo esso rivolto ad affermare «la eccezionale qualità di colpevole in alcuno; e la necessità dell’affermazione conduce alla necessità di un affermatore».
Peraltro, questa dimensione filosofica della procedura ed il fine politico delle forme procedurali acquistano convergente direzione – anche rispetto al ruolo del giure penale – di rasserenare “la fiducia pubblica” intorno alla giustizia del giudicato, che non è altro che «la fiducia nella sapienza ed integrità dell’uomo che giudicò, e questa può non aversi da tutti; ma quando le forme furono osservate, la fiducia pubblica ha un cardine razionale in siffatta osservanza».
Emerge, così, nel pensiero di Carrara – in forma embrionale – il ruolo sociale della legalità del processo, che condivide la dimensione garantista del rito procedurale con la presunzione di non colpevolezza.
In siffatto contesto assumono significativa pregnanza i temi della imputazione, della contestazione dell’accusa e della prova, che costituiscono, poi, la spia del sistema a cui Carrara aderiva, e, allo stesso tempo, la originalità del suo pensiero in materia. Esemplificando, quanto alla imputazione, il Carrara soleva dire che «nel cerchio del fallo commesso [dal reo] e nel rapporto della meritata repressione costui è un colpevole; ma rispetto al di più di colpa che gli si vuole apporre, o al di più di castigo che a lui vuolsi infliggere, esso è innocente, ed in questa sua innocenza relativa ha sacro il diritto ad essere difeso; e fa opera di giustizia chi lo protegge». Per cui «lo studio delle regole relative alla più esatta definizione del titolo, niente giovando a sottrarre il delinquente dalla pena veramente meritata, saranno dettate e praticamente invocate a protezione di un colpevole, ma per proteggerlo nella fase della sua innocenza relativa».
L’Autore delinea, così, i momenti essenziali del giudizio penale, negli atti che, sotto uno od altro norme o forma, debbono ritrovarsi sempre nel giudizio penale: la contestazione dell’accusa; la prova; la difesa, la sentenza; condizioni essenziali alla riforma del giudizio in qualsiasi metodo esso si manifesti e che «rispondono ai quattro atti essenziali che sono impenetrabili in ogni ricerca che voglia istituirsi in conformità della buona logica – 1° esporre il dubbio – 2° raccogliere gli argomenti che possono chiarire il vero – 3° discutere gli argomenti raccolti – 4° decidere».
In questo insieme acquista sostanza la legalità delle forme. E nella progressione logica e sistematica dei quattro momenti del giudizio Carrara intravede altrettanta progressiva strumentalità, essendo, il primo contenuto e limite dell’ultimo.
Peraltro, nella versione carrariana, la contestazione dell’accusa è «la concertazione e manifestazione del problema presentato alla giustizia», momento imprescindibile che caratterizza il sistema.
La contestazione dell’accusa, cioè, «(affinché non si converta in una farisaica simulazione di rito) deve aver sempre due condizioni – 1° deve essere completa – 2° deve essere tempestiva», perché necessaria al «fine di mettere in grado l’imputato di esercitare utilmente il diritto di difesa, senza la quale mai può aversi fidanza che il giudizio criminale abbia condotto al conoscimento della verità, la quale interessa non solo al giudicabile, ma tutta la società; ed è così di ordine pubblico primario». E perciò, per Carrara, “la utilità della contestazione risiede nel fatto che essa contenga tutte le condizioni indispensabili affinché l’imputato possa opporre efficacemente i suoi mezzi defensionali a conflittare i mezzi introdotti contro di lui dall’accusa.
Dalla specificazione del contenuto, dunque, si ricava la oggettiva centralità della imputazione, intesa come descrittiva specificazione del fatto del quale il soggetto viene accusato.
Perciò, completezza della accusa e tempestività della contestazione risultano essere le caratteristiche di essenza del sistema probatorio e «[P]roclamando come necessità la prova anche nei giudizi penali, onerando di tal prova l’attore, ed elevando a dogma scientifico e pratico anche in criminale la regola actore non probante reus adsolvendus […], non lice più dubitare che la prova sia uno degli atti essenziali di cui non può fare a meno il giudizio penale. Può questo fatto della prova riuscire incompleto, ed il risultato del giudizio sarà allora l’assoluzione. Ma supporre un giudizio senza neppure un tentativo di prova, sarebbe un assunto ridicolo».
In questa circolarità tra imputazione, contestazione e prova si coglie la originalità del pensiero carrariano in materia di procedura penale. La interrelazione tra prova e giudizio – oltrechè tra accusa e difesa – connota, poi, la Scienza della Procedura di Francesco Carrara di una singolare e stupefacente modernità, spesso sottovalutate se non – addirittura – ignorata da molti autori moderni e contemporanei.
Questo humus – reso principio di essenza del nuovo Stato democratico e Repubblicano – alimentò la riforma del 1988, sostenuta da un confluente dibattito sul “garantismo difensivo”, che vinse la cultura “istruttoria”, ancora presente nel Paese, con un processo il cui punto di resistenza democratica fu costituito, appunto, dalla “regola per il giudizio”.
In retrospettiva, poi, bisogna rilevare che il capovolgimento del rapporto tra Costituzione e Codice – che storicamente ha visto la preventiva nascita di questo e, quindi, una sua successiva opera di adeguamento ai dettati costituzionali – si alimentò attraverso dubbi di illegittimità, operazione ermeneutica spesso metodologicamente compromessa dal vecchio approccio ai temi processuali.
Storicamente l’operazione si giustificava, rispetto al codice del 1930, perché lì viveva una presunzione di illegittimità costituzionale, prima, della disposizioni più marcatamente in disaccordo con la Carta e, poi, di tutto il sistema. Epperò, il fenomeno si è riproposto e – stranamente – aggravato con il nuovo Codice di Procedura penale – quello oggi in vigore – nonostante la presunzione opposta – di legittimità costituzionale – letteralmente programmata nel preambolo dell’art. 2 della legge-delega del 1987.
Ed è questa una delle caratteristiche costanti dell’esperienza processuale penale nel nostro Paese, che eleva – in questo settore – la Corte costituzionale a ruolo comprimario con il Parlamento, soprattutto quando essa, considerando i tempi della legislazione, si “avventura” sul terreno delle pronunce additive. Questa specifica funzione “politica” della Corte ed i compiti via via assunti da “giudice delle leggi” a “giudice dei diritti” la pongono al centro dell’attenzione riformatrice, non solo perché è indispensabile raccogliere gli indirizzi da essa espressi, ma anche – in prevenzione – per evitare debordamenti dalla semantica dei principi dalla stessa messa a punto.
E, dunque, se, storicamente, con la promulgazione della Costituzione entrò in crisi la filosofia del processo e, con essa, l’idea stessa di processo con istruzione e, quindi, la struttura stessa adottata nel 1930, il tema oggi è solo parzialmente difforme, anche se il Codice del 1988 realizzò un tendenziale processo di parti ed una struttura accusatoria garantita da disomogeneità fasica e dalla tendenziale centralità del giudizio.
E dunque, ricostruire le tappe di questo itinerario sessantennale significa cogliere – nei diversi contesti sociali e giuridici – le ragioni della riforma del 1987-89 e, contestualmente, la permanenza della sua filosofia e della sua struttura generale, non dei microsistemi che hanno prodotto la crisi di sistema attualmente rilevata.
Ebbene, negli anni ‘60 e ‘70 l’attenzione riformista non poteva che concentrarsi sulle linee strutturali del processo, via via prendendo atto della inconsistenza e della parzialità operativa della paventata riforma solo dell’istruzione, rivolta a garantire la presenza delle parti alle attività istruttorie, non essendo questo il luogo deputato alla dialettica probatoria, qualunque ne sia l’ “attore” e costituendo essa la mortificazione funzionale del dibattimento, relegato così a compiti residuali. Ed anche quando si faceva strada l’idea secondo cui le attività “istruttorie” avrebbero dovuto costituire appannaggio del pubblico ministero e si sarebbero dovute svolgere in contraddittorio con la difesa dell’imputato, pure allora si avvertì il senso di impotenza del dibattimento e la totale discrasia del “progetto” con più incisive e radicali proposte innovative, quale quella espressa nella cd. “bozza Carnelutti”, che ipotizzava la recisione dei rapporti tra dibattimento e fase ad esso precedente. Secondo tale ultima proposta, infatti, qualsiasi riforma avrebbe dovuto prendere le mosse da una ridefinizione dei ruoli processuali, necessaria a distinguere le attività “processuali” da quelle “procedimentali”.
Perciò, se, all’inizio, il variegato panorama di posizioni culturali e di orientamenti politici rendevano palese il bisogno di ammodernamento del processo al fine di rendere reali ed efficaci le garanzie dell’imputato – esigenze molto ben sintetizzate, ad esempio, nel Convegno svolto a Bellagio nell’aprile del 1953 – col tempo si manifestarono le due sponde del problema: da una parte si auspicava una riforma dell’istruzione di tipo accusatorio; dall’altra si sottolineava che l’efficacia del processo di cognizione dipende in prima linea dal rispetto della distinzione tra il giudice e le parti e che nel processo penale è “collaborante” con il giudice non solo il pubblico ministero ma anche il difensore.
Di qui la doppia strada: della novellazione – percorsa soprattutto sotto la spinta della Corte costituzionale – e della “riforma”, che si avviava sull’impervio cammino delle radicali modifiche di struttura, condizione indispensabile per la reale operatività dei diritti procedurali dell’individuo.
Sul primo fronte, la prima significativa riforma si ebbe con la “novella” 18.6.1955, n. 517, nel segno dell’abbandono delle scelte più illiberali del c.p.p. 1930 (soprattutto in tema di rapporti tra polizia giudiziaria e autorità giudiziaria, di libertà personale, di invalidità processuale, di impugnazioni, valorizzatrice di un deciso rafforzamento dell’autodifesa e della difesa tecnica).
Sul secondo, la dottrina più avvertita della nuova sensibilità costituzionale contrastava la pretesa intangibilità del processo con istruzione; tutta proiettata sul bisogno di effettività della giurisdizione. Essa ontologicamente negava ingresso ai diritti di difesa, di prova, di contraddittorio e, quindi, ad un “processo di parti”, che viceversa costituiva la non condivisa aspirazione della cultura giuridica post-costituzionale e, allo stesso tempo, la strada obbligata per la realizzazione del disegno costituzionale in materia.
Ma per realizzare tale progetto bisognava superare, dal punto di vista soggettivo, la concezione del pubblico ministero-parte imparziale e, dal punto di vista oggettivo, la pretesa prevalenza della potestà punitiva dello Stato – anche in chiave di difesa sociale – rispetto ai bisogni di tutela dell’individuo. La resistenza di questa idea – attestata sulla funzione allora attribuita al processo penale quale luogo privilegiato per la effettività della giurisdizione, a cui si attribuivano compiti di “lotta” al crimine; e ciò legittimava la predominanza del giudice-istruttore e la segretezza della fase di raccolta della prova – coltivava la convinzione secondo cui la tutela dell’individuo non collidesse con la struttura del processo con istruzione.
L’inversione di siffatta tendenza culturale fu affidata a due slogans, che, a distanza di tempo, rappresentano ancora oggi lo humus della cultura giuridica contemporanea: “una nuova struttura per i diritti procedurali” e “contraddittorio per la prova, non sulla prova”. Le formule costituirono, allora, la sintesi del passaggio dal diritto ai diritti e la premessa ontologica e pregiuridica del progressivo accantonamento del processo con istruzione.
Fu proprio la “bozza Carnelutti” a veicolare il versante normativo della nuova idea di processo ed a mettere in crisi la coeva cultura processuale maggioritaria. E se, all’epoca, il processo lì ipotizzato fu considerato come un’eccessiva fuga in avanti, tuttavia la “bozza” servì a “stanare” la resistente cultura istruttoria e, col tempo, ad evidenziare la progressiva debolezza e la inconciliabilità tra strutture inquisitorie e diritti della persona secondo una nuova filosofia democratica e solidaristica. Ne è testimonianza il fallimento del Progetto del 1978; che, però, non ebbe seguito perché ibrido nella struttura, debole nelle soluzioni operative, inattuale rispetto alle esperienze maturate anche sul fronte della coeva “legislazione dell’emergenza”.
L’abbandono di quel Progetto non arrestò il lento cammino riformista; anzi, di quella esperienza, rimane – ancora oggi attuale – il punto politico della questione manifestato nel preambolo dell’art. 2 della legge-delega dell’8 aprile 1974: “attuare la Costituzione; uniformarsi alle leggi sovranazionali; attuare il sistema accusatorio”.

2. Il primo approccio ai nuovi bisogni di riforma del Codice

La storicizzazione di questo programma – non compiutamente realizzato con il Codice del 1988 – è la premessa del nuovo progetto riformista. E se oggi non ci si domanda più se il codice di fine anni ‘80 determinò la radicale modifica di struttura per dare vita all’effettivo e reale esercizio dei diritti della persona e per modulare il contraddittorio sulla prova, non può negarsi che – certo non per colpa di chi ne fu intelligente artefice – esso, sul piano sociale, non ha invertito il trend della perenne crisi della Giustizia. Non può negarsi, invero, che esso fu “tradito” su più piani, qui evocabili solo per titoli, anche quali opportuni indirizzi di futuri impegni: l’abbandono della direttiva di delega che ne prevedeva due anni di sperimentazione; la resistenza, non solo culturale, rispetto ad un prodotto che interrompeva una continuità “istruttoria” ultracentenaria; la giurisprudenza costituzionale soprattutto d’inizio anni ‘90 (Corte cost., 31 gennaio 1992, n. 24; Id., 3 giugno 1992, n. 254; Id., 3 giugno 1992, n. 255; Id., 26 marzo 1993, n. 111), che innestò reazioni a catena sul fronte legislativo – anche costituzionale – che, al fine di recuperare funzionalità all’originale struttura del processo, hanno finito con alterare il sistema fino alla “doppia inquisitorietà” (vedi: le “investigazioni difensive”) ed all’inserimento di momenti di stasi processuali (vedi: “legge Carotti”); il cedimento della funzione “collaborativa” e “solidaristica” delle indagini preliminari (artt. 358 u.p.; 375; 376; 405 c.p.p.) sul piano delle prassi e, ancora a questo livello, la pratica dei maxiprocessi, la cui abolizione costituiva il punto di forza operativo di quel sistema; la debole multischematicità, aggregata sul “consenso incrociato”, non sulla “volontà della parte”.
La domanda, dunque, è quali cause – oltre quelle enunciate – e quali ragioni costringono oggi il legislatore ad operare, non un restyling del tessuto normativo in vigore, ma la radicale e totale rivisitazione del Codice. E se non v’è dubbio che le cause e le ragioni dell’attuale stato di crisi della giurisdizione sono molteplici e soprattutto di natura sovrastrutturale (e tra queste quelle di carattere organizzativo e di carenza di risorse), tuttavia esse solo in una visione strumentalmente deformata possono essere ricondotte esclusivamente a vicende esterne al tessuto normativo.
Senza pretesa di completezza, le tappe riorganizzative che hanno imposto al potere politico l’iniziativa riformista non possono non tener conto che il Codice del 1988 fu processo senza sperimentazione. Perciò, la imprevedibilità degli approdi interpretativi e pratici hanno costituito il banco di prova di una operazione codicistica rivoluzionaria e – si è detto – di radicale discontinuità col passato. Anzi, le resistenze culturali, da una parte, e la creazione di circuiti viziosi soprattutto in materia di esercizio di poteri processuali, dall’altra, hanno attivato, per un verso, una inaspettata quantità di pronunce costituzionali e, per altro verso, continui ritocchi normativi; talvolta su strutture essenziali e precipue del modello del 1988.
In linea generale e seguendo schematizzazioni di stampo tradizionale, il mancato approfondimento sistematico ha prodotto l’idea che anche il processo nato a fine anni ‘80 fosse di tipo misto, così alterando il senso normativo di talune disposizioni. Il pensiero corre alla denuncia di inquisitorietà delle cc.dd. strutture premiali (“patteggiamento” e “giudizio abbreviato”, nonostante le presenza, nel primo, del riferimento all’art. 129 c.p.p., ed, in entrambi, del potere di richiesta della parte e del consenso), ma anche dall’attribuzione al giudice di poteri probatori letti come una intromissione del giudice nella vicenda, non – come è – quali indispensabili supporti operativi per chi in ogni caso è chiamato ad emettere un giudizio, e, quindi, congeniali alla funzione.
Questo preteso connotato di “inquisitorietà” ha alimentato interpretazioni difformi e prassi devianti su cui il nuovo legislatore non può non riflettere e non solo sul terreno della tecnica normativa.
Nello specifico, poi, sul primo versante, quello degli interventi di legittimità, si ricordano le troppo note pronunce della Corte costituzionale n. 222 del 1992 e le già menzionate sentenze nn. 255 del 1992 e 111 del 1993, che elevando a regola costituzionale il principio di non dispersione della prova, hanno prodotto l’effetto di mortificare la regola del contraddittorio, che costituiva il nucleo centrale ed originale del codice nel 1998.
Sull’altro, quello legislativo – spesso indotto da quelle poco accorte pronunce costituzionali – si è realizzata una progressiva alterazione della originaria struttura processuale fino alla previsione di un binario investigativo a parti contrapposte che ha alterato il senso primario del “procedimento” peraltro senza realizzare contraddittorio.
Gli errori interpretativi, le prassi devianti e le “pretese partecipative”, alla fine, hanno stravolto il modello processuale, al punto della perdita della filosofia che lo generò, fino alla realizzazione di una opposta ma disarticolata struttura di ambigua razionalità.
In questa prospettiva si collocano l’istituzione della Procura nazionale Antimafia (d.l. n. 367 del 1991), che apre la stagione di crescita esponenziale della legislazione processuale extracodicistica, non disgiunta da un deciso rafforzamento della tendenza a prevedere una tipologia di procedimenti costruita su specifici nomina delicti, tendenza che riduce notevolmente il campo di applicazione del codice di procedura penale ed induce autorevole dottrina a parlare di “decodificazione”. Da lì a poco, invero, verranno emanati il d.l. n. 306 del 1992 e – nonostante qualche anelito in senso garantista (l. 8-8-1995, n. 332 e l. 7-12-2000, n. 397) e qualche ritorno alle linee originarie del codice 1988 (16-12-1999, n. 479), il trend percepibile è però per un livellamento verso il basso: da un lato, infatti, la normativa sul c.d. “giudice unico” (d.lgs. n. 51 del 1998) ridimensiona drasticamente la garanzia della collegialità; dall’altro, innovazioni d’indubbio rilievo quali quelle contenute nella normativa regolatrice del “giudice di pace” segnano il permanere di forme processuali, ma anche il loro affidamento ad un giudice non tecnico. Infine la normativa sul c.d. patteggiamento allargato (l. 12-6-2003, n. 134) disincentiva ulteriormente l’esperienza dibattimentale, rendendone marginali i corollari di massima garanzia e di massima espressione del rito accusatorio e spostando ancor di più il baricentro processuale sulle indagini preliminari.
Su questo terreno si misurano le testimonianze di quanti, con responsabilità istituzionale, hanno rappresentato l’attuale crisi del processo (cfr. l’audizione dei dottori Claudio Castelli e Arcibaldo Miller, in data 27-9-2006, quanto all’individuazione dei punti di crisi dell’organizzazione giudiziaria che rallentano il naturale svolgimento del processo; l’audizione del dott. Claudio Castelli, in data 28-9-2006, al fine di avere chiarimenti circa i lineamenti e potenzialità del c.d. “processo telematico”; lo stato dell’organizzazione delle cancellerie e delle segreterie; l’assetto delle notificazioni, anche nell’ottica della creazione di agenzie ad hoc; l’audizione dell’Associazione Familiari Vittime della Strage di Bologna, in data 16 novembre 2006, volta ad approfondire «il problema della considerazione delle vittime del reato nelle varie articolazioni del processo penale»; l’audizione del dott. E. Barbe, magistrato di collegamento in Italia per la Francia, in tema di rapporti giurisdizionali con autorità straniere; l’audizione dei Rappresentanti dell’Unione Camere Minorili, in data 13 marzo 2007, relativamente alle linee-guida della riforma del processo minorile e l’organizzazione del tribunale per i minori; l’audizione dei Presidenti dei Tribunali di sorveglianza di Roma, Venezia e Perugia, anche al fine di valutare i margini di “manovra” per la costruzione di un processo bifasico).
Sullo stesso versante normativo, non può non tenersi in conto la persistenza di contrasti giurisprudenziali, che, soprattutto in materia di poteri processuali, hanno disorientato e disorientano le prassi di merito e discordanti scelte in materia di utilizzabilità degli atti.
Su questo terreno, ancora, non possono ignorarsi gli effetti della mancata realizzazione di strumenti processuali idonei a realizzare – in concreto – il ruolo nomofilattico della Cassazione, causa del disorientamento rilevato in precedenza.
Ed invero, una illuministica interpretazione dell’art. 101 comma 2 Cost. – che comporta la resistenza di una irrazionale indipendenza del giudice nel tema interpretativo – ha prodotto un cedimento della Cassazione, neutralizzando la funzione del “precedente” idoneo a realizzare, contestualmente, certezza del diritto, uniformità dell’interpretazione ed eguaglianza tra cittadini.
Sul punto è bene chiarire che la premessa ontologica della istituzione della Corte di cassazione quale organo unico, collegiale e supremo ne determina la unità in ragione della specifica funzione ad essa affidata, in cui vive la ragione stessa della Corte. Epperò, se ragioni organizzative comportano la pluralità di sezioni, la “responsabilità esterna” – quanto alla funzione – è nella unità stessa della cassazione, come è stato detto applicando la teoria dei frattali, che identifica la parte col tutto.
Per questa suprema responsabilità collegiale la Sezione non può non attenersi al principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite, risultando, questo, il senso del raccordo tra funzione dell’organo e indipendenza del giudice previsto nel secondo comma dell’art. 101 Cost.

3. Le ragioni della scelta a favore della legge-delega

Ulteriore dimostrazione del bisogno riformista è dato dalla presenza in Parlamento (S 1075; C 323) di due Disegni di legge di riforma del Codice di procedura penale, quale ulteriore testimonianza della indifferibilità dell’opera di riforma.
Epperò, va chiarito – in punto di metodo ed al di là delle critiche di contenuto – che la riforma di un codice non può non essere preceduta dalla individuazione delle linee guida e dei principi ispiratori tradotti in direttive di delega, che di quell’operazione manifestino cause, ragioni, prospettive, filosofia ed impianto, proprio ai fini della comprensione del filo rosso di razionalizzazione e di razionalità del sistema.
Peraltro, la scelta del metodo è determinata dall’ampiezza dell’operazione (riforma non modifiche) e dalle cause che hanno prodotto la crisi del sistema.
Quanto alla prima, già la dottrina più accorta ne ha avvertita la necessità.
Si dice, invero, che la tardiva opera del precedente Guardasigilli – che ‹‹aveva cercato di correre ai ripari, nominando una Commissione di studio per la riforma del codice di procedura penale›› – e la ammirevole tempestività di questa non eludono la convinzione che la sola via per siffatte operazioni è quella dell’approvazione preventiva di una legge-delega modellata sui principi e criteri direttivi del progetto, destinato poi a dare corpo ai decreti delegati.
E si aggiunge che, più tempestivamente, il nuovo Ministro ‹‹ha provveduto sin dall’inizio della legislatura in corso a nominare una nuova Commissione di studio›› i cui compiti sono definiti in termini piuttosto generici: ‹‹considerato che appare indifferibile un’opera di revisione del codice di procedura penale e delle norme che disciplinano il processo dinanzi al tribunale per i minorenni ed al giudice di pace, che si orienti sul corretto equilibrio tra “giusto processo” e “ragionevole durata del processo” e che, quindi, valuti l’opportunità di ampliare le alternative al processo e al dibattimento››, si stabilisce che ‹‹quest’opera di revisione debba tener conto, inoltre, dei principi e delle norme comunitarie, nonché delle pronunce delle Corti di giustizia europee. Si impegna, perciò, la Commissione a provvedere alla elaborazione di uno schema di disegno di legge-delega e, successivamente, alla redazione del testo dei necessari decreti legislativi››.
Il mandato poggia, dunque, sull’idea guida di una revisione organica del codice, condotta con particolare attenzione ai principi introdotti dalla riforma dell’art. 111 Cost., alle fonti internazionali e agli indirizzi delle Istituzioni europee. Un lavoro da svolgere con precisi impegni di forma e contenuto.
Su questo terreno, certamente non può essere seguito l’auspicio di chi manifesta nostalgia per i soli 227 articoli della “bozza Carnelutti”: allora si scommetteva sull’affidamento al giudice al quale oggi viceversa si vorrebbe sottrarre “discrezionalità”. E, poi, il nuovo corpus ingloba – non solo per ragioni estetiche – settori della giurisdizione penale inopportunamente esclusi dal Codice. Ci si riferisce alla legge sul processo penale per i Minorenni ed a quella per il procedimento innanzi al Giudice di pace, la cui collocazione topografica risponde – nel primo caso – al bisogno di eliminare atteggiamenti paternalistici e “scorie inquisitorie” – lì sì fortemente presenti – a favore del recupero della funzione del processo penale e – nel secondo – all’ampliamento delle funzioni della giurisdizione penale e, quindi, all’esigenza di predisporre nuovi itinerari mediativi e/o collaborativi e riparatori.
Quanto all’altro profilo speculativo, non può essere ignorato che l’attuale crisi della Giustizia – anche se amplificata da avvenimenti esterni al tessuto normativo – è, come detto, in buona parte da esso prodotta, sì a causa della “legislazione della disuguaglianza” coltivata nel primo quinquennio del 2000, ma anche a ragione degli interventi novellistici prodotti alla fine degli anni ‘90.
Peraltro, a voler esaminare i settori a cui mettere mano si scorge che l’elenco è così lungo e nutrito da dimostrare, esso stesso, il bisogno di una riforma organica e complessiva. Infatti, anche per le cose che si diranno in seguito, i settori da rivedere – ma l’elencazione è viziata per difetto – sono: i modelli di giurisdizione; le “finestre di giurisdizione” durante le indagini; il sistema delle prove per far fronte alla tipizzazione di nuovi mezzi “invasivi” delle libertà della persona; la rilevabilità dei vizi di competenza, degli atti, delle sanzioni processuali, delle notificazioni e, queste, anche al fine di eliminare il processo in contumacia e, tutti, nell’ottica della realizzazione della “ragionevole durata del processo”; la procedimentalizzazione dell’avviso di conclusione delle indagini capace di far confluire, in un’unica udienza, scelte processuali e anticipazione della condanna richiesta dall’imputato, per eliminare la inattuale moltiplicazione delle procedure; il sistema delle impugnazioni; ecc., il tutto in direzione della armonizzazione tra garanzie e tempi del processo e con netta cesoia tra forme e formalismi, costituendo, le prime, il processo penale nel suo divenire e, le seconde, orpelli di facciata, ostentati nel codice fascista per coprirne l’intima essenza autoritaria (= inquisitoria).
Perciò, nelle relazioni introduttive ai lavori della Commissione l’ampiezza dell’opera è apparsa nella sua reale dimensione di contributo rivolto al chiarimento ontologico delle categorie essenziali del processo, quale indispensabili premesse per l’opera riformatrice.
Dunque, appare inopportuna e metodologicamente errata la resistenza di quella parte che contesta la scelta (Unione Camere Penali Italiane; Consiglio delle Camere penali Delibera n. 2/07 del 3.3.2007; Documento della Giunta e del Centro Marongiu sul testo del DDL Mastella su “Disposizioni in materia di accelerazione e razionalizzazione del processo penale, prescrizione dei reati, confisca e criteri di ragguaglio tra pene detentive e pene pecuniarie”. Contra Relazione del Presidente nel verbale del 2 maggio 2007): se è crisi di sistema è il sistema che va rimodulato; e se è così ne va esplicata la filosofia e la conseguente ricaduta modulare e strutturale.
Dunque è riforma e si riparte con legge-delega, unico strumento utile per riscrivere percorsi processuali efficienti nel rispetto delle garanzie dell’individuo. E deve essere delega soprattutto in ragione del mutamento della filosofia costituzionale a seguito della modifica dell’art. 111 Cost., che propone una nuova ed originale razionalizzazione del sistema-processo secondo rinnovate linee di efficienza complessiva del “pianeta-Giustizia”.
Piuttosto va chiarita la ragione di una delega così abbondante di direttive.
Essa è semplice e palese.
L’innesto delle novità in un tessuto normativo noto, diversamente dal 1987, ha imposto che la novità – anche tecnica e particolare – fosse visibile rispetto all’apparentemente omologa previsione codicistica. E poi, la Commissione ha ritenuto opportuno misurarsi sulla praticabilità della singola direttiva spingendosi sulla via della possibili traduzione normativa del principio enunciato, sì che la valutazione Parlamentare sia compiuta anche quanto allo sbocco codicistico della singola direttiva.
Certo. Il metodo restringe l’area di autonomia del legislatore delegato. Epperò esso assume pregnante valore politico proprio per quella restrizione, perché affida al Parlamento in prevenzione il dominio sul prodotto legislativo finale, che fu viceversa – in non poche occasioni – vulnerato nella interpretazione delle direttive da parte del legislatore delegato (cfr., tra le altre, Corte cost., 23 aprile 1991, n. 176).
Perciò, l’aspirazione ad un corpo normativo delegante molto sobrio – la dottrina ha già fatto riferimento ai soli 227 articoli della “bozza Carnelutti” – non si è potuta coltivare, anche perché la delega oggi accorpa contesti normativi esterni all’attuale codice (legge per il processo innanzi al Tribunale per i minorenni e per il procedimenti innanzi al Giudice di pace), arricchendosi – pure – di previsioni normative dettate da convenzioni e/o protocolli internazionali, quali, specificamente, quelli in materia di cooperazione giudiziaria.
Per questa ampiezza sarebbe auspicabile che il potere politico affermasse, in conclusione di delega, la riserva di codice, che nella fattispecie non riduce le scelte politiche future sugli itinerari processuali ma impedisce – solo – la moltiplicazione di procedure extra ordinem, causa di disorientamento giurisprudenziale e, spesso, fonte di disparità di trattamento se non di vulnera costituzionale quando ci si spinge sulla strada dell’aggiramento dei tempi della restrizione della libertà personale.
Peraltro, la riserva di codice consentirebbe al legislatore delegato di prevedere una norma transitoria e/o una disposizione di attuazione del codice che faccia pulizia dei distinguo processuali contenenti in una miriade di leggi speciali, in gran parte ignota anche ai cc.dd. operatori giudiziari.

4. La modifica genetica del processo e le più recenti cause della crisi della Giustizia

Ancora. La “storicizzazione” del preambolo delle leggi-delega del 1974 e del 1987 costituisce, contestualmente, presupposto culturale e premessa di metodo del nuovo assetto normativo perché essa si muove:
a) sul fronte delle fonti – e non solo in senso formale – che distingue il luogo dei diritti (= la Costituzione) dal luogo dei poteri (= la legge ordinaria);
b) sul fronte della politica processuale, ove l’appartenenza del Paese ad una nuova comunità (= l’Europa) chiede di adeguare alle decisioni-quadro, convenzioni, protocolli, il nostro complesso ordinamento processuale;
c) sul fronte della struttura, che richiede la tenuta del sistema accusatorio, nei suoi pre-concetti e nelle sue linee portanti. Anzi, l’identità del verbo – “attui” – sul primo e sul terzo fronte dimostra l’irremovibile contestualità tra Costituzione e sistema processuale spesso predicata proprio per attirare il processo penale – e i diritti, poteri e facoltà che lo disegnano – nell’orbita della Costituzione.
Su questo ultimo fronte, anzi, la duttilità modulare del sistema accusatorio va contrapposta alla rigidità del sistema opposto e va esaltata, costituendo essa un valore capace di adeguare le strutture normative ai bisogni del Paese ed alle mutazioni delle dinamiche sociali. Nel senso, che, pur nel rispetto della genuinità della funzione del processo come luogo dell’accertamento – non altro –, tuttavia quei bisogni e quelle dinamiche aggiornano lo strumentario operativo del processo, facendo progredire le forme dell’accertamento su più stabili novità, frutto del progresso scientifico e culturale della società. Anzi, proprio quella “duttilità” consente, oggi, di agevolare il passaggio da un “processo-parlato” ad un “processo-documentato”, fenomeno in atto ma poco coltivato dal punto di vista della produzione normativa.
La sintesi di quella storicità manifesta, ora, i bisogni riformisti e, contestualmente, la intangibilità della struttura portante del Codice del 1988 (azione vs giudizio).
Questo, in ragione di quel progetto, operò felici scelte radicalmente innovative ma dall’elevata problematicità operativa, che alla lunga non ha tenuto proprio in ragione della forza innovativa delle scelte; rispetto alle quali, poi, poco consone sono risultate novellazioni e rattoppi.
Perciò, la nuova opera, che raccoglie il testimone di quel progetto deve adeguarsi al nuovo contesto delle fonti e, soprattutto, avvalersi della “sperimentazione accusatoria” per eliminare i punti critici e le “scorie inquisitorie”, nelle quali quel codice era necessariamente e/o inevitabilmente incorso.
Invero, la raffinata opera giuridica compiuta in quegli anni (1987-1989) cercò il punto di equilibrio tra efficienza e garanzie nella moltiplicazione delle procedure, che, però, ne hanno costituito il punto di crisi, per una molteplicità di ragioni: dall’atteggiamento culturale (= molti hanno ritenuto i “riti premiali” un “ripiegamento inquisitorio”), alle premesse operative (il mito della “completezza” delle indagini, sorretta da una mai praticata idea “collaborativa” del procedimento), alla imprevedibilità degli esiti in ragione di comportamenti non sempre “responsabili” (= il dissenso del pubblico ministero) e, quindi, lo spostamento dell’asse da un soggetto (= imputato) all’altro (= pubblico ministero).
Su questi temi, peraltro, la ricerca di un più stabile punto di equilibrio è risultata vana, se le manipolazioni normative successive rappresentano oggi il più elevato punto di crisi in termini di “tempo del processo” e se, ancora oggi, il rito più pregnante (= l’abbreviato) si regge su contraddittorie sentenze additive della Corte costituzionale (n. 23 del 1992 vs n. 169 del 2003, a seconda delle evenienze, non avendo potuto, l’ultima pronuncia, tener conto del variegato panorama in cui si innesta quel rito: dal giudizio direttissimo al giudizio innanzi al tribunale come organo monocratico).
Ma esistono ulteriori cause che alimentano l’attuale crisi e che aiutano a comprendere che affrontare il tema della riforma del Codice di procedura penale non significa – solo – porsi problemi di metodo; significa approfondire le ragioni – anche sociali – che hanno spinto il potere politico ad una iniziativa solitamente epocale, che, viceversa si colloca a meno di venti anni dalla “rivoluzionaria” operazione codicistica del 1988; significa porre le premesse, di diverso genere, che deve guidare l’opera, prima ancora di tratteggiare le linee di riforma; significa – soprattutto – entrare in uno spirito di consonanza con le attese del Paese.
E per sintetizzare – ma solo per titoli –, le cause più recenti della crisi della giustizia, esse vanno ricercate:
› nel tramonto dell’eguaglianza, che ha caratterizzato la politica penale di questo Paese negli ultimi anni secondo le linee di una tentata restaurazione dello Stato liberale di stampo ottocentesco (cfr. le leggi n. 134 del 2003 (c.d. patteggiamento allargato); n. 271 del 2004 (in tema di immigrazione), n. 251 del 2005 (c.d. legge Cirielli) e n. 46 del 2006);
› nel conseguente rilancio dell’illusione repressiva, operata, però, solo sul terreno del. cd. ordine pubblico; con contraddittoria linea di tendenza negli altri settori (cfr. le leggi n. 92 (contrabbando) e 128 (pacchetto sicurezza) del 2001; il d.l. n. 374 del 2001 (terrorismo internazionale); le leggi n. 189 (Bossi-Fini) e 279 (modifiche all’ordinamento penitenziario) del 2002; n. 95 del 2004 (controllo sulla corrispondenza dei detenuti); n. 210 (violenza negli stadi) e 251 (Cirielli) del 2005, n. 59 del 2006 (legittima difesa);
› nella crescita dei reati senza danno, che ha prodotto una pericolosa “evanescenza” delle fattispecie (cfr. le leggi n. 189 del 2002 (Bossi-Fini) ed il d.l. n. 144 del 2005, in materia di terrorismo internazionale);
› nella fine del monopolio della giurisdizione, a cui ha fatto da sostegno la perenne tendenza a ritenere che l’assetto normativo del processo debba essere condizionato dalla disponibilità delle risorse – anche umane – e dai problemi organizzativi; non – come sarebbe naturale – il contrario.
L’analisi sembra riguardare i profili problematici del diritto penale sostanziale. Epperò, va annotato, viceversa, che è sotto gli occhi di tutti il disorientamento della giurisdizione e della giurisprudenza per effetto delle più recenti leggi, soprattutto processuali; che, peraltro, hanno richiesto ripetuti interventi della Corte costituzionale (v., ex plurimis, Corte cost., 24 aprile 2002, n. 135, in tema di video riprese; Id., 21 novembre 2006, n. 381, in relazione all’art. 197-bis c.p.p.; Id., 6 febbraio 2007, n. 26, che ha vanificato la legge Pecorella; Id., 9 febbraio 2007, n. 33; Id., 5 aprile 2007, n. 117, in tema di processo contumaciale; Id., 16 marzo 2007, n. 79, sui meccanismi penitenziari della legge Cirielli);
Peraltro la dottrina sin dal primo momento ha denunziato il difetto genetico del codice del 1989, quello della non contestualità della riforma dei due Codici; vizio che è stato causa di grande sofferenza per la giurisdizione e che ora si rimuove secondo opportune linee di coordinamento sistematico e strumentale, non solo per realizzare una inefficiente contestualità temporale.
Sul punto, il bisogno di contemporaneità della riforma con quella del Codice Penale, consente un recupero di razionalità sistematica, elimina contraddizioni di settore apre la strada a felici combinazioni in tema di sanzioni (= misure cautelari), di prescrizione (= tempi del processo), di ampliamento dei casi di archiviazione (= tenue offensività), ecc.;
Dunque, come si è detto, l’attuale crisi della Giustizia – anche se amplificata da avvenimenti esterni al tessuto normativo – è in buona parte da esso prodotta, sì a causa della “legislazione della disuguaglianza” prima richiamata, ma anche a ragione degli interventi novellistici prodotti alla fine degli anni ‘90. La filosofia della “completabilità” delle indagini preliminari – su cui fonda la “legge Carotti” (n. 479 del 16 dicembre 1999) –, se allo stato fa fronte al bisogno di conoscenza del processo ai fini della tutela della persona (art. 415-bis c.p.p.) e razionalizza gangli essenziali del processo (es. giudizio abbreviato), ha, già essa, aggravato una crisi risalente, determinando insopportabili stasi processuali – come è risultato chiaro dalle audizioni – nonché la perdita di credibilità da parte della giurisdizione e della effettività della pena.
Perciò oggi si affronta il problema – anche per la ovvia interferenza della efficienza della giurisdizione in materia di sicurezza – con visione globalizzante, mettendo in campo l’opera riformista in tutti i settori che ne costituiscono coessenziali componenti (v., senza pretese di completezza e limitatamente ai d.d.l. d’iniziativa governativa, C. 2664 (Disposizioni per l’accelerazione e la razionalizzazione del processo penale, nonché in materia di prescrizione dei reati, recidiva e criteri di ragguaglio tra pene detentive e pene pecuniarie); S. 1512 (Disposizioni in materia di intercettazioni telefoniche e ambientali e di pubblicità degli atti di indagine) S. 1448 (Disposizioni per l’ adempimento di obblighi derivanti dall’ appartenenza dell’Italia alle Comunità europee); C. 2169 (Misure di sensibilizzazione e prevenzione, nonché repressione dei delitti contro la persona e nell’ ambito della famiglia, per l’orientamento sessuale, l’ identità di genere ed ogni altra causa di discriminazione); C. 1967 (Modifiche al codice di procedura penale per il compimento su persone viventi di prelievi di campioni biologici o accertamenti medici); C. 1857 (Disposizioni in materia di contrasto al favoreggiamento dell’ immigrazione clandestina e modifiche al codice di procedura penale).
Per queste ragioni è finalmente venuta l’era riformista democratica e repubblicana.


5. Le ragioni di natura “politica” ed il nuovo art. 111 della Costituzione

Ma esistono ragioni più profondamente di natura politica che non possono essere ignorate e che, anzi, debbono guidare l’opera di riforma.
La prima è data dall’ampliamento delle fonti comunitarie e dalle risoluzioni del Consiglio d’Europa, che, in più occasioni, ha richiamato il nostro Paese ad adeguare la normativa interna a quella comunitaria e/o della CEDU.
Tra queste fonti hanno particolare rilievo:
a) quella sulla “mediazione”, che comporta l’allargamento dei modelli di giurisdizione e delle alternative al processo. La necessità di disciplinare la mediazione giudiziaria minorile deriva da molte ragioni: da un lato, infatti, la legislazione internazionale ne auspica l’introduzione nelle legislazioni nazionali in ambito sia penale (articolo 11 delle Regole minime per l’amministrazione della giustizia minorile, New York 29 novembre 1985; articolo 40, paragrafo 3, lettera b), della Convenzione ONU sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, resa esecutiva ai sensi della legge 27 maggio 1991, n. 176; raccomandazione n. 87(20) sulle risposte sociali alla delinquenza minorile, del Consiglio d’Europa, del 17 settembre 1987) sia civile (articolo 13 della Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei bambini, fatta a Strasburgo il 25 gennaio 1996, resa esecutiva ai sensi della legge 20 marzo 2003, n. 77); dall’altro lato, presso alcuni tribunali per i minorenni si sono già costituiti uffici per la mediazione, e ciò accentua la necessità di una disciplina dell’istituto e della sua rilevanza nell’ambito processuale. Infine, nella nostra legislazione è sostanzialmente mancata, finora, qualunque forma di tutela della vittima del reato. La necessità di introdurre forme di mediazione penale, peraltro, pone una prima base per realizzare la giustizia conciliatrice. Questo tipo di giustizia non è, del resto, estraneo al nostro ordinamento. È anzi previsto da varie norme sia penali sia civili: gli articoli 9 e 28 del d.p.r. n. 448 del 1988, nell’ambito penale ordinario e minorile, e gli articoli 1 e 4 della legge n. 898 del 1970 sul divorzio, in materia civile familiare, impegnano espressamente il giudice o i servizi sociali a effettuare un tentativo di conciliazione.
b) quella sulle “vittime del reato” (Dec. 2001/220/GAI del 15 marzo 2001), relativa alla posizione della vittima nel procedimento penale – che eleva l’attenzione della partecipazione della stessa quale portatrice della pretesa determinata dall’offesa, non quale soggetto che azione la richiesta risarcitoria. Alla vittima dal reato, infatti, non è garantita – allo stato – una piena tutela processuale, venendo spesso percepita come un ostacolo alla rapida definizione del processo. Nondimeno, l’esigenza di una piena tutela delle vittime del reato è fortemente avvertita ai vari livelli e alle diverse istanze della nostra società, anche perché la parte danneggiata, la parte offesa e la parte civile costituita ricoprono un ruolo e rappresentano un interesse che molte volte non è erroneo definire di natura pubblica o collettiva. Emblematico è il caso delle vittime del terrorismo, quello delle vittime delle stragi, quello degli infortuni-malattie mortali a causa del lavoro, quello delle vittime della criminalità, quello delle vittime di reati a sfondo sessuale soprattutto su minori, quello delle vittime di aggiotaggio o di reati societari-bancari, quello dei reati di disastro ambientale. In tali fattispecie, è evidente che, accanto ad una pretesa formalmente risarcitoria come richiesto dalla legge ordinaria (qualche volta magari per un risarcimento puramente simbolico), assumono maggior rilievo e importanza, anche a livello sociale, la richiesta di verità (anche processuale) e l’interesse alla individuazione e alla punizione del colpevole. Anche a livello internazionale tale esigenza emerge in tutta evidenza sia dalla trattazione che ne fa la Convenzione europea dei diritti umani sia dal contenuto dei provvedimenti frutto dell’attività giurisprudenziale della Corte di giustizia di Strasburgo, la quale ha riconosciuto specifici doveri di «penalizzazione» da parte dei singoli Stati, che hanno trovato una loro collocazione formale nella «Decisione quadro del Consiglio dell’Unione europea del 15 marzo 2001» pubblicato nella Gazzetta Ufficiale CE L82 del 22 marzo 2001. In questo atto del Consiglio si precisa cosa debba intendersi per «vittima» del reato e le si garantisce la possibilità di essere sentita durante il procedimento (articolo 3). Le si riconosce il diritto di accesso alle informazioni rilevanti ai fini della tutela dei suoi interessi (tra cui quella al patrocinio gratuito), con particolare riferimento al seguito riservato alla sua denuncia e ad essere informata, nei casi in cui esista un pericolo per la vittima, del rilascio dell’imputato o della persona condannata (articoli 4 e 6). Si riconosce il diritto al rimborso a favore della vittima, sia essa parte civile o testimone, delle spese sostenute a causa della legittima partecipazione al processo penale (articolo 7). Si riconosce il diritto alla protezione sua, a quella dei suoi familiari e alle persone ad essi assimilabili, ove si accerti l’esistenza di una seria minaccia di atti di ritorsione o di intromissione nella sfera della vita privata, protezione da garantire anche come riservatezza e tutela della sfera privata e dell’immagine, sia negli edifici giudiziari e di polizia che al loro esterno (articolo 8). Si prevede una normativa che incoraggi l’autore del reato a risarcire la vittima (articolo 9). Infine, sono previsti la cooperazione tra Stati, finalizzata alla protezione degli interessi della vittima nel procedimento penale, nonché la costituzione di servizi specializzati e di organizzazione della assistenza alle vittime.
c) quelle in materia di cooperazione giudiziaria, con le quali è indispensabile un coordinamento normativo oltre che di ricorso operativo. Invero, la conservazione della tradizionale regola di prevalenza sul diritto processuale interno delle norme di diritto internazionale, convenzionale e generale, è imposta da fondamentali, intrinsecamente chiare ed altrimenti non tutelabili ragioni di coerenza sistematica e di organicità dei processi di adeguamento della legislazione nazionale agli obblighi assunti dalla Repubblica nei rapporti con la comunità internazionale. È così ribadito, ma depurato da ogni improprio riferimento a specifiche fonti convenzionali, il principio secondo il quale le relazioni con le competenti autorità di altri Stati o con organi di giurisdizione giustizia internazionale a fini di giustizia penale sono disciplinate dalle convenzioni internazionali in vigore per lo Stato e dalle norme di diritto internazionale generale e che le norme contenute nel codice di procedura penale e in altre leggi dello Stato si applicano soltanto se le norme internazionali anzidette manchino o non dispongano diversamente. Peraltro, nelle procedure di cooperazione giudiziaria va assegnato valore generale al consenso dell’interessato, quando è considerato necessario per l’espletamento di determinati atti, imponendosi la fissazione di condizioni uniformi, compatibili con la serietà e la stabilità degli impegni di cooperazione.
Il problema è reso più complesso dall’ampliarsi di un diritto giurisprudenziale che rende insicura l’opera del giudice nazionale. Invero, la prevalenza della teoria della unità dell’ordinamento comunitario – contrastato all’inizio dalla Corte costituzionale e poi riconosciuto con la teoria del “nucleo essenziale di valore”, contenuto nelle garanzie costituzionali relative ai diritti inviolabili (sulla quale cfr. Corte cost., 27 dicembre 1973, n. 183; Id., 10 ottobre 1979, n. 125; Id., 22 dicembre 1980, n. 188; Id., 21 aprile 1989, n. 232) – e la convinzione che il giudice non possa sottrarsi ai pronunciati della Corte europea sui diritti dell’Uomo, a cui va, dunque, attribuito riconoscimento “automatico” (C. eur., 18 maggio 2005, Somogyi c. Italia; Id., 10 novembre 2004, Sejdovic c. Italia), quasi che assurgano a dignità di fonte hanno prodotto una “deriva giurisprudenziale” che era ricomposta. Così, ad esempio, con il caso Pupino il quadro concettuale dei rapporti tra ordinamenti si compone di nuove istanze, che non si riducono all’enunciazione di un criterio, di una direttiva di metodo per il giudice (l’obbligo di interpretazione conforme del diritto interno alle decisioni quadro UE), bensì legittimano prevalenze normative con significativi riflessi sul procedimento penale (Corte di giustizia, sentenza 16.6.2005, C-105/03, Pupino). Il dettato della Corte CE rappresenta la traduzione in un determinato momento storico della necessaria effettualità degli atti adottati nel quadro del terzo pilastro dell’Unione europea (cfr. House of Lords, Opinions of the Lords of Appeal for Judgment in the cause Dabas v. High Court of Justice, Madrid, 28.2.2007).
Ma la ragione principale su cui fonda la nuova stagione riformista è l’entrata in vigore dell’art. 111 Cost.
Le articolate disposizioni ivi contenute, per un verso, impongono maggiore attenzione ad un reale contraddittorio tra le parti ed al bisogno di una maggiore presenza della giurisdizione durante la prima fase del processo (le c.d. “finestre di giurisdizione”); per altro verso, riconoscendo il “processo di parti” come struttura democratica del processo, danno nuovo vigore al consenso della parte, suggerendo la pratica di spazi operativi finora ritenuti inesplorabili.
Epperò, sbaglierebbe chi ritenesse che la nuova regola per la giurisdizione ha valore solo sul piano strutturale: la novità più saliente del nuovo art. 111 Cost. è la costituzionalizzazione della ragionevole durata del processo.
In quest’ottica di sintesi delle ragioni storiche, del fondamento politico e delle attese sociali appare sterile – nel profilo riformista – ma opportuna e dovuta – nel profilo dogmatico – la contrapposizione tra teoria oggettiva e/o teoria soggettiva della nuova regola, dal momento che, in ogni caso – e quanto a quel profilo –, essa si pone come regola di comportamento per la individuazione delle linee di contemperamento del legislatore tra efficienza e garanzie, rinnovando l’osservazione del rapporto costi-benefici – che pure il legislatore dell’88 tenne presente – in un’ottica radicalmente diversa.
In questi termini la ragionevole durata del processo costituisce, oggi, la regola pregiuridica a cui conformare i comportamenti riformatori, dall’elevato valore sociale, anche perché essa influenza la lettura degli altri “principi” costituzionali, aggiornandone la lettura e attirando la cultura giuridica sul terreno del “garantismo efficientista”, essendo essa chiamata oggi alla sintesi tra garanzie ed effettività della giurisdizione, che rappresenta il nuovo fronte del processo penale.
Dunque, essa stabilisce un rapporto di mezzo a scopo, che indirizza l’opera del legislatore, aprendo allo stesso nuovi orizzonti.
Perciò va superata quella parte della cultura giuridica del Paese e soprattutto degli “operatori”, che hanno incanalato l’attenzione sulle parti della nuova disposizione costituzionale che si collegano direttamente alla “storia” della norma, più che al suo reale contenuto “rivoluzionario”.
Quella storia sembra indirizzare le discussioni sul riconoscimento costituzionale del diritto al contraddittorio (comma 4) – rispetto al quale lo stesso legislatore costituente tipizza le deroghe (comma 5) – e del diritto all’ascolto (comma 3) e, quindi, sul “processo di parti” e/o sulla “parità d’armi” (comma 2), quasi che questi connotati non appartenessero all’originario tessuto normativo di quella Fonte.
Sul punto ogni disquisizione appare oggi superflua, dal momento che, per attuare la Costituzione, il codice del 1988 organizzi il “processo di parti” proprio sulla linea della centralità del contraddittorio per la prova e del dibattimento.
E se l’iter parlamentare e la collocazione sistematica del nuovo art. 111 Cost. rassegnano alla storia il progressivo passaggio del contraddittorio da diritto delle parti a regola per la giurisdizione, non va eluso il dato secondo cui si approfittò dell’occasione” per rinforzare le regole della giurisdizione. Perciò il Costituente di fine millennio si impegnò sul fronte del giudice (terzo ed imparziale), sul fronte del processo (la pari dignità di fronte alla giurisdizione = art. 111 co. 2 e 3), sul fronte del metodo cognitivo (contraddittorio), contestualmente elevando a dignità costituzionale il consenso come strumento di rinunzia al metodo dialogico e/o come riconoscimento dell’oggetto della cognizione anche se ricostruito unilateralmente (“riti” e acquisizioni probatorie; processo di parti); infine, sul fronte del tempo del processo, come valore del “giusto processo”, sul confluente terreno del diritto dell’imputato e dell’attesa della comunità.
Sul punto, i bisogni di chiarezza e le esigenze di acculturamento sono elevate, anche perché si è veicolata l’idea che la norma costituzionale operi una graduazione dei valori e, quindi, la prevalenza del contraddittorio rispetto all’inferiore valore della durata ragionevole del processo.
Nonostante l’autorevolezza della fonte, il metodo comparatista e il risultato della prevalenza sono errati e rispondono a logiche “quantiste” estranee al tessuto costituzionale.
Invero, se sono incontestabili le premesse “storiche” della nuova vicenda costituzionale; se è vero che questa muove da una giurisprudenza costituzionale (quella del 1992) poco accorta – stranamente – ai connotati che produssero il capovolgimento del rapporto tra “contraddittorio” (= regola) e “non dispersione degli elementi di prova” (= eccezioni tipizzate); e se oggi possono risultare accorte le ragioni dell’epoca, non tanto in vista del “fine del processo”, quanto in ragione di prassi giudiziarie contraddittorie rispetto al “processo parlato”, egualmente non può contestarsi che il nuovo assetto costituzionale del processo muta in ragione della novità di fine millennio, appunto quella della appartenenza del “tempo del processo” all’ontologia del “giusto processo”, inteso nella duplice dimensione, soggettiva (è diritto dell’imputato e della comunità) ed oggettiva (è connotato del processo).
Può dirsi, perciò, che, se nell’operazione costituente il dato dialogico del processo era ben presente, altrettanto presente era la ragione politica che la motivava e che imponeva il salto di qualità della Costituzione sul fronte delle fonti disattese (la CEDU) e dei giudizi di illegittimità dei tempi del processo.
Su questa ragione “politica” (rectius: di politica del diritto) si realizzò la novità “rivoluzionaria” di fine millennio: la costituzionalizzazione, nelle “norme sulla giurisdizione”, della ragionevole durata del processo (comma 2) e del diritto al giudice (comma 3); anzi, la loro collocazione sistematica ne rivela la natura di “regole di ordine pubblico della giurisdizione”.
È evidente, dunque, che quel contesto non gradua i valori costituzionali ma li organizza secondo le naturali interferenze dei diritti contenuti nel Preambolo e che legittima forme di “giustizia imperfetta” quando ad essa intende accedere l’imputato secondo logiche razionali, non ideologiche, cioè: secondo linee che contemperino garanzie e tempi.
Perciò la “ragionevole durata del processo” – elemento di assoluta novità delle regole per la giurisdizione – impone al legislatore di sfruttare le nuove potenzialità del “processo di parti” e del “giusto processo”, seguendo la filosofia – lì scritta – del “garantismo efficientista”, formula di sintesi della nuova cultura del processo penale, di pari dignità del “garantismo difensivo”, che fu la cultura condivisa che ha prodotto il codice di fine anni ‘80.
Su questo terreno ulteriore premessa dell’opera riformista è la scoperta del significato reale della disposizione del terzo comma dell’art. 111 Cost. che rappresenta nel “procedimento” – non nel “processo” – il “diritto al giudice”.
Sul punto, l’infelice input della norma (= “nel processo penale”) fa i conti col contesto funzionale e strutturale che la lettera della disposizione manifesta, rendendo palese che il diritto al giudice è situazione che va assicurata prima dell’esercizio dell’azione e, quindi, nel “procedimento”, essendo questo il segmento che si pone a ridosso della notizia di reato: “essere informato….dell’accusa”; “interrogare o far interrogare dal giudice”; ecc. sono elementi normativi di assoluta novità che la legge processuale non può ignorare se vuole attuare la Costituzione.
Razionalizzare i tempi del processo e aprire “finestre di giurisdizione” nel procedimento sono, dunque, indirizzi rigidi per il nuovo legislatore: il primo pone il tema centrale del tempo, attirando nell’ambito processuale esigenze “prescrittive” e quindi dichiarazioni di “improseguibilità dell’azione penale” in mancanza di tempi ragionevoli per il processo; il secondo richiede la individuazione di situazioni e poteri – in equilibrio con situazioni e poteri del pubblico ministero – in cui e con i quali le parti private possano operare direttamente davanti al giudice. E se il primo indirizzo pone il delicato problema del rapporto tra prescrizione del reato e tempi del processo, il secondo apre la strada a compiti di difesa “reattiva” sin dal momento dell’accusa.
Sul primo argomento, la norma costituzionale non elimina la funzione di garanzia della prescrizione del reato e, quindi, di una norma di diritto sostanziale che la preveda; tuttavia essa sposta sul terreno processuale il bisogno di contingentamento dei tempi del processo fino alla “improseguibilità dell’azione”. Perciò la nuova disposizione costituzionale, pur non interessandosi dei profili dogmatici della questione e della natura della prescrizione, ne attira la operatività nell’ambito della organizzazione del processo a cui affida, anche, la razionalizzazione della durata ragionevole del processo e la individuazione dell’atto a cui segue la sospensione della prescrizione del reato e la sua eventuale reviviscenza in sede di impugnazione.
Sul secondo, il richiamo alla conoscenza tempestiva dell’accusa impone la individuazione dei tempi e dei modi per la sua contestazione e dell’atto che la contenga ai fini dell’esercizio dei diritti tipizzati nella stessa norma costituzionale. E posto che “accusa” non è “imputazione” – che rappresenta l’atto di esercizio dell’azione penale, perciò posteriore all’esercizio di quei diritti – risulta evidente che il nuovo legislatore deve far fronte alla bisogna, non con una “informazione per l’atto”, così come nell’attuale sistema, ma con una “informazione di garanzia” di vecchio stampo, quale forma di conoscenza del procedimento finalizzata al corretto esercizio del diritto delle parti al giudice.
Insomma, nel segno della Costituzione oggi il progetto è: un processo governato dalle parti con pari dignità davanti al giudice, che contemperi le legittime pretese della collettività di fronte al delitto e gli irrinunciabili diritti della persona.

6. La “deriva giudiziaria” quale effetto delle decisioni della Corte europea dei Diritti dell’Uomo

Altra ragione si aggancia alla giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo, che non ha perso occasione per condannare l’Italia in materia di processo contumaciale (C. eur., 18.5.2005, Somogyi c. Italia; Id., 10.11.2004, Sejdovic c. Italia) e di ragionevole durata del processo. Anzi, è del 1° marzo scorso la sentenza della Cassazione, che in forza di precedente pronunzia di quella Corte ha sospeso il titolo esecutivo prodotto dalla nostra giurisdizione, elevando, quelle a livello di “fonte” (Cass., Sez. I, 25 gennaio 2007, n. 2800, P.m. in c. D. P.), anche se non manca diverso e contestuale orientamento (Corte di cassazione, Sez. V, 15 novembre 2006, Cat Berro).
Si è così posto il problema della necessità di un’effettiva riparazione nel caso di violazione del testo convenzionale e dell’eseguibilità di una pronuncia definitiva considerata non equa dalla Corte europea.
La tematica, che si inserisce nell’ampio dibattito sugli effetti nell’ordinamento interno della giurisprudenza Cedu, impone di definire i meccanismi adeguati per garantire nei sistemi nazionali il rispetto di regole comuni (quali, il “giusto processo”) all’insegna di una tutela multilivello dei diritti del cittadino europeo .
Già nel caso Stoichkov c. Bulgaria (24.3.2004) la Corte Cedu aveva posto il problema dell’eseguibilità di una sentenza considerata non equa. In sostanza, con quella decisione la Corte ha colpito il dogma del giudicato, nel senso che non solo ha riconosciuto la violazione del testo Cedu, ma è addirittura andata oltre, chiedendo un’effettiva riparazione.
La vicenda “Dorigo” testimonia che non sono più permessi ritardi nell’opera di omogeneizzazione dei valori nell’ambito della giustizia penale: è necessario che il legislatore ponga rimedio ad una situazione che si trascina ormai da tempo e che senza dubbio sconfessa i proclami contenuti nelle carte internazionali e nelle costituzioni. Del resto, con la ratifica della Convenzione europea (l. 4 agosto 1955, n. 848), l’Italia ha assunto l’impegno di rispettare i principi ivi espressi, fra cui quello imposto dall’art. 6 .
In ogni caso, la pronuncia evidenzia una rinnovata sensibilità ermeneutica da parte della giurisprudenza italiana, fondante un humus culturale ed ideologico, che ha permesso una maggiore penetrazione nel diritto interno di norme e anche di statuizioni delle Corti europee, che fino a poco tempo fa erano ritenute meramente raccomandatorie e che nella prassi quotidiana venivano disattese. Ciò che ha indotto gli organi di Strasburgo a condannare l’Italia per la reiterata violazione di norme convenzionali riguardanti i diritti fondamentali. Nel corso degli ultimi anni sono stati numerosi i casi di condanna da parte della Corte Cedu per mancato rispetto del giusto processo. Si tratta di sentenze che impongono ai Paesi interessati un “obbligo di riparazione” ai sensi dell’art. 46 Cedu (cfr., tra le altre, Corte Cedu, Colozza c. Italia, 1985; Sejdovic c. Italia, 2004; Somogji c. Italia, 2005).
Senza dubbio, la costituzionalizzazione del principio del giusto processo, operato dalla l. cost. n. 2/1999, ha comportato il placet per la l. n. 63/2005, la quale ha compiuto un ulteriore necessario adeguamento ai principi affermati dalla Cedu mediante la rimodulazione dell’istituto della “rimessione in termini” per il caso di processo in absentia, svoltosi senza che l’imputato ne abbia avuto conoscenza.
Peraltro, la soluzione offerta dalla Corte di cassazione (Sez. V, 15 novembre 2006, Cat Berro), pur se consente di ritenere esistente nell’ordinamento italiano uno strumento per rimettere in discussione una sentenza irrevocabile di condanna emessa in sede sopranazionale certamente appare debole quanto alle nuove prospettive europee.
E dunque, i problemi affrontati non possono dirsi risolti, né gli interventi citati esauriscono l’insieme delle questioni poste dalla giurisprudenza Cedu.
E se la vicenda “Dorigo” dimostra che si sta affermando un nuovo modo di fare giustizia secondo “canoni europei” [cfr. Sezioni unite Civili della Corte Suprema di cassazione con 4 significative sentenze del 2004 – nn. 1338, 1339, 1340, 1341 – ed una più recente del 23 dicembre 2005, Centurione Scotto) in forza della natura immediatamente precettiva delle norme convenzionali con il conseguente obbligo per il giudice nazionale di disapplicare la norma interna in contrasto con la norma pattizia dotata di immediata operatività in riferimento al caso concreto (cfr., altresì, Corte di giustizia CE, sentenza 16 giugno 2005, C-105/03 Pupino, che ha sancito l’obbligo di interpretazione conforme),è indispensabile riflettere circa l’incidenza del diritto sovranazionale se sulla necessità di armonizzazione la giustizia penale interna agli standards minimi europei, alimentando prospettive di modifica della struttura processuale italiana, in modo da consentire l’omogeneo allineamento ai principi scanditi dall’evoluzione giurisprudenziale della Corte Cedu su temi di fondo quali, ad esempio, il giudizio c.d. in absentia e la custodia preventiva.




7. L’acculturamento sulle categorie fondamentali del processo quale premessa ontologica dell’opera riformista

Peraltro, dell’attuale tessuto normativo non va dispersa la forza di rinnovamento ontologico delle categorie fondamentali del processo.
Invero, a leggerlo in profondità, il Codice di procedura penale del 1988 non fu solo mera operazione codicistica; esso rinnovò alla radice le categorie fondamentali della procedura penale, dalla giurisdizione, all’azione, al processo.
Sul primo fronte, la concezione della giurisdizione come somma ordinata di potere cognitivo e potere dispositivo che aleggia in tutte le fasi del processo viene accompagnata – e talvolta scomposta – dal bisogno di elevare, alternativamente, le due anime della giurisdizione – di garanzia e di accertamento – rompendo il monopolio di questa seconda, che aveva caratterizzato tutta la codificazione precedente.
Così, nel procedimento, la giurisdizione assume il prevalente ruolo di garanzia nei conflitti tra “situazioni soggettive protette”: ad esempio, nei mezzi di ricerca della prova e nella emissione dei provvedimenti cautelari, ove, peraltro, la valutazione della richiesta non assume il significato di cognitivismo processuale, che in queste occasioni segue il provvedimento sulla richiesta della parte, oggettivizzando, così, il segno giurisdizionale del provvedimento. Questo ricorso (= diritto) al giudice nel Codice del 1988 restò sostanzialmente unilaterale e soprattutto nel dominio del pubblico ministero, non potendosi percepire, allora, situazioni di contestualità operativa delle parti davanti al giudice, al di là delle esigenze di formazione anticipata della prova. Allora, il pericolo che nella fase procedimentale potesse rivivere il “giudice istruttore” – accusa peraltro ripetuta a seguito dei nuovi poteri di intervento sulla completezza delle indagini offerti al giudice dell’udienza preliminare (ma l’accusa riguarda anche la cd. “imputazione coatta” in sede di archiviazione) – allertava il legislatore al punto da rendere problematica anche la “canalizzazione” di atti di parte privata direttamente al giudice, che fu causa – non ultima – delle “investigazioni difensive” (cfr. la nota sentenza Baruffato).
Questo periodo e, quindi, quella preoccupazione vanno ora dissolti, non potendosi confondere le esigenze probatorie per la decisione (= i poteri probatori d’ufficio) con la raccolta e la elaborazione della prova come “pregiudizio del giudizio” in chiave di prevalutazione degli indizi di colpevolezza prima del dibattimento. È questo il “giudice istruttore” di inquisitoria memoria, oggi in nessun caso, né in nessun modo evocato.
Sul fronte dell’azione, il passaggio dall’azione in senso astratto all’azione in senso concreto – plasticamente rappresentato dalle disposizioni funzionali e strutturali sul procedimento (artt. 50; 326; 358; 405 c.p.p. 1988) – si appoggia su una lettura moderna dell’obbligo costituzionale di agire (art. 112 Cost.), attirando nel versante giuridico della norma costituzionale la lontananza dell’azione dalla notizia di reato. E poi, la pluralità modulistica dell’esercizio della stessa a seconda di alterni e specifici presupposti oggettivi (art. 405; 444; 449; 453; 459 c.p.p. 1988) fu invenzione felice ed opportuna, ma altamente problematica nel risvolto di rappresentazione dell’esercizio di difesa a causa della mancanza di un atto obbligato per la conoscenza del procedimento che assolvesse a tale compito, soprattutto in presenza di una prassi che mortificava la potenzialità dell’interrogatorio (art. 375 c.p.p. 1988) e dell’accompagnamento per l’interrogatorio (art. 376 c.p.p. 1988).
Insomma, il salto concettuale all’azione in senso concreto fu eluso alla radice, vuoi perché cedeva, nella prassi, l’idea di un segmento procedimentale di tipo “collaborativo” (art. 358; 367; 375; 447 c.p.p. e 38 disp. att. 1988), vuoi perché il pur valido assetto normativo mancava dell’elemento di conoscenza del procedimento contestualmente utile all’esercizio del diritto di difesa ed alla completezza delle indagini. Né è risultato efficace – su questo terreno – l’avviso di conclusione delle indagini (art. 415-bis c.p.p. ex lege n. 479 del 1999) e la contestuale discovery, sia per la “naturale” diffidenza sul “rapporto a due”, sia per gli effetti devastanti che esso ha prodotto sui tempi del processo.
Sul fronte del processo, poi, le norme sulla prova (libro III) e sul giudizio (libro VII) realizzarono il contraddittorio “possibile”, recuperando, in ragione del principio di non dispersione della prova, (eccezionalmente) atti irripetibili in presenza di presupposti tipici e tassativi e, solo in via mediata, gli atti unilaterali del pubblico ministero, recupero finalizzato alla “credibilità” del teste mai ai fini probatori.
La crisi innestata nel 1992 dalla Corte costituzionale, se, nel tempo, ha portato alla felice opera costituente di fine millennio (l’art. 111 Cost.), ha prodotto una legislazione “tampone” (già richiamata) asistematica e per certi aspetti irrazionale che ha allargato le maglie del progetto iniziale, alterando – soprattutto nella interpretazione – il senso ontologico delle originarie previsioni.
Sullo stesso terreno, la caratura di una udienza di controllo sull’esercizio dell’azione penale organizzata con asfittici poteri processuali del giudice, per un verso, le ha sottratto il compito originario e, per altro verso, ha fatto venir meno il ruolo di spinta dello stesso giudice a scelte alternative al dibattimento. Se, dunque, l’intenzione di non far rivivere il giudice istruttore era ed è condivisibile, tuttavia la prima struttura mortificava le potenzialità operative del ruolo del giudice. Sul punto, l’opera di restyling di fine anni ‘90, rivolta soprattutto al recupero della funzione deflativa dell’udienza, si è spinta troppo oltre, se la Corte costituzionale – con isolate voci in dottrina – ha potuto intravedere in essa una forma di “giudizio”, non una pluralità di forme nel dominio dell’imputato, che solo con richiesta o consenso modifica la funzione del contesto procedurale e la logica del giudice (Corte cost., 6 luglio 2001, n. 224; Id., 28 dicembre 2001, n. 441; Id., 19 febbraio 1999, n. 36; Id., 12 luglio 2002, n. 335).
Ma queste felici invenzioni non possono nascondere la permanenza di “scorie inquisitorie” di cui lo stesso legislatore si rese conto.
Invero, il passaggio da un processo monologico ad un processo partecipato non poteva (né doveva) mantenere in vita un sistema sanzionatorio che – pur rinnovato in tema di prova – ripete la confusione tra invalidità ed inefficacia (es.: decadenza), né un sistema di deducibilità della incompetenza e dei vizi degli atti consono al sistema inquisitorio, non accusatorio; così come ripropose un sistema di impugnazioni “amorfo” – pur esso congeniale a quel sistema – per il quale tutto si può dedurre in appello, e, poi, tutto si può dedurre in cassazione.

8. Le linee generali del nuovo impegno di riforma

Dunque le premesse dell’opera riformista si riassumono:
a) nella convinzione che il codice del 1988 – contrapponendosi al codice del 1930 e dovendo attuare la Costituzione – fu felice opera intellettuale, preceduta ed accompagnata da un quarantennale dibattito sul “garantismo difensivo”, ma fu processo senza sperimentazione. Sicché, l’opera odierna – che non intende rinunciare a quello schema ma correggerlo nell’ottica della ragionevole durata del processo – nasce proprio dalla sperimentazione di quell’assetto normativo e dal bisogno di eliminare “scorie inquisitorie”;
b) nella necessità di adeguamento della normativa codicistica al nuovo sistema delle fonti – anche sovranazionali –, tra le quali ha valore pregnante il nuovo art. 111 Cost., che impone di ripensare il rapporto tra forme del processo (non formalismi processuali) e garanzie dell’individuo;
c) nella indispensabilità di un sano raccordo con l’auspicato nuovo Codice di Diritto penale, che innova il sistema sanzionatorio, apre la via a nuove forme di tenue offensività del fatto ed a strumenti di rilevamento processuale del progetto operativo racchiuso nell’art. 27 comma 3 Cost.
Queste linee hanno prodotto – sul piano del metodo – il bisogno di un doppio tavolo di lavoro, quello della documentazione affidato al Comitato scientifico e quello della riflessione per le nuove direttive di delega – di competenza della Commissione –, risultando palese che questo è condizionato dal rilevamento e dallo studio delle disfunzioni del processo.
L’idea è risultata vincente: il rilevamento delle cause della crisi; lo studio dei testi anche giurisprudenziali, soprattutto della Corte costituzionale; l’apprestamento della documentazione legislativa e l’opera di coordinamento dei lavori delle sottocommissioni sono i punti di forza dell’opera di ripensamento della struttura del processo in chiave di recupero di efficienza; una nuova e moderna struttura che, senza mortificare le garanzie – anzi: ampliandole –, ha la capacità di rispondere alle attese del Paese in tema di Giustizia penale.
Sul piano dei contenuti i presupposti culturali e cognitivi hanno prodotto gli itinirari riformisti qui riassunti:
a) – Il primo si riversa nel procedimento per l’azione, ove viene rinforzato il ruolo della giurisdizione – che comunque non assume funzione istruttoria – per attuare le garanzie previste nell’art 111 comma 3 Cost. Per realizzare tali garanzie è indispensabile che la “persona indagata” conosca del procedimento e dell’accusa, che, pur determinata, non assume la funzione dell’imputazione. Di qui la nuova informazione di garanzia, che rappresenta la premessa per realizzare il “diritto al giudice”, oggi costituzionalmente riconosciuto per ogni fase del processo, per il cui esercizio si aprono “finestre di giurisdizione” nel procedimento.
Il riconoscimento del diritto al giudice per tutte le “parti”, peraltro, se consente di realizzare un rapporto diretto, con lui, della persona sottoposta alle indagini e per l’offeso, per altre situazioni ― non comunicabili all’”indagato” ― esalta la giurisdizione e la sua funzione di garanzia: così, ad esempio, con la proroga discrezionale dei termini per le indagini; così per i mezzi di ricerca della prova; così per le misure cautelari.
In attuazione dello stesso principio, poi, e per eliminare le cause di insopportabilità di stasi processuali si procedimentalizza la situazione disciplinata dall’attuale art. 415-bis, che nel futuro disegno diventa l’atto di vocatio delle parti davanti al giudice dell’udienza di conclusione delle indagini, fornito di penetranti poteri fino alla richiesta di definizione – “premiata” – della vicenda processuale.
Epperò, necessariamente e naturalmente, un processo così “partecipato” non può non distinguere – nettamente – forme e formalismi, garanzie e formalità.
La sua realizzazione perciò non può non avere naturali ricadute:
– sul sistema delle notificazioni, ove si esalta il bisogno della consegna a mani dell’imputato del primo atto del processo indispensabile per eliminare la contumacia e per legittimare il processo in assenza. Ma tale atto inverte – in natura – l’onere della partecipazione e della conoscenza dello sviluppo del processo;
– sul sistema della deducibilità dei vizi di competenza e di invalidità degli atti, oggi attestate ancora – nonostante le salienti novità del 1978 – su “scorie inquisitorie” insopportabili nel nuovo sistema, se si esclude – proprio sul terreno della tutela della persona – il vizio di vocatio in iudicium dell’imputato. Resistere su questo terreno non significa evocare garanzie; significa, viceversa, attestarsi su posizioni di retroguardia che alimentano la permanenza, non la soluzione, delle cause di crisi della Giustizia;
– sul sistema delle impugnazioni, che, svincolate da formalismi, possono meglio assolvere al reale compito di controllo della giustezza della sentenza e della tenuta della legalità processuale.
b) – Il secondo itinerario riguarda i modelli di giurisdizione e il tema dell’azione. E, se sul primo fronte è stato possibile realizzare la mediazione – e non solo per impegni di natura sovranazionale –, ma resta problematico il processo bifasico, sul secondo fronte, la rigidità del principio costituzionale ed il clima politico non consentono di avanzare proposte alternative all’azione pubblica.
c) – Quanto alla struttura del processo, poi, la nuova centralità dell’udienza di conclusione delle indagini si coniuga con la drastica riduzione delle alternative nel processo, che furono invenzione felice del legislatore di fine anni ‘80, ma che hanno creato non pochi problemi sul versante interpretativo, venendo meno al ruolo che quel legislatore affidava loro. Perciò, deflazione, premialità e consenso dovranno costituire il terreno privilegiato per l’esercizio dei poteri del giudice prima del dibattimento, recuperando in questa fase le nuove potenzialità del sistema sanzionatorio e le anticipazioni delle “modalità di esecuzione della pena”.
Sullo stesso piano, ancora, va condotto a razionalità operativa il rapporto tra libertà personale e giudizio, costruendo una nuova prossimità a questo, quando quella è limitata per esigenze di tutela del processo o per l’attualità del fatto.
d) – Ma la sintesi del rapporto garanzie-tempo affida ruolo centrale alla prescrizione, nodo essenziale per razionalizzare tempi e comportamenti processuali. Su questo fronte bisogna prendere atto che la previsione di natura sostanziale è ineliminabile quale norma di garanzia per l’individuo; epperò la manifestata volontà dello Stato di perseguire quel fatto per la tutela della collettività annulla la garanzia – qualunque ne sia il fondamento – ed attira l’attenzione sulla organizzazione dei tempi nel processo.

9. Il valore garantista delle regole per il processo

Su un terreno apparentemente difforme dalle premesse politiche fin qui tratteggiate si muovono le annotazioni di prevalente natura ontologica specificatamente attinenti al sistema sanzionatorio processuale penale. Epperò la osservazione della categoria è campo privilegiato per penetrare il “mistero del processo” e svelarlo. Il valore garantista delle regole tecniche per il processo – il cui divenire non è mera successione di atti ma è progressione di attività dirette ad uno scopo – rivela la dimensione legale del processo e si riconnette a connotati di necessarietà dei comportamenti – soprattutto se tipici – rispetto ai quali, dunque, le regole assumono – anche – forza deontologica.
Il tema è complesso; anche perché attiene direttamente al sistema sanzionatorio degli atti processuali, con specifico riferimento al tipo, alla natura di ciascuno di essi, al conseguenziale regime di ognuno.
Come si sa, la pedissequa riproposizione del sistema sanzionatorio precedente nel codice del 1988 (cfr. artt. 606 lett. c) 1988 e 524 c.p.p. 1930) fu determinata dalla mancanza di definitive premesse ontologiche circa la funzione che la sanzione svolge nella procedura penale, causa di incertezze circa l’inquadramento dogmatico della categoria e della problematica inclusione, in essa, delle forme di inefficacia: si coglieva, cioè, il vizio di invalidità dell’atto, raramente la ragione dell’inclusione della stessa nel naturale succedersi del processo, ancor meno l’esigenza della rilevabilità del vizio, preferendosi far ricorso alla sanatoria, non al bisogno del “rilevamento fasico” e, quindi, alla cessazione del perpetrarsi processuale del vizio.
Perciò, se il legislatore del 1988 fu felice recettore dell’autonomia del vizio della prova – peraltro con una disposizione (quella dell’art. 191 c.p.p.) che ha creato difficile discorde applicazione, pure in tal caso per mancanza di chiare premesse ontologiche – egli non percepì la forza istruttiva e le prospettive potenziali del d.l. 21 marzo 1978, n. 191 in materia di nullità che timidamente si avviava sul rapporto atto-scopo: si preferì parlare della terza categoria delle nullità piuttosto che praticare la pista appena intrapresa.
Ed invero, si legge nella Relazione a quel Codice che nella lettera c) dell’art. 524 «si prevede come motivo di ricorso l’inosservanza, oltre che delle norme processuali stabilite a pena di nullità, inammissibilità o decadenza, di quelle a pena di inutilizzabilità». Null’altro, se non una mera specificazione della autonomia dell’ultima sanzione.
E, dunque, rimase in quel codice, quanto al sistema sanzionatorio, una “scoria inquisitoria” con doppia caratterizzazione negativa: una per difetto – la mancata autonoma previsione dell’”inefficacia” – l’altra per eccesso: la autonomia della “decadenza”, nonostante la diffusa convinzione che essa descriva un fatto non una sanzione.
E, dunque, appare opportuno, ora, stabilire le premesse ontologiche esplicative delle ragioni della scelta (“accusatoria”) di limitare vizi che perpetuino gli effetti in tutto il processo, per dimostrare la forza garantista della nuova prospettiva, non l’opposta visione di mortificazione delle garanzie dell’individuo nel processo.
Il tentativo di dimostrare l’autonomia dell’accezione strettamente tecnica della categoria nel settore processualpenalistico presuppone un approccio esegetico scevro dai condizionamenti culturali e dogmatici della dottrina tradizionale, dovendosi rivolgere attenzione, non agli aspetti meramente teorici, bensì ai tratti processuali del fenomeno sanzionatorio.
Nel versante teorico si insiste sull’idea che, nella materia, si sia operato uno sforzo definitorio per certi aspetti ripetitivo della letteratura risalente alle osservazioni della situazione codicistica precedente – se non, addirittura, pregressa – e, perciò, privo di riscontri sistematici provenienti dal nuovo modello processuale.
In questa prospettiva, va precisato che le norme del vigente codice di procedura penale svolgono un ruolo primario, poiché non operano soltanto sul piano dell’organizzazione dell’esercizio della funzione di ius dicere, ma assumono un rilievo fondamentale come norme di tutela di situazioni giuridiche in movimento nel processo; sotto questo profilo, sono parte della dinamica dell’ordinamento giuridico nel suo complesso, garantendone l’adattamento e lo sviluppo indispensabili per la sua conservazione nel tempo.
Più specificamente, il legislatore attraverso la tecnica descrittiva delinea la fattispecie astratta del comportamento processuale, sancendo il rapporto simbiotico tra questa e la norma processuale, che, attraverso la sussunzione di una situazione concreta, produce gli effetti correlativi, incidenti su una determinata situazione. E se l’identificazione della fattispecie dipende dalla sua struttura (= tipicità), la valenza del suo significato e della sua funzione è data dal valore protetto (= legalità), geneticamente dipendente dalla natura degli effetti che sono ricollegati all’esperienza che nominiamo “processo penale”.
Emerge, così, un dato di cui sovente non sembra tenersi adeguatamente conto: la predisposizione di uno schema legale è finalizzata alla produzione di una peculiare efficacia giuridica; e la scelta del soggetto che compie una specifica attività processuale è effettuata in vista del raggiungimento degli effetti connessi all’integrazione di una determinata fattispecie. Il che significa che gli atti processuali devono uniformarsi alla fattispecie e diventano espressione delle posizioni potenziali o assunte in concreto dai soggetti che li pongono in essere; ciò, ovviamente, significa che ai titolari di tali posizioni il legislatore ha attribuito il potere, consentendone l’esplicazione proprio – e solo – attraverso atti tipici.





10. Il modello logico “potere-atto-scopo” quale premessa per la determinazione del sistema sanzionatorio processuale penale

Il fenomeno va inquadrato, allora, in una dimensione più ampia; nella quale appare chiaramente che il complesso degli elementi richiesti per l’integrazione di una certa fattispecie è costruito su modello logico “potere-atto-scopo”, che descrive l’attribuzione del potere, la struttura dell’atto e la funzione che esso esplica nella progressione processuale. Sicché, qualora uno dei presupposti legittimanti l’atto o uno dei suoi elementi risulti in tutto o in parte difforme dalla fattispecie, il verificarsi delle conseguenze tipiche rimane precluso, almeno fino a che l’elemento mancante venga integrato.
Ne consegue che il concetto di “imperfezione” non fonda soltanto sull’allinearsi o sul discostarsi dell’atto rispetto alle prescrizioni dello schema; esso, cioè, non si muove in una dimensione “statica” e, quindi, limitatamente all’indagine sul meccanismo di sussunzione degli atti posti in essere nei corrispettivi modelli. Esso rileva, invece, in una innovata visione dinamica, intrinsecamente connessa alla struttura bifasica del nuovo processo. Insomma, se si considera l’attitudine di un atto a produrre effetti rilevanti ai fini dello sviluppo della progressione processuale, si scorge che l’imperfezione determinata dall’allontanamento dal modello implica una verifica approfondita, estesa al raggiungimento dello scopo dell’atto e al livello di “ferimento” della situazione soggettiva protetta, tenendo conto, cioè del valore che l’atto assume nel contesto delle attività processuali con cui viene in relazione. E dunque, la proiezione finalistica della fattispecie trascende il singolo atto viziato, collocandosi nell’ambito più ampio dello sviluppo del processo, inteso come forma di esercizio della funzione ius dicere.
L’attenzione al procedimento come realtà in movimento e come combinazione degli atti nella connessione teleologicamente preordinata alla fattispecie totale costituisce ulteriore conferma del dato che ne attesta la peculiarità per l’essere dal diritto configurato con l’immancabile effetto di indurre una situazione giuridica nella quale diviene doveroso l’agere, il procedere, ossia l’andare innanzi per il soggetto legittimato al compimento dell’atto successivo.
Sicché, a rilevare, non è la mera successione cronologica, bensì la proiezione finalistica nel tempo che determina il succedersi degli atti gli uni agli altri, procedendo l’uno verso l’altro, il precedente provocando, o comunque, eccitando il compimento del susseguente, in virtù di quella logica razionale che tesse l’intima trama del processo ed in cui si rinviene il fondamento dell’ordine estrinseco del prima e del dopo.
E’ questo il carattere di necessarietà del comportamento del soggetto che motiva la eventuale connotazione sanzionatoria.
L’impostazione evidenzia la stretta funzionalità di ogni fase del procedimento a quella successiva, differentemente dalla fattispecie a formazione successiva, in cui nulla rileva il carattere libero o vincolato, eventuale o giuridicamente necessitato del divenire degli atti. Tuttavia, essa non specifica la ratio sottesa a tale meccanismo – che si rinviene nella forza dello sviluppo degli atti processuali –, inserendosi in una dimensione complessiva, che può determinare la produzione-realizzazione del fine a cui il processo è legalmente preordinato. In una dimensione totale, cioè, solo questa proiezione può determinare la produzione di effetti da parte di atti invalidi o non previsti dai modelli legali ovvero può negare che gli stessi siano prodotti da atti validi.
In definitiva, nel nostro settore, non vi è una rigida linea di demarcazione tra la perfezione dell’atto – che implica la sua corrispondenza al modello legale – e la sua imperfezione – connessa alla difformità rispetto al modello –. Nella molteplicità delle situazioni, vi sono ipotesi di inefficacia (ad esempio), in cui alla sussistenza dei requisiti previsti fa riscontro la non operatività degli effetti (artt. 27 e 309 comma 10 c.p.p. 1988); situazioni che non sempre trovano spiegazione nel fatto che, comunque, alla base si debba postulare un incompleto delinearsi dei requisiti della fattispecie. Ed è forse la mera osservazione strutturale la ragione che ha spinto la dottrina tradizionale ad espungere la inefficacia dall’ambito dell’invalidità; ma non può costituire premessa per estraniarla dalla categoria – e, prima ancora, dal concetto – di sanzione processuale.
Anzi, in certi casi, l’inefficacia – la non operatività degli effetti, cioè – non può essere ricollegata all’incompleto verificarsi dei requisiti dell’atto, ma va piuttosto rintracciata in un vizio della funzione.
Si scopre così un doppio fronte semantico del termine: l’inefficacia come effetto di un atto invalido (cfr. direttiva n. 95.2) e l’inefficacia come sanzione tout court (cfr. direttive n. 48.3 e 49.3).
In questa seconda accezione, sebbene non si possa addurre direttamente una inosservanza delle forme, si evidenzia un’incidenza negativa (questa volta sì!) sul corretto esercizio della funzione, in quanto ad essere impedito è il raggiungimento delle finalità per cui una certa attività è disciplinata, non la validità dell’atto che avrebbe dovuto produrre l’effetto.
Sul fronte opposto, poi, non mancano casi in cui, pur mancando o risultando incompleti i requisiti previsti, gli atti posti in essere si presentano nondimeno forniti di efficacia.
Da tali premesse, scaturisce che, per determinare l’efficacia e la perfezione degli atti posti in essere nell’ambito di una attività procedimentale formalizzata, non si può prescindere dall’influenza svolta da tutto il complesso di disposizioni dell’ordinamento, che direttamente o indirettamente finiscono con l’incidere sulla portata e sul significato delle norme processuali. In estrema sintesi, la determinazione della perfezione o della efficacia di un determinato atto del procedimento ha quale parametro di riferimento non solo lo schema legale e cioè la funzione-compito formalizzata, ma anche l’ufficio-organo o soggetto che pone in essere l’atto, vale a dire il profilo della funzione-ufficio (= attribuzione funzionale ovvero “competenza funzionale”) o comunque il profilo del potere attribuito.
Ed allora, l’efficacia degli atti processuali è un fenomeno che si colloca in una più ampia dimensione, che ne svela il paradigma unitario nel processo inteso come forma di esercizio della giurisdizione; ed è la congruità rispetto a questo esercizio che consente ad un atto di produrre i suoi effetti e di proiettarsi nello sviluppo del processo, assumendo, così, il carattere di necessarietà.
Dunque, il modello legale crea le condizioni affinché concretamente l’atto possa svolgere la funzione che ad esso è assegnata nella sequela procedimentale e, al contempo, offre il mezzo per la realizzazione degli interessi di chi lo compie.
In questo contesto, l’idea di validità viene ad esprimere un apprezzamento favorevole del comportamento conforme al modello tipico e la riconduzione al relativo effetto prestabilito; diversamente, la difformità diviene oggetto di una valutazione di disvalore in cui si sostanzia l’invalidità dell’atto.
La rappresentazione di questa problematica costituisce il versante del ragionamento volto a delineare i tratti della sanzione processuale.
Ebbene, in questa sede, non può darsi conto delle differenziazioni dogmatiche tra la sanzione penale e quella processuale, né d’altronde è consentito addentrarsi ulteriormente nel merito degli specifici contenuti normativi; perciò, ai fini della dimostrazione dell’autonomia concettuale del termine in ambito processualpenalistico, può ritenersi sufficiente richiamare il criterio discretivo della tecnica di redazione normativa (se vuoi l’effetto giuridico B, devi assolvere all’onere A), nonché l’inscindibile concatenarsi tra potere, atto e scopo, osservato nella triplice dimensione della legittimazione all’atto, della tipicità dell’atto, dello scopo dell’atto.
In questa dimensione teleologica, insomma, la norma di comportamento è riconducibile al modello logico (potere-atto-scopo) sul quale è costruito ogni schema legale. Nella stessa dimensione può dirsi che l’atto processuale invalido si connota per l’omessa realizzazione dello schema di comportamento ovvero per la mancata attuazione della fattispecie processuale, per essere, cioè, affetto da vizio. Rispetto a questa situazione, la sanzione entra in gioco, non come mera scelta di opportunità semantica, bensì al fine di definire i rimedi contro l’eventuale inosservanza del modo di essere dell’atto processuale.
Insomma, diversamente da altri settori del diritto il rapporto non attiene solo alla dimensione sanzione-atto ma anche a quella sanzione-comportamento perché il valore protetto nel processo e la sua legalità e la sua giustezza.
Se l’asserzione è corretta si può affermare che le disposizioni afferenti ai vizi dell’atto, dal punto di vista astratto, hanno forza general-preventiva, rappresentando una minaccia in caso di trasgressione; mentre, dal punto di vista applicativo, esse svolgono la funzione di ripristinare la legalità dell’atto o di eliderlo dal concreto contesto a cui si riferisce, dal momento che l’ordinamento non tollera alcuna forma di deviazione finalistica.
Epperò, se lo schema sanzionatorio non regge solo il vizio strutturale dell’atto, potendo essere prodotto dal vizio di potere – che ferisce l’atto tipico e valido in ragione di un comportamento omissivo susseguente – la sanzione-inefficacia (intesa non in termini di effetto dell’atto invalido) si colloca in un ambito “punitivo” in ragione del particolare valore della situazione soggettiva attinta.
Da questo punto di vista, si rivela la già richiamata apparente incompletezza della previsione di cui all’art. 606 lett. c) c.p.p. 1988 e, per ragioni opposte, la sua sovrabbondante schematizzazione.
Nel primo versante, essa ha sostenuto l’idea della tassatività delle sanzioni processuali, anche oltre la pervicacia di parte della dottrina e della giurisprudenza che ampliavano la nozione in termini di inesistenza e di abnormità. Eppure, ragionando, l’atto può essere invalido solo per effetto delle categorie contenute in quella disposizione, dal momento che le sanzioni processuali di origine giurisprudenziale hanno ad oggetto l’esistenza del potere legittimante all’atto (= inesistenza) o l’errore nell’uso inconsueto del legittimo potere (= abnormità); l’una e l’altra situazioni imprevedibili e neanche ora tipizzabili.
Nel secondo versante, suscita perplessità – lo si è detto – l’autonomia sanzionatoria della “decadenza”, dal momento che essa è costituita da un fatto-presupposto della invalidità di un atto di parte (nei termini di preclusione all’atto: cfr. direttive nn. 7.1; 62.12; 68.1; 75.2) e, quindi, di inammissibilità dell’atto, dovuta alla mancanza di un elemento tipico della fattispecie: es. il termine) o della inefficacia di un atto se compiuto (fuori termine) dal giudice. A meno che non si voglia ricondurre quest’ultima fattispecie alla tipologia degli atti a formazione progressiva, in cui si realizza la invalidità della fattispecie mancando l’atto (finale) dovuto per la sua validità.
In linea di principio, allora, la qualificazione di atto invalido si colloca sul piano strutturale e si riverbera su di un atto non corrispondente ad un dato modello astratto; mentre, nel profilo effettuale esso risulta inidoneo a produrre gli effetti correlativi. Quella di inefficacia, invece, si inserisce – autonomamente – nell’esercizio del potere giudiziale in quegli ambiti procedimentali in cui è dovuto – ed è richiesto – un comportamento giudiziale postumo all’atto valido che ne confermi la efficacia.
Ebbene, in entrambi i casi siamo nella categoria delle sanzioni processuali.
Pertanto, è priva di fondamento l’equivalenza invalidità = imperfezione = inefficacia in base al rilievo che non ogni atto difforme dallo schema è invalido, né lo è ogni atto improduttivo di effetti. Invero, se si consentisse ad ogni piccola divergenza di precludere la rilevanza dell’atto nella direzione finalistica in cui questo è orientato, si sottoporrebbe la vicenda processuale ad uno stato di generale e perenne incertezza. Peraltro, sebbene i vincoli formali e di contenuto degli atti attuino il principio di legalità processuale, un esasperato formalismo negherebbe a priori le condizioni per la definizione della vicenda processuale entro tempi che possano ritenersi ragionevoli, oltre che risolversi in una palmare menomazione del principio. Ed è di intuitiva evidenza il legame tra la ragionevole durata del processo e il dovere di lealtà processuale dei soggetti nell’esercizio delle proprie attribuzioni.
La relazione, invero, non rinvia ad un concetto di ontologia semantica, ma, ponendosi in una dimensione strettamente pragmatica, impone l’attenzione al corretto esercizio dei poteri processuali; anche se il fondamento dell’invalidità si sostanzia nel non assolvimento dell’onere e giustifica l’atteggiamento del legislatore che modula la disciplina del procedere secondo canoni di opportunità, mentre la ratio dell’inefficacia (intesa come sanzione non come effetto) si innesta nell’ambito della doverosità. Questi atteggiamenti, sotto il profilo sistematico, si sono tradotti in scelte di politica legislativa non rispondenti ad un’idea complessiva ed organica dei vizi afferenti al comportamento processuale.
In quest’ottica si spiega la frammentarietà della ripartizione codicistica, che presenta le sanzioni l’una disgiunta dall’altra, la decadenza come il trattamento riservato all’inosservanza dei termini; la nullità come l’effetto sanzionatorio collegato alle patologie dell’atto; la inammissibilità come vizio dello schema tipico della domanda di parte; l’inutilizzabilità come deviazione dai modi di acquisizione della prova; schematizzazione di cui si è denunziata contestuale parzialità e sovrabbondanza, ma della quale si sono evidenziate le ragioni funzionali – non solo di tecnica legislativa – utili all’inquadramento del concetto di sanzione processuale in termini processualpenalistici.
Di questo concetto – e, quindi, ai fini di rilevazione della ontologia che lo sostiene – è qui indispensabile il ricorso all’ultimo criterio rivelatore.
Invero, nel nostro ambito di osservazione, l’autonomia concettuale del termine riceve ulteriore punto di orientamento dal rilievo che, nonostante la presenza di atti viziati, la sentenza assume valore di giudicato. Ciò dirige la categoria nell’alveo dei rimedi interni (cioè non come categoria astratta o reattiva rispetto alla mortificazione giudiziale di un interesse, ma) come previsione di itinerari (questi sì) reattivi al vizio dell’atto, rivolti allo scopo di ripristinare la legalità processuale, valore coessenziale al sistema di garanzie della giurisdizione e per la giurisdizione.
Da questa ricostruzione dogmatica derivano postille irrinunciabili.
La prima. Nel nostro settore il sistema sanzionatorio si colloca nel duplice alveo preventivo e repressivo, assolvendo, l’uno, al ripristino della tipicità dell’atto (= invalidità), l’altro, alla rimozione di “atti a formazione progressiva” (= inefficacia) o di quelli che precludono l’esercizio del potere (= inutilizzabilità; inammissibilità).
La seconda. La tassatività delle sanzioni e la sua espressa predisposizione nella fattispecie normativa vietano il travasamento di ognuna di esse in situazioni in cui non v’è esplicita previsione. E’questo il senso della “tassatività”, non quello della categoria “chiusa”. In questi termini, va censurata ogni interpretazione che consente accostamenti tra “annullamento” e “nullità” o tra vizio di competenza funzionale (= abnormità) e capacità del giudice (= nullità).
La terza. A conferma, assume rilievo centrale l’osservazione secondo cui l’itinerario rimediativo è predisposto a salvaguardia di differenti valori costituzionali e, perciò, essi sono autonomi e non sovrapponibili, anche se tutti riconducibili al valore centrale della legalità del processo, costruita secondo lo schema logico-funzionalistico potere-atto-scopo. Nel ferimento di tale schema si rintraccia la matrice ontologica della sanzione processuale penale; che, quindi, si qualifica come onere di reazione alla fattispecie viziata, tutte le volte in cui il vizio non assurga a livelli di incompatibilità sistemica, violando garanzie fondamentali dell’individuo o del processo. In questo secondo ambito, la sanzione processuale assume ruolo “punitivo” attraverso la rimozione dell’atto valido (=inefficacia) o sottraendo al giudice la conoscenza di un atto invalido (=inutilizzabilità; inammissibilità): ma pure in questi ultimi casi la vicenda è interna al processo.
E, dunque, ritenuto che l’annullamento rappresenta il contenuto di una pronuncia (cfr. direttive nn. 9.1 e 49.3) e che comunque spetti al legislatore delegato la previsione generale delle invalidità ed il regime di rilevabilità di ciascuna (cfr. direttiva n. 30), la nullità – naturale vizio dell’atto – è richiamata espressamente in delega per calcare la funzione dello schema legale della sentenza (cfr. direttiva n. 25.1 e, più specificamente, n. 68.7 che naturalmente si estende al n.69) o per richiamare l’attenzione su diritti fondamentali (cfr. direttive nn. 30.2 e 86.3); la inammissibilità, come effetto di vizio della domanda di parte (cfr. direttive nn. 48.2; 61.5; 63.3) soprattutto quando essa è a tipicità vincolata (cfr. direttive nn. 91.1; 96.6; 99.1 e 104.1) e anche quando la richiesta abbia natura probatoria (cfr. direttiva n. 82.7), producendo così – come la decadenza – l’effetto della preclusione del potere decisorio, oppure come giudizio di non ammissibilità della valutazione richiesta (cfr. direttive nn. 7.3; 49.2; 91.2); ed, infine, la inutilizzabilità come categoria preclusiva del valore probatorio di atti compiuti per diversa finalità (cfr. direttive nn. 2.4; 54.3), fuori dei termini prescritti (cfr. direttive nn. 62.4 e 88.2) o non legittimamente acquisiti in dibattimento (cfr. direttiva n. 80.3), soprattutto per i vizi acquisitivi della prova (cfr. direttiva n. 32.1) o connessi a tassatività e/o tipicità della stessa (cfr. direttiva n. 54.3).

11. La prescrizione processuale

Il rapporto tra il fattore tempo e il procedimento penale è stato ritenuto, sin dall’inizio, uno dei problemi cardinali della riforma, ritenendosi ormai politicamente e giuridicamente indifendibile l’attuale disciplina della prescrizione del reato, almeno nella parte in cui estende i suoi effetti sul fenomeno processuale. Come è noto, infatti, tale disciplina è incardinata su un periodo di prescrizione del reato, che decorre nuovamente ogniqualvolta si verifichi un atto del procedimento ad efficacia interruttiva, purché non ne derivi un prolungamento del termine di prescrizione superiore ad un quarto del periodo-base (prima della l. 5 dicembre 2005, n. 251, c.d. ex Cirielli, il prolungamento non doveva superare la metà). Si finisce, in tal modo, per fondere e confondere in un unico compasso cronometrico il tempo dell’inerzia e il tempo dell’intervento giudiziario. Così disciplinato, l’istituto della prescrizione appare “in difficoltà di senso”. Non vi è una sola delle sue tradizionali (ma anche delle astrattamente concepibili) giustificazioni politico-criminali, che possa valere sia per la prescrizione maturata prima del processo, sia per quella maturata in itinere iudicii.
La Commissione, pressoché all’unanimità, ha prioritariamente ritenuto necessario risolvere questa ambiguità vocazionale distinguendo (come del resto avviene, pur con soluzioni anche sensibilmente diverse, in molti Paesi europei a noi vicini) la durata della punibilità dalla durata dell’accertamento giudiziario – alias, la prescrizione del reato dalla prescrizione del processo – diversi essendo la ratio, gli interessi in gioco, la tecnica di tutela, gli effetti, il parametro di commisurazione del decorso del tempo. Un conto, infatti, è la funzione di stabilità sociale che può essere svolta dalla non perseguibilità di fatti ormai lontani nel tempo; un conto è l’interesse della persona accusata di un reato ad essere giudicata entro un determinato termine. La prescrizione del reato “certifica” l’oblìo della collettività rispetto a fatti pregressi; la prescrizione del processo, la non ulteriore protraibilità della pretesa punitiva nei confronti di un soggetto, atteso che dopo un certo lasso di tempo l’accertamento del fatto-reato è ritenuto minusvalente rispetto al pregiudizio recato all’imputato dall’ingiustificato prolungarsi del procedimento giudiziario. Fenomeni differenti anche in ordine alle conseguenze del loro operare: la prescrizione del reato produce un effetto preclusivo erga omnes; la prescrizione del processo soltanto nei confronti dell’imputato. Il tempo della punibilità è un tempo cronologico, un tempo vuoto o, meglio, indifferente a tutto ciò che si materializza durante il suo fluire (indifferente, in particolare, alla condotta dei soggetti interessati); un tempo, il cui strumento di misurazione è il calendario. Il tempo dell’agire giudiziario è invece fenomeno giuridico – scandito dall’interazione dei protagonisti, dal susseguirsi di fatti interruttivi e sospensivi- il cui strumento di misurazione è la norma. Il tempo della prescrizione del reato scorre in modo lineare e costante, mentre quello del processo in modo discontinuo, conoscendo pause e riprese.
La sequenza attuale “periodo di base aumentabile di un quarto per l’intervento di fatti interruttivi”, dunque, salda tra loro realtà eterogenee con esiti insostenibili per il sistema. Riesce ad esempio difficile spiegare perché, a parità di gravità di reato (per es. a prescrizione decennale) e di complessità di accertamento, il processo possa durare più di dodici anni o poco più di trenta mesi a seconda che la notizia di reato sia emersa a ridosso della commissione del fatto o della scadenza del termine prescrizionale. Con la conseguenza, tra l’altro, che nel primo caso, l’autorità giudiziaria sa di poter gestire senza alcuna sollecitudine il processo; nel secondo, l’imputato sa di poter utilmente puntare, attraverso una oculata strategia dilatoria, alla prescrizione. Si tratta di una incongruenza che deve essere rimossa, perché dove manca la razionalità più facilmente si annidano l’arbitrio e l’ingiustizia.
Diversa sarebbe la situazione, se il processo avesse una sua autonoma durata legale, costante, pur nel variare – del tutto casuale- del momento di avvio.
Nell’accingersi ad introdurre una prescrizione processuale, al fine di restituire razionalità ed efficienza al sistema, la Commissione si è voluta far carico anche dell’idea, immeritevolmente diffusa, secondo cui la prescrizione – a maggior ragione quella processuale – sarebbe deputata ad assicurare la ragionevole durata del processo. Durante i lavori si è più volte ribadito che si tratta di un’affermazione doppiamente falsa (non a caso l’Italia può “vantare”, in ambito europeo, il maggior numero di proscioglimenti per prescrizione e il maggior numero di condanne da parte della Corte di Strasburgo per irragionevole durata dei processi): non è vero, infatti, né che sia sempre ragionevole la durata del processo che si inscriva nei termini prescrizionali (basti pensare ai reati imprescrittibili, che ammetterebbero processi potenzialmente “eterni”), né che sia sempre irragionevole quella che li travalichi (basti pensare ad un processo che riesce a prendere avvio soltanto in prossimità della scadenza della prescrizione del reato: quasi sempre non riesce a conseguire la sua finalità cognitiva, anche se svolto nei tempi strettamente necessari). La prescrizione, dunque, è istituto funzionalmente inidoneo a realizzare un processo di ragionevole durata, nel senso sopra precisato. L’ha chiarito benissimo già da molti anni la Corte di Strasburgo: la ragionevolezza temporale del processo non può essere determinata con l’enunciazione di un termine «in giorni, settimane, mesi, anni o periodi variabili a seconda della gravità del reato» (Corte eur. 10 novembre 1969, Stogmuller), poiché il criterio di ragionevolezza dipende dalle circostanze concrete della fattispecie, e si esprime soprattutto con valutazioni ex post dei provvedimenti adottati, le quali debbono tener conto di una varietà di parametri, che vanno dalla complessità del caso al numero degli imputati, dalla condotta dell’autorità giudiziaria a quella delle parti private. Il meccanismo prescrittivo –quindi- non è istituzionalmente vocato ad assicurare la ragionevole durata del processo; se ben calibrato può, semmai, indirettamente sollecitare un giustizia più rapida e, qualora fallisca, impedirne una dall’insostenibile durata.
Ma qui sta il vero cuore del problema. Nel manovrare lo strumento della prescrizione processuale, infatti, è doveroso avere una consapevolezza: si tratta di agente terapeutico e patogeno ad un tempo. Da un lato, induce nell’autorità giudiziaria sollecitudine ed economie organizzative per scongiurarla; dall’altra, spinge le parti private ad escludere definizioni anticipate e a protrarre con ogni mezzo il processo – soprattutto con un uso strumentale del diritto di impugnazione- per lucrarne gli effetti estintivi. Bisogna compiere il massimo sforzo per scongiurare questo deleterio “effetto collaterale”, senza rinunciare però alla funzione di garanzia e di “metronomo giudiziario”, che la prescrizione – ove sapientemente disciplinata – può svolgere.
Su queste considerazioni si è registrata una sostanziale unanimità in Commissione, mentre orientamenti diversificati sono emersi con riguardo alle modalità di realizzazione di tali obbiettivi, a seconda che si sia privilegiata la funzionalità del processo (intesa come capacità di assolvere il suo fine istituzionale di cognizione e di decisione) o la garanzia dell’imputato ad essere giudicato entro termini certi e legalmente predeterminati.
Una delle soluzioni più discusse, che ha registrato ampi e incondizionati consensi, ma anche ferme critiche, è così sintetizzabile. La ferita sociale del delitto può essere sanata in due modi: con la cicatrizzazione del tempo o con la “sutura” della risposta giudiziaria. La prima evenienza ricorre quando l’apparato giudiziario non sa, non vuole o non riesce ad intervenire: dopo un certo numero di anni la società valuta più funzionale alla stabilità sociale l’oblìo, piuttosto che la riesumazione dell’evento (prescrizione del reato). Quando, invece, prima che maturi la prescrizione del reato, gli organi giudiziari deputati promuovono l’accertamento della responsabilità, imputandola ad un soggetto determinato, non c’è più spazio per l’ “amnesia” estintiva del reato: la collettività vuole “ricordare” e giudicare. Ma ciò non può avvenire per un periodo indefinito: l’ accusato ha diritto di conoscere il responso giudiziario in un tempo congruo, decorso il quale, il giudice deve emettere un provvedimento di non doversi procedere ( prescrizione del processo). Se la sentenza, invece, viene pronunciata entro il termine previsto per la prescrizione del processo, si possono prefigurare due situazioni. 1) Il pubblico ministero impugna e – per il suo tramite – lo Stato implicitamente ammette che ancora non è stata fornita la “giusta” risposta giudiziaria in ordine all’accusa mossa: i termini di prescrizione del processo continuano a decorrere. Il giudice dell’impugnazione deve pronunciare una sentenza di non doversi procedere per prescrizione del processo, se questi dovessero maturare prima della sentenza sull’impugnazione. 2) Impugna il solo imputato per chiedere un controllo del fondamento della sentenza, che il p.m, e, per il suo tramite, l’ordinamento, ritengono invece “giusta”. La posizione soggettiva dell’imputato muta: da diritto ad essere giudicato entro un determinato tempo a diritto ad un controllo della correttezza del giudizio subìto. I termini della prescrizione non decorrono. Resta all’interessato la facoltà, comunque, di lamentare l’eventuale irragionevole durata complessiva del processo, ove questo si protragga ingiustificatamente. Anzi, è stato proposto, di prevedere che l’accertamento della irragionevole durata del processo da parte di istanza nazionale o sopranazionale possa dar luogo ad esiti che vanno dall’equo indennizzo alla ineseguibilità della pena. Una interessante soluzione intermedia è quella, affermatasi soprattutto in Germania, di concedere attenuanti in considerazione dell’entità del pregiudizio subito dall’imputato per l’irragionevole protrarsi del processo. Si è anche proposto di porre un ulteriore argine alla protraibilità incontrollata della durata del processo: prevedere termini di fase, la cui inosservanza colpevole comporti la responsabilità disciplinare del magistrato procedente.
Neppure con questi accorgimenti, la soluzione in questione è riuscita a catalizzare il largo consenso che, su un tema tanto delicato, sarebbe auspicabile. Né sono riuscite nell’intento altre proposte, pur a lungo e attentamente discusse, che si sono mosse all’interno della logica sottesa alla soluzione appena illustrata, per cercare di trovare un più convincente “spartiacque” tra prescrizione sostanziale e prescrizione processuale. Invece che nell’atto di esercizio dell’azione penale, è stato suggerito da alcuni di individuarlo nella formulazione dell’accusa durante le indagini preliminari (per portare sotto il presidio della prescrizione processuale la fase delle indagini preliminari), da altri nella sentenza di primo grado (per ricollegare ad un atto del giudice e non del pubblico ministero la decorrenza dei termini prescrizionali; nonché per la difficoltà di sottoporre a credibili cadenze temporali le fasi precedenti la pronuncia di primo grado).
Il punto di maggiore resistenza incontrato dalla proposta sinteticamente illustrata, e dalle sue interessanti variabili “interne”, è senza dubbio quello riguardante la non operatività del meccanismo prescrizionale a seguito dell’impugnazione del solo imputato. Alcuni componenti della Commissione, infatti, hanno ritenuto troppo alto il rischio che il processo –senza la prospettiva di un “capolinea” cronologico- venga lasciato andare alla deriva, inadeguate apparendo le controspinte esercitate dalla riduzione di pena e dalla responsabilità disciplinare del magistrato, nei casi in ui si registrino ingiustificati ritardi.
Di segno diverso sono state altre impostazioni -che hanno propiziato un approfondito dibattito, senza peraltro suscitare larga condivisione- nelle quali prevaleva la preoccupazione di garantire una sorta di diritto dell’imputato alla prescrizione. A parte quella intesa ad introdurre una modifica minimale all’assetto attuale – alla cui stregua il maturare della prescrizione sostanziale non interromperebbe il processo, né precluderebbe l’accertamento della responsabilità, ma imporrebbe comunque di dichiarare l’estinzione del reato – è stato anche proposto di ricostruire il sistema nel senso di ammettere che la prescrizione sostanziale operi sino alla sentenza di primo grado e che soltanto dopo la sua pronuncia scatti una prescrizione processuale cadenzata sui diversi gradi di impugnazione, indifferente al soggetto impugnante.
L’ipotesi che è riuscita a coagulare maggiori consensi e che si è tradotta nella direttiva in commento, è stata frutto di un non facile compromesso tra l’esigenza di scongiurare che la prescrizione possa costituire prospettiva agevolmente conseguibile per l’imputato, inducendolo a rinunciare ai riti speciali e a prolungare al massimo i tempi di conclusione del processo, e la preoccupazione che i tempi di questo si dilatino inammissibilmente nei gradi di impugnazione, qualora si stabilisca che la prescrizione non operi più dopo la sentenza di primo grado impugnata dal solo imputato. Ferma restando la scelta di escludere la dichiarabilità della prescrizione del reato nel corso del processo, cioè dopo l’esercizio dell’azione penale, si è prefigurato un sistema di termini di durata massima per le singole fasi e per i diversi gradi del processo, in modo da evitare che l’eccessivo protrarsi di un segmento processuale renda molto più “appetibile” e meno evitabile il maturare della prescrizione nel successivo. Nelle determinazione dei termini massimi di fase il legislatore dovrà tener conto di molteplici fattori, tra i quali, doverosamente, di indici di complessità del processo, i quali, più della gravità del reato, sembrano idonei a determinare una durata legale credibile della singola vicenda giudiziaria. Si tratta, certo, di un parametro di difficile determinazione, ma che marca qualitativamente la differenza tra la prescrizione del reato (tarata sulla gravità del fatto) e la prescrizione del processo (tarata sulle oggettive esigenze di accertamento del fatto). Un ulteriore strumento per modulare il fenomeno prescrizionale sul caso concreto è poi costituito dall’istituto della sospensione del decorso del termine, che deve peraltro essere declinato in una seria legalmente predeterminata di casi, ad evitare abusi applicativi. L’inosservanza del termine di fase o di grado comporterà l’obbligo del giudice, in ogni stato e grado del processo, di definirlo con sentenza dichiarativa dell’improseguibilità dell’azione, salvo che non ricorrano gli estremi per il proscioglimento nel merito.
Va precisato – e sul punto la Commissione si è a più riprese soffermata, addivenendo a conclusioni pressoché unanimi – che il processo, comunque si concluda (fisiologicamente, con una sentenza nel merito, ovvero con una pronuncia dichiarativa dell’improseguibilità dell’azione), è ininfluente sulle sorti della prescrizione del reato, i cui termini continuano a decorrere a prescindere dalla vicenda giudiziaria che di esso si occupa. E ciò non solo nei confronti dei soggetti diversi dall’imputato, con la conseguenza che – ove questi venga assolto – ben sarebbe possibile avviare un processo a carico di altri, se non è ancora maturata la prescrizione sostanziale; ma anche nei confronti dell’imputato stesso, con la conseguenza che, nei pochissimi casi in cui è consentito (sentenza di non luogo a procedere, erronea dichiarazione di morte,sopravvenienza della condizione di procedibilità originariamente carente), sarebbe consentito procedere di nuovo a suo carico, sempreché – ovviamente- il reato non si sia ancora prescritto. Si potrebbe conclusivamente dire che nella nuova disciplina la prescrizione del reato e quella del processo sono tra loro del tutto indipendenti, nel senso che l’una è ininfluente sull’altra e viceversa.

12. La giurisdizione

L’idea di fondo coltivata dalla Commissione in tema di giurisdizione è stata quella di far fare un ulteriore passo avanti al nostro processo – che affonda le sue origini nell’inquisitorio, è trascinato, con il codice dell’88, verso l’accusatorio ed è approdato, con l’art. 111 Cost., nello schema dell’“equo processo” – nella direzione di dotarlo di un maggior respiro “giurisdizionale”, di assegnare, in altri termini, un più ampio spazio alla “cultura della giurisdizione”.
La giurisdizione penale, come è noto, è uno di quegli argomenti al quale il legislatore del 1988 ha posto maggiore attenzione – si è parlato, infatti, di “preminenza della giurisdizione” –, invertendo l’ordine di trattazione contenuto nel vecchio codice, che iniziava con l’azione, ed esordendo con la disciplina concernente i soggetti e in particolare il giudice, proprio per esaltare la prevalente funzione di garanzia che il codice riveste.
Il segno è dato dall’art. 1 c.p.p. 1988, secondo il quale «La giurisdizione penale è esercitata dai giudici previsti dalle leggi di ordinamento giudiziario (art. 102 Cost.; art. 1 ord. giud.) secondo le norme di questo codice».
Ebbene, il contenuto della disposizione, di tono evidentemente recettizio è apparsa singolare e, per certi aspetti, pleonastico se lo si osserva esclusivamente in rapporto al suo oggetto. E viceversa, esaminata dal punto di vista simbolico e funzionale, la la norma assume più pregnante significato, dal momento che – storicamente – rappresenta il capovolgimento di una consuetudine legislativa risalente all’inizio della codificazione napoleonica e – politicamente – la rottura di una continuità d’impostazione codicistica rivolta a dirigere l’obiettivo sull’azione quale momento centrale dell’accertamento penale. Dal punto di vista simbolico, dunque, l’incipit codicistico rappresenta il superamento di una acritica continuità storica e all’interno dello stesso, l’abbandono del sistema processuale di tipo inquisitorio che ha caratterizzato – almeno nell’Europa continentale – le scelte sul processo penale da tempi risalenti. Da questo punto di vista il segnale è stato immediatamente colto dalla dottrina, anche perché – opportunamente – l’innovazione è esaltata nella Relazione al Codice.
Qui si legge che «per quanto in particolare attiene al capo I, dedicato alla giurisdizione, il codice e ancora prima il Progetto definitivo hanno accolto, con riguardo all’esercizio dell’azione penale, il suggerimento della Commissione parlamentare optando per la soppressione dall’art. 1 del Progetto preliminare dell’inciso di chiusura («salvo quanto stabilito da speciali disposizioni»), che avrebbe potuto assumere un significato ambiguo: poiché le sole giurisdizioni alle quali si riferiva la «salvezza» garantita dal detto inciso sono contemplate dalla Costituzione (Corte costituzionale e tribunali militari)» (Rel. def. C.p.p. 1988). Si afferma, perciò, in commento all’articolo in questione, che «le norme di apertura del nuovo codice, prima ancora che per contenuti, meritano di essere considerate per il significato innovativo che rivestono sul piano dell’assetto sistematico» e che esse manifestano « le novità di sistema: dall’azione alla giurisdizione», nonché, con toni più problematici, che esso rappresenta l’esordio del processo penale di parti.
Epperò, se è vero che il primo articolo di un codice risponde (=deve rispondere) ad esigenze simboliche capaci – in una con altri spunti testuali – di orientare interpreti ed operatori attraverso «messaggi programmatici» e «qualche principio generale» e così costituire guida esegetica e supporto utile anche a colmare inevitabili lacune mediante agli usuali strumenti di eterointegrazione normativa; e, di conseguenza, se è vero che, nel caso di specie, a quelle esigenze fa fronte un profondo mutamento di prospettiva rispetto al codice del 1930, che mette in risalto «una diversa filosofia di codificazione e, soprattutto, precise scelte sulle funzioni «istituzionali» del processo penale e sulle correlative attribuzioni dei soggetti chiamati a vario titolo a prepararlo, farlo vivere e definire», è anche vero che la disposizione (anzi, il capo intero), rifuggendo da tentazioni definitorie, delinea l’ambito operativo del giudice penale all’interno di un arco costituzionale che concretizza le ragioni di essenza e di legittimità della giurisdizione, oltrechè le garanzie ordinamentali per i magistrati ed i diritti fondamentali dell’individuo.
In questo contesto, giurisdizione-giudice-processo sono termini che evocano, non solo un contesto organizzativo, ma la rappresentazione – dal punto di vista oggettivo, soggettivo e strumentale – di un momento essenziale della vita sociale e giuridica «che non può essere compreso se non nella integrale contemplazione di quella vita e delle sue profonde strutture», nonché il senso della legittimazione democratica della giurisdizione penale, perché solo attraverso essa e nel processo si realizza il controllo diffuso della validità istituzionale delle leggi. Perciò, appare indispensabile raccogliere il senso del «primato della giurisdizione» recepito nell’art. 1 c.p.p. ‘88 ed oggi soprattutto nell’art. 11 Cost., nonché le ragioni dell’ampliamento della cognizione del giudice penale nel nuovo contesto codicistico.
Peraltro, la mancanza della «necessaria chiarezza» e della «concordia di idee» sul concetto di giurisdizione (denunciato da Redenti all’inizio del secolo scorso) ha avuto eco in una delle più recenti riflessioni di Salvatore Satta, che coglieva quei connotati negativi nella tendenza a «ricondurre la giurisdizione allo Stato, qualificandola come sua funzione di cui si ricerca il contenuto specifico, in contrapposto ad altre particolari funzioni» (S. Satta, voce «Giurisdizione (nozioni generali)», in Enc. dir., XIX, Milano, Giuffrè, 1970, p. 219). Questo atteggiamento della dottrina, come tutti gli sforzi tesi a definire lo «scopo» e i «compiti» della giurisdizione, derivano, in sostanza, dall’equivoco della entificazione dello Stato come ente «altro» dalla societas e dalla necessità dello stesso di «distinguersi» in poteri e/o funzioni, manifestate – appunto – dalla giurisdizione, dalla amministrazione, dalla legislazione.
In questo contesto si è sviluppata la tendenza ad unificare il dogma-giurisdizione ora come luogo di attuazione del diritto, ora come forma di composizione della lite, ora come realizzazione delle sanzioni; oppure come sostituzione dell’attività pubblica all’attività altrui e via dicendo, tutti connotati che ne sostituiscono «caratteri» non la essenza. Peraltro, siffatte definizioni, manifestando lo stretto legame tra legge e giurisdizione e soprattutto la supremazia assoluta della prima, sembrano legate ad un’idea di Stato liberale di diritto, non all’attuale Stato costituzionale ed alla centralità della persona e della societas che esso riconosce e dei bisogni cui esso fa fronte. Epperò, sia la filosofia dello «spirito aperto» - in virtù della quale «la costituzione si apre in avanti, al futuro, istituzionalizzo esperienze (aperture al passato) e lasciando spazio per gli sviluppi dello spirito dell’uomo e della sua storia» (K.R. Popper, La società aperta e i suoi nemici, II, Armando, Roma, 1974, p. 180) – sia, ed a maggior ragione, il costituzionalismo contemporaneo – per il quale la Costituzione deve essere intesa come stadio della cultura o come dimensione culturale attraverso la quale si cura la protezione dei bei fondamentali della persona (P. Haberle, Le libertà fondamentali nello Stato costituzionale, a cura di P. Ridola, Roma, 1993, 65) – riconoscono alla giurisdizione una posizione dinamica quale momento essenziale di organizzazione della societas:ed in questi termini si risolve il principio politico della tripartizione delle funzioni (o dei poteri) dello Stato. Ebbene, il punto di vista delle istituzioni politiche nonché l’assetto costituzionale e ordinamentale della giurisdizione confermano l’idea di chi reputa la giurisdizione come «fenomeno organizzativo della società», come «affermazione dell’ordinamento nel caso concreto» o come «concretamente dell’ordine giuridico» e, quindi, come situazione corrispondente alla giustizia, a condizione che essa non rinunzi, mai, ai suoi connotati di essenza: potere cognitivo e potere potestativo (S. Satta, op. cit., 128).
Osservando i testi normativi, la identificazione è fornita dall’art. 101 Cost. – per il quale la giustizia è amministrata in nome del popolo – e dalle norme dell’ordinamento giudiziario, ove si sviluppa la personalizzazione della «amministrazione della giustizia», vuoi quanto alle materie (l’art. 1 ord. giud., ad esempio, recita «La giustizia, nelle materie civile e penale, è amministrata: a) dal giudice di pace; b) omissis; c) dal tribunale ordinario; d) dalla corte di appello; e) dalla corte di cassazione; f) dal tribunale per i minorenni; g) dal magistrato di sorveglianza; h) dal tribunale di sorveglianza») vuoi quanto alla funzione l’art. 65 ord. giud., ad esempio, definisce la Cassazione come supremo organo di giustizia). Ebbene, la risoluzione della giurisdizione nella giustizia, per un verso, «assume valore strettamente giuridico assurgendo ad un autentico sinonimo dell’ordinamento»; per altro verso dimostra che «assume valore strettamente giuridico assurgendo ad un autentico sinonimo dell’ordinamento»; per altro verso dimostra che «l’area della giustizia è più vasta di quella della legge»: «essendo la legge astratta, è assolutamente impossibile (sul piano giuridico) parlare di giustizia per la legge, in quanto la giustizia si realizza in concreto ed ha un senso solo del concreto» (S. Satta, op. loc. cit.).
In questa opera di «personalizzazione» (=concretizzazione) del fatto si analizza la giurisdizione, che implica la radicale negazione di ogni rapporto formale e, in positivo, la ricreazione del diritto nel fatto, dal momento che diritto e fatto sono oggetti del giudizio e, quindi, esistono solo attraverso il giudizio; convinzione qui riportata, non nell’ottica della esigenza del superamento del rapporto di strumentalità tra diritto sostanziale e processo, qui in conferente, ma solo ai fini dei bisogni semantici e definitori del vocabolo “giurisdizione”.
Peraltro, di siffatta posizione dommatica, si rinviene autorevole testimonianza nell’art. 111 Cost. che combina i connotati di essenza del giudice con i bisogni del «giusto-processo» e, quindi, legittima la giurisdizione attraverso il rispetto delle regole di garanzia per l’individuo.
Siffatta definizione comporta dei corollari. Il primo. Proprio perché la giurisdizione esprime l’affermazione dell’ordinamento nel caso concreto, essa costituisce il luogo «naturale» ove esso si realizza. Come tale la giurisdizione è l’unico momento essenziale della organizzazione della societas, perché senza la giurisdizione verrebbe meno lo stesso ordinamento, o meglio la giuridicità dell’ordinamento, che è giuridico, appunto, solo in quanto può (e deve) essere afermato (S. Satta, op. loc. cit.). A causa di ciò essa ha riconoscimento costituzionale sia sotto il profilo delle garanzie della organizzazione dell’ordine delegato a gestirla (art. 102 ss. Cost.), sia sotto il profilo delle garanzie dei soggetti che la attuano (art. 101 e 112; 109 Cost.), sia, infine, sotto il profilo delle regole fondamentali che la guidano (art. 111 ss. Cost.) e dei diritti inviolabili dell’individuo (art. 24, 25, 13 ss., ecc. Cost.). Va aggiunto che la scansione dei diversi profili «organizzativi» - qui singolarmente non evocabili – costituiscono altrettanti aspetti della giurisdizione, convergenti nell’interna reciprocità strumentale e rivolti alla formalizzazione del «giusto processo» e della «giusta sentenza», espressioni che evocano il principio fondamentale della legalità non solo quale regola di condotta della giurisdizione, ma soprattutto quale fonte di legittimazione del «potere» che la pronuncia.
Dunque, la giurisdizione penale, intesa come potere attribuito al giudice imparziale di risolvere la controversia con una cognizione dei fatti in contraddittorio tra le parti poste in posizione di parità, si attua mediante il processo, e più esattamente, a norma dell’art. 111 comma primo Cost., «mediante il giusto processo regolato dalla legge». Trattandosi di un “fenomeno della vita”, è evidente che la giurisdizione non può essere ridotta ad un mero concetto. Nonostante la consapevolezza del valore convenzionale della definizione, poiché questa coglie soltanto una parte del fenomeno e non tutto, la stessa presenta, tuttavia, una grande utilità, in quanto orienta in ordine al riconoscimento del grado di garanzia che l’attività osservata assicura, o meglio, a livello di protezione che si vuole attribuire agli interessi anche processuali coinvolti nella contesa e, pertanto, in definitiva, alla scala di valori che si vuole disegnare con il modello di processo penale adottato.
Mentre la giurisdizione è unica, i modelli di processo nei quali essa si svolge possono essere diversi, perché diverse sono le fattispecie concrete e tale diversità si riflette fortemente nel modo in cui la giurisdizione si esplica; perché, appunto, “la giurisdizione è l’affermazione dell’ordinamento nel caso concreto”. Anche nel campo del processo, deve valere il principio di efficacia degli strumenti rispetto allo scopo. Quindi pluralità di modelli processuali correlati alla varietà e complessità delle situazioni concrete; scelta già operata dal legislatore del 1988 ma che ora va verificata in relazione alla loro disciplina e all’esistenza di altri eventuali meccanismi processuali di definizione di controversie non contemplati.
Il processo penale, invero, non è un laboratorio scientifico dove si ricerca la pura verità, ma un meccanismo tecnico – immerso nel mondo dei valori, che non possono non esprimersi in concetti – diretto agli obiettivi pratici di risoluzione delle controversie intercorrenti tra le parti nella prospettiva di realizzazione della giustizia.
Nella nozione di giurisdizione penale cui abbiamo accennato, come emerge anche dall’art. 111 Cost., balzano evidenti due concorrenti funzioni, una cognitiva e una potestativa. Perché si attui una piena giurisdizione entrambe devono essere presenti: questo è il canone aureo della decisione che definisce la controversia. La rilevanza della funzione cognitiva può facilmente cogliersi nella disciplina che, anche in un processo di parti, attribuisce al giudice l’ordinario e generale potere di acquisire la prova d’ufficio. Certo esistono alcuni atti del processo in cui appare prevalente l’una o l’altra funzione, a seconda degli scopi del singolo atto. Soltanto, però, dalla concorrente presenza, anche successiva al compimento dell’atto, dell’una e dell’altra si può dire realizzata la garanzia propria della giurisdizione, che è, soprattutto, tutela del diritto delle parti al processo. Le considerazioni valgono per la fase della cognizione – dove vengono in rilievo i temi del diritto al processo e dei diritti nel processo – e per la fase dell’esecuzione, dove emerge urgente la necessità di assicurare l’effettività della pena, ma non trascurare la protezione dei diritti del condannato.
Poste queste premesse, le questioni si iscrivono su due piani. Il primo quello dei modelli di processo penale possibili; il secondo quello del grado di attuazione della giurisdizione nel processo penale vigente.
A) Sul piano dei modelli:
1) Un argomento fondamentale è quello relativo al principio di obbligatorietà o di opportunità dell’azione penale. L’argomento, come è evidente, riguarda aspetti ordinamentali, ma non solo, perché condiziona la possibilità d’introdurre modelli più facilmente realizzabili dalla prospettiva di opportunità della persecuzione. È evidente, infatti, che sotto il profilo di efficacia del modello di processo penale, l’adozione del principio di opportunità dell’esercizio dell’azione penale allarga le possibilità di alternative al processo.
2) Risolta positivamente la questione intorno all’obbligatorietà dell’azione penale, si è dovuto agire negli spazi che vengono lasciati liberi da tale regola. E va mantenuto l’assetto attuale nel codice di un itinerario processuale ordinario costituito da indagine, udienza, dibattimento e impugnazioni, con la conseguenza che procedure diverse si caratterizzino per una maggiore rapidità determinata dalla presenza di situazioni – soggettive e/o oggettive – che suggeriscano la mancanza di qualche tappa di questo itinerario, sempre che l’imputato non manifesti diversa volontà.
In altri termini, delineato il modello ordinario di processo penale si specificano quelli ‘deviati’ (diversion), la cui pratica reale, però, è affidata al consenso della parte.
Comunque, va mantenuto sempre fermo il principio fondamentale che non esiste la funzione giurisdizionale senza l’esercizio dell’azione penale (ne procedat iudex ex officio). L’adempimento dell’una condiziona lo svolgimento dell’altra e ognuna di esse spetta a un soggetto diverso. Se così è, può essere solo collocata in un ambito di eccezionalità e auspicabilmente giustificata con parametri costituzionali, un’attività giurisdizionale che non sia conseguente all’esercizio dell’azione (per es. l’attuale disciplina dell’incidente probatorio nella fase delle indagini); così come va ricordato a “razionalità accusatoria” il decreto penale di condanna.
Peraltro, nonostante l’auspicio di parte della Commissione – soprattutto la componente accademica – non è risultata praticabile l’adozione di una vera e propria azione penale privata: utile per rendere più efficace e rapido il sistema penale; per dare una maggiore garanzia di tutela alla posizione dell’offeso e per dare attuazione alla ragionevole durata che, come è noto, è sempre in “funzione del primario interesse alla realizzazione della giustizia” (Corte cost., sent. n. 345 del 1987).
Peraltro, essa darebbe piena attuazione al “diritto alla giurisdizione”, che spetta ad ogni cittadino a norma dell’art. 24 Cost. (in proposito, v. Corte cost., sent. n. 137 del 1984 e 131 del 1996). La prospettiva, ancora, risulterebbe particolarmente utile in un sistema di esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero orientata dalla fissazione di criteri di selezione. È noto a tutti, infatti, che l’eccessivo carico giudiziario impone una selezione degli affari penali operata sulla base non di una indebita discrezionalità dell’organo d’accusa, ma di parametri dettati da criteri predefiniti. La quota degli esclusi sconterebbe una irragionevole ingiustizia se non potesse godere di un accesso al processo penale anche mediante azioni private, che realizza una maggiore protezione per la vittima offesa dal reato, né si può ritenere che un’azione privata per una quota di reati nei quali l’offesa al bene privato sia prevalente rispetto all’interesse generale della collettività.
L’innovazione si è però realizzata nel processo innanzi al giudice di pace (cfr. § 25).
Sempre in materia di giurisdizione, poi, si sono prese in considerazione le caratteristiche particolari delle fattispecie di criminalità organizzata al fine di congegnare una disciplina più appropriata in ordine all’uso dei mezzi di ricerca della prova e alle regole probatorie (cfr. §§ 12 e 14).
Si è fatto fronte al fenomeno del c.d. gigantismo del pubblico ministero, ampliando e definendo meglio la fase delle indagini, come procedimento in cui si svolge la giurisdizione: si è rinvigorito in sede dibattimentale, il rapporto fra prova e giudizio e rafforzata la funzione cognitiva della giurisdizione, eliminando canali di conoscenza “oscuri” che eludono, in qualche modo, il vero e proprio contraddittorio; non è risultato praticabile, il c.d. processo bifasico che esaltando la diversità delle caratteristiche della giurisdizione di accertamento rispetto a quelle concernenti l’applicazione della sanzione e le prospettive di rieducazione, evita che la pena irrogata sia o che possa essere completamente cambiata, e talora addirittura annullata, dal giudice di sorveglianza, sulla base di valutazioni riguardanti sopratutto la personalità del reo, fenomeno che comporta rimbalzi sulla effettività della pena.
In questa direzione, tuttavia, anche al fine di realizzare spinte premiali che consentano di anticipare la condanna all’udienza di conclusione delle indagini (cfr. § 19) si sono raccolte funzioni esecutive e funzioni di sorveglianza nell’unico giudice della pena (cfr. § 27).
Le direttive da 7.1. a 7.4., nel disciplinare il difetto di giurisdizione e l’incompetenza del giudice, si ispirano alla esigenza - ritenuta prioritaria dalla Commissione - di anticipare, per quanto possibile, la definizione delle questioni sulla competenza e, nel contempo, di evitare la regressione del procedimento alla sua fase iniziale, per effetto del tardivo rilievo o deduzione delle medesime questioni.
In questa prospettiva, la Commissione ha valutato positivamente l’opportunità di predisporre il regolamento preventivo di competenza, che non abbia peraltro efficacia sospensiva sul procedimento in corso e la cui soluzione sia affidata al pronto e risolutivo intervento della Corte di cassazione, organo naturalmente deputato a decidere in subiecta materia.
Si è avuto, pertanto, cura di prevedere analiticamente:
- la fissazione di perentori termini di decadenza per il rilievo e la deduzione delle questioni di competenza per qualsiasi causa, con l’unica eccezione riguardante il caso che il reato appartenga alla cognizione del giudice di competenza superiore;
- il generale divieto di regressione del processo alla fase delle indagini preliminari innanzi al pubblico ministero, fatta salva la rimessione in termini dell’imputato per l’esercizio, davanti al giudice competente, del diritto di accesso ai riti alternativi, in conformità alla ratio decidendi delle sentenze della Corte costituzionale nn. 76 e 214 del 1993 e n. 70 del 1996;
- il regime di conservazione di efficacia delle prove già acquisite, fatta salva la rinnovazione di quelle dichiarative davanti al giudice competente, secondo modalità prestabilite, nonché delle misure cautelari adottate dal giudice incompetente, all’esito peraltro della tempestiva convalida da parte del giudice competente;
- la perimetrazione delle distinte aree di operatività del regolamento preventivo di competenza e dei conflitti di competenza, alla cui tradizionale e ormai sperimentata disciplina si è ritenuto di non apportare sostanziali modifiche;
- la semplificazione delle forme del procedimento camerale di risoluzione del regolamento o del conflitto di competenza davanti alla Corte di cassazione, che decide immediatamente, in entrambi i casi, “con ordinanza e in camera di consiglio”;
- l’efficacia preclusiva endoprocessuale delle decisioni della Corte di cassazione in materia di competenza, con l’esclusivo limite dei “nova” che comportino una diversa definizione giuridica del fatto, da cui derivi la cognizione di un giudice di competenza superiore.
13. Gli atti

Nonostante il primo criterio direttivo della legge-delega del 1987 imponesse la «massima semplificazione nello svolgimento del processo con eliminazione di ogni atto o attività non essenziale» (art. 2, n. 1 L. 16 febbraio 1987, n. 81), la vigente codificazione è stata e continua ad essere caratterizzata da un particolare irrigidimento di forme, dal momento che, nel quadro dell’attuale sistema processuale, predominano gli atti a forma vincolata.
Estranea ai previgenti corpora normativi, una direttiva ad hoc in materia di forma degli atti s’imponeva soprattutto al fine di recepire quei criteri di efficienza coessenziali al principio del «giusto processo», privilegiando la conoscenza effettiva dell’atto processuale piuttosto che la fredda sacralità di forme non sempre “giustificate” dagli effetti cui l’atto medesimo è preordinato.
In questo senso, rispetto all’art. 2 n. 8 della legge-delega n. 81 del 1987 («adozione di strumenti opportuni per la documentazione degli atti processuali; previsione della partecipazione di ausiliari tecnici nel processo per la redazione degli atti processuali con adeguati strumenti, in ogni sua fase; possibilità che il giudice disponga l’adozione di una diversa documentazione degli atti processuali in relazione alla semplicità o alla limitata rilevanza degli stessi ovvero alla contingente indisponibilità degli strumenti o degli ausiliari tecnici»), la direttiva n. 23.1 esordisce delegando il legislatore tecnico quanto alla «determinazione della forma degli atti e delle modalità di documentazione» e continua (n. 23.2.) prevedendo «l’uso di mezzi elettronici e telematici nelle relazioni tra i soggetti del processo».
Le due disposizioni tendono inequivocabilmente a garantire la massima duttilità nella circolazione degli atti del procedimento. Nondimeno, il principio di legalità processuale è salvaguardato dall’espresso riconoscimento di una discrezionalità legislativa volta a prevedere forme ad hoc in relazione a particolari esigenze.
Con riferimento specifico ai modi della circolazione, la direttiva n. 23.2. esprime la massima apertura alle innovazioni tecnologiche che siano in grado di accelerare la diffusione della conoscenza degli atti processuali.
Del pari ignote alle precedenti leggi-delega, le disposizioni di cui ai n. 23.3. e 23.4. ineriscono al regime dei termini nel processo penale.
Trattasi, in primo luogo, dei termini perentori, da predeterminare «per atti specificamente individuati». La necessità di attribuire espressamente siffatto potere al legislatore delegato deriva dalla proprio dalla natura di tali termini, i quali, fissati per la costituzione, lo svolgimento o la conclusione di un processo, sono destinati a coincidere con un momento trascorso il quale il soggetto decade dal diritto ovvero dalla facoltà di compiere fruttuosamente un determinato atto.
In prospettiva correlata, concernendo termini previsti a pena di decadenza e/o inammissibilità, la direttiva n. 23.4. impone al legislatore delegato di «prevedere specifiche ipotesi di restituzione nel termine nel caso in cui le parti provino di non averlo potuto osservare per caso fortuito o forza maggiore».
A parte quanto si dirà a proposito della notificazione della citazione, la disciplina delle notificazioni non introduce novità di rilievo: la direttiva 24.1 rimette al legislatore delegato la predeterminazione delle forme e dei modi per le notificazioni, indicando soltanto il criterio guida della semplificazione del sistema. La semplificazione potrà aver luogo anche mediante il ricorso ai più moderni sistemi di comunicazione, di cui è dato un esempio specifico nella direttiva 24.9, che fa riferimento alle notificazioni al difensore mediante posta elettronica.
Il sistema cambia radicalmente per quanto riguarda la notificazione della citazione contenente la contestazione dell’accusa, che deve essere sempre consegnata nelle mani dell’imputato (direttiva 24.2). La norma è la premessa per l’abolizione del processo in contumacia come attualmente configurato, sostituito dalla sospensione del dibattimento a tempo indeterminato quando all’imputato non comparso la notificazione non è stata effettuata personalmente; mentre se l’imputato ha ricevuto a mani la citazione si può dare per certa la sua conoscenza del procedimento e, in caso di mancata comparizione, si può procedere in sua assenza (si veda la direttiva 71 e la relazione sul punto). Non è dunque ammessa, per la citazione, la notificazione a persone diverse dall’imputato, anche se conviventi; come pure, a maggior ragione, non è sufficiente il semplice avviso di deposito con lettera raccomandata, che assicura la mera conoscenza legale dell’atto. Soltanto il rifiuto di ricevere l’atto è considerato equivalente alla conoscenza effettiva (direttiva 71.1).
Date le conseguenze della mancata consegna nelle mani dell’imputato, era necessario evitare che potesse risultare troppo facile sottrarsi alla notificazione, paralizzando così la prosecuzione del dibattimento. E’ stato pertanto stabilito che la notificazione non riuscita debba essere ripetuta dalla polizia giudiziaria, anche con l’impiego di poteri coercitivi, che consentano l’accesso forzoso nei luoghi dove si può reperire l’imputato. A riguardo la direttiva 24.4 prevede l’emissione, da parte dell’autorità giudiziaria, di un ordine di notificazione coattiva, e la direttiva 24.5 la sua esecuzione da parte della polizia giudiziaria. Alcuni commissari hanno ritenuto sproporzionato l’accesso forzoso nel domicilio privato solo per eseguire una notificazione a mani. L’istituto è stato però disciplinato in modo da consentirne l’impiego solo se impossibile procedere altrimenti: infatti, secondo la direttiva 24.3, in caso di impossibilità di consegna personale, l’atto deve essere depositato e l’imputato invitato a ritirarlo, e soltanto in caso di mancato ritiro entro il termine stabilito si può procedere a notificazione coattiva. Inoltre nella direttiva 24.5 si specifica che l’accesso è destinato solo alla notifica, e non può essere strumentalizzato per altri fini. Se poi la polizia giudiziaria, in presenza di un ordine di notificazione coattiva, reperisce in altro modo, anche occasionalmente, il suo destinatario, ha il potere di accompagnarlo nei propri uffici per la consegna dell’atto, ed esclusivamente a questo scopo (direttiva 24.6). In ogni caso dovranno essere adottate le cautele necessarie alla tutela dei diritti della persona.
La direttiva 24.7 impone all’imputato che abbia ricevuto personalmente la citazione, l’obbligo di eleggere domicilio per le successive notificazioni. In mancanza le successive notificazioni saranno eseguite presso il difensore. La concreta disciplina dell’elezione di domicilio e delle notificazioni al difensore è rimessa al legislatore delegato
Una disciplina diversa deve invece essere adottata quando si tratti di imputato latitante (che cioè si è sottratto deliberatamente all’esecuzione di un provvedimento dell’autorità giudiziaria), poiché la procedura descritta in tal caso si rivela ovviamente insufficiente; tanto più che la latitanza presuppone sempre un reato relativamente grave. Lo stesso si può dire per l’imputato irreperibile nel caso di delitti di criminalità organizzata o di terrorismo, che presuppongono un contesto nel quale può essere assicurata una irreperibilità di lunga durata, difficilmente superabile con l’ordine di notificazione coattiva. In queste ipotesi, coerentemente con la scelta di consentire il processo in assenza ove risulti la volontà dell’imputato di sottrarsi alla conoscenza del procedimento (direttiva 72), dovranno essere stabilite regole specifiche per la notificazione della citazione, ad esempio la consegna al difensore (direttiva 24.8).
La direttiva 25.1., nel disciplinare, tra i requisiti della sentenza, i contenuti della motivazione, s’ispira innanzitutto alla esigenza di costruire, nel contesto del libero (ma non arbitrario) convincimento del giudice, il modello legale della motivazione “in fatto” della decisione, nella quale risulti esplicito il ragionamento probatorio sull’intero spettro dell’oggetto della prova, che sia idoneo a giustificare razionalmente la decisione secondo il modello inferenziale indicato, per la valutazione delle prove, nella successiva direttiva 33.1.
Con particolare rigore, all’esito di un ampio dibattito, è stata sottolineata l’esigenza, coerente con il processo di tipo accusatorio, che risultino enunciate nella motivazione della sentenza anche le ragioni poste a fondamento del giudizio di inattendibilità delle prove contrarie acquisite.
La Commissione ha considerato che solo la motivazione in fatto così rigorosamente costruita, con riguardo alla tenuta sia “informativa” che “logica” della decisione, possa costituire l’effettivo paradigma devolutivo sul quale posizionare la facoltà di impugnazione delle parti e i poteri di cognizione del giudice dell’impugnazione, con specifico riferimento ai capi e ai punti della decisione ai quali si riferisce la medesima impugnazione, nonché alle prove di cui si deduce l’omessa assunzione, ovvero l’omessa o erronea valutazione: in tal senso, la direttiva 25.1. ben si raccorda con la successiva direttiva 94.2. in materia di appello.
La direttiva 25.1. concerne esclusivamente i profili innovativi del contenuto della motivazione, potendosi poi arricchire, in sede di attuazione della delega, mediante l’enumerazione degli altri, tradizionali, requisiti della sentenza; così come la successiva direttiva 25.2, che pure rinvia ai decreti attuativi la precisa predeterminazione dei casi di nullità della sentenza.
La direttiva 26 definisce la tipologia delle sentenze di merito che il giudice è chiamato a pronunciare, evidenziando in particolare le regole di giudizio da applicare secondo i principi generali del processo penale ed in conformità ai parametri costituzionali, fra i quali in primo luogo la presunzione di non colpevolezza, sulla quale deve sempre essere misurata la decisione. Viene riproposto testualmente il criterio dell’accertamento della colpevolezza “al di là di ogni ragionevole dubbio” (26.1), riprendendo la dizione recentemente introdotta nel codice di rito, che formalizza un dato ormai acquisito dalla dottrina e dalla migliore giurisprudenza. Anche se la formula rituale si addirebbe più propriamente alle istruzioni da fornire alla giuria popolare, che non all’operato di giudici professionali consapevoli che il dubbio favorisce sempre l’imputato, il principio in essa sintetizzato non può essere trascurato, allo scopo di destituire di fondamento qualunque interpretazione tendente ad addossare forme più o meno velate di onere probatorio all’imputato, in maniera sicuramente incompatibile con l’art. 27 comma 2 della Costituzione. In questa prospettiva, la direttiva 26.2 ribadisce che l’insufficienza o contraddittorietà della prova comporta l’assoluzione dell’imputato, allo stesso modo della prova del tutto mancante.
La medesima direttiva 26.2, insieme alla 26.3, richiama l’esigenza di adeguare le formule di assoluzione o di proscioglimento alle conclusioni raggiunte nell’accertamento. Si è deciso di non abolire tale differenziazione, perché servente, al tempo stesso, ai diritti e alle facoltà della parte civile e alla legittimazione all’impugnazione. Le direttive sottintendono la tassatività delle suddette formule, insieme col dovere di farne menzione nel dispositivo della sentenza. Per l’indispensabile raccordo con la direttiva 65.1, viene inclusa fra le cause di assoluzione o proscioglimento anche la particolare tenuità del fatto, che può evidentemente essere accertata anche dopo l’esercizio dell’azione penale.
Resta fermo, anche se non è parso necessario farne espressa menzione, il principio generale dell’immediata declaratoria delle cause di non punibilità. Il dovere del giudice di disporre d’ufficio il proscioglimento resta implicito nella direttiva 27.4, che si preoccupa principalmente di riconoscere il diritto dell’imputato al proscioglimento nel merito anche in presenza di una causa di estinzione del reato, e il correlativo dovere del giudice di non dichiarare l’estinzione del reato quando sia possibile il proscioglimento pieno.
E’ stata molto discussa in Commissione l’opportunità di una previsione generalizzata della rifusione delle spese processuali all’imputato prosciolto, in aggiunta a quella introdotta dalla direttiva 91.2 per il giudizio di impugnazione nel caso di inammissibilità o di rigetto dell’impugnazione proposta dal pubblico ministero. Anche se l’affermazione del principio ha un forte valore ideologico e di civiltà giuridica, non si possono nascondere gli inconvenienti che - a prescindere dagli aspetti economici, assai rilevanti in un sistema nel quale le sentenze di proscioglimento sono circa il cinquanta per cento - potrebbero derivare da una sua attuazione rigorosa, che potrebbe prestarsi a facili strumentalizzazioni. Si è dunque concluso per la necessità di prevedere forme di salvaguardia, con riferimento sia alle formule di proscioglimento che possono dar luogo alla rifusione delle spese, sia ai presupposti specifici, mediante la clausola dei “giusti motivi”, rimettendo al legislatore delegato la messa a punto di un sistema equilibrato, sulla base dei criteri indicati.
Ripetitiva della formulazione utilizzata nell’art. 2, n. 26 della legge-delega del 1987, l’attuale direttiva n. 27 impone – sulla scorta di consolidata tradizione – al giudice penale di decidere, in sede di condanna, anche sull’azione civile esercitata nel processo penale. Quando condanna l’imputato (e l’eventuale responsabile civile) al risarcimento del danno, è tenuto a provvedere contestualmente alla liquidazione, salvo ce le prove acquisite non lo consentano. Solo in questa ipotesi gli sarà consentito rimettere le parti innanzi al giudice civile e la parte civile potrà allora ottenere la condanna al pagamento di una provvisionale.. La condanna alle restituzioni ed al risarcimento del danno, viceversa, può essere dichiarata provvisoriamente esecutiva, a richiesta della parte civile, quando ricorrono giustificati motivi valutati discrezionalmente.
Le direttive n. 28 e n. 29 riguardano il regime dei segreti nel processo.
Parzialmente coincidente con l’art. 2 n. 70 della legge-delega del 1987, la direttiva n. 28 conferma la legittima opponibilità del segreto di Stato, fatti salvi i casi di reati diretti all’eversione dell’ordinamento costituzionale, nonché del segreto professionale, ivui compreso quello giornalistico limitatamente alle fonti delle notizie, salvo che le notizie stesse siano indispensabili ai fini della prova del reato per cui si procede e la loro veridicità possa essere accertata soltanto attraverso l’identificazione della fonte della notizia.
Innovativa, rispetto all’omologa direttiva del 1987, la n. 28.5. – in una logica di strategia complessiva di contrasto al crimine organizzato – riconosce al pubblico ministero il potere di trasmettere copia di atti del procedimento ed informazioni circa il loro contenuto ad una diversificata congerie di organi amministrativi quali il presidente del Consiglio dei ministri (per le esigenze di sicurezza della Repubblica), il ministro dell’Interno ed i Prefetti (per finalità di prevenzione di gravi delitti), l’Amministrazione finanziaria, il Procuratore regionale presso la Corte dei conti competente per territorio, nonché, infine, le Autorità indipendenti per l’esercizio delle rispettive attribuzioni.
In prospettiva diversificata, la direttiva n. 29 riguarda il segreto sugli atti investigativi. Anche in questo caso, a parte una precisazione di ordine linguistico sub n. 29.2. (divulgazione e pubblicazione, in luogo di pubblicazione) è stata sostanzialmente riprodotta la direttiva n. 71 del 1987, la quale garantisce il segreto investigativo degli atti di indagine, sino a quando l’imputato (ma anche la persona sottoposta ad indagini) non possa averne conoscenza e comunque non oltre la chiusura delle indagini preliminari. All’obbligo del segreto è correlato un generalizzato divieto di divulgazione e di pubblicazione, dettato, per un verso, dalla medesima esigenza di tutelare l’efficacia delle indagini e, per altro verso, dalla necessità di tutelare i c.d. soggetti deboli.

14. La prova

Le direttive sulle prove mantengono come base di partenza la disciplina originariamente introdotta con la riforma del 1988. Il libro quarto del codice era forse uno dei meglio riusciti, rappresentando, sia pure con qualche comprensibile imperfezione e qualche ambiguità di dettato che sono state messe in evidenza dalla pratica, un corpo normativo solido e coerente che si ispira alla migliore tradizione scientifica, rivisitata alla luce del modello accusatorio.
Soltanto in alcuni casi si è ritenuto necessario aggiornare o riformulare completamente le norme, come ad esempio per quanto riguarda le intercettazioni e i prelievi coattivi di materiale biologico, che richiedevano da tempo un intervento organico del legislatore; mentre di regola si è proceduto soltanto a correzioni e ad un migliore coordinamento, anche in ragione del nuovo assetto complessivo del sistema disegnato con l’attuale delega.
La prova rappresenta sempre il punto centrale dell’esperienza processuale, e la relativa disciplina contribuisce a qualificare e caratterizzare l’intero contesto del codice.
Fra le disposizioni generali, non si poteva che esordire col riconoscimento espresso del diritto alla prova, principio non solo da tempo acquisito nella nostra cultura giuridica, ma oggi consacrato anche dall’articolo 111 della Costituzione, oltre che dalle carte internazionali dei diritti. La direttiva 31.1, che peraltro riproduce sostanzialmente, con una formulazione più appropriata, la direttiva corrispondente della delega del 1987, attribuisce in termini generali al pubblico ministero e alle parti private il diritto all’ammissione e all’acquisizione delle prove non vietate dalla legge, che non siano manifestamente superflue o irrilevanti. Viene espressamente richiamato, inoltre, il divieto di impiegare metodi lesivi della libertà morale della persona. Per le modalità di ammissione della prova in dibattimento va fatto riferimento alle direttive 74 e 75.
L’unica limitazione al diritto alla prova è prevista nei processi di criminalità organizzata, per fattispecie tassative che dovranno essere specificate dal legislatore delegato (direttiva 31.2). Nonostante alcune opinioni favorevoli alla totale abolizione del potere del giudice di rifiutare la ripetizione dell’esame dibattimentale dei soggetti già sentiti in contraddittorio, è infine prevalsa l’esigenza di preservare il buon andamento dei giudizi più complessi e difficili, tra cui in particolare quelli per reati di mafia, tutelando contemporaneamente il dichiarante dai rischi connessi, in quel tipo di processi, ad una ripetuta esposizione al pubblico. Del resto, nonostante il sacrificio dell’oralità/immediatezza, il principio costituzionale del contraddittorio resta salvaguardato, dato che si richiede che al contraddittorio abbia preso parte la persona nei cui confronti le dichiarazioni sono destinate ad essere utilizzate. Logico corollario è che il giudice deve sempre ammettere l’esame se riguarda fatti diversi da quelli oggetto delle dichiarazioni precedentemente rese; è poi enunciata una clausola di chiusura che prevede comunque l’ammissione dell’esame sulla base di specifiche esigenze, che potranno essere di volta in volta apprezzate dal giudice od anche prospettate dalle parti.
Vengono infine confermate le analoghe cautele già stabilite dal codice vigente con riferimento ai testimoni minori di anni sedici, come forma di protezione da un evento traumatico qual è la deposizione in dibattimento sui fatti che li hanno visti coinvolti. Pure in questa ipotesi i casi dovranno essere predeterminati dal legislatore delegato, il quale potrà prendere in considerazione anche reati diversi, benché non meno gravi, di quelli di violenza sessuale e di pedofilia attualmente contemplati come presupposto per l’esclusione del dovere di sentire il testimone minore.
La direttiva 31.3 riconosce in via generale, e non solo per la fase del dibattimento, il potere del giudice di ammettere prove d’ufficio ove risulti assolutamente necessario ai fini della decisione. Viene tuttavia specificato che deve trattarsi di elementi di prova “ulteriori” rispetto a quelli introdotti dalle parti, e ciò ad evitare che il giudice possa sostituirsi alle parti nella ricerca e nell’acquisizione al processo dei dati occorrenti per l’accertamento dei fatti, svolgendo un’attività di carattere inquisitorio che ne pregiudicherebbe inevitabilmente la terzietà. E’ comunque prevista la facoltà delle parti di chiedere, all’esito, l’ammissione di nuove prove, in aggiunta al diritto, già riconosciuto dalle Sezioni unite della Cassazione e dalla giurisprudenza prevalente, di ottenere che alla prova acquisita d’ufficio faccia seguito l’ammissione delle eventuali prove contrarie.
La direttiva 32.1 indica l’inutilizzabilità come forma specifica di invalidità per le prove vietate dalla legge. Non si è precisato nella delega il regime dell’invalidità, con riferimento, ad esempio, alla sua rilevabilità e agli effetti sul provvedimento che abbia tenuto conto della prova inutilizzabile. Nonostante un’ampia discussione ed alcune proposte avanzate in Commissione, si è ritenuto preferibile rimettere la concreta disciplina alle scelte del legislatore delegato, che dovrà coordinarla con quella relativa alle altre specie di invalidità e al regime delle impugnazioni. La stessa conclusione è stata raggiunta per quel che riguarda il riconoscimento della possibilità e delle eventuali conseguenze di un’acquiescenza delle parti.
L’ammissione delle prove non disciplinate dalla legge è consentita dalla direttiva 32.2 previo contraddittorio delle parti, che dovranno essere sentite non solo sulle modalità di assunzione della prova, ma sull’ammissibilità stessa della prova atipica. Ciò significa fra l’altro che il mezzo di prova, che fosse stato acquisito al di fuori del procedimento probatorio espressamente nominato dal codice, non potrà essere considerato ammissibile a posteriori, in ragione della sua pretesa atipicità, ma dovrà essere preventivamente qualificato come tale con un formale provvedimento da assumersi in contraddittorio.
In particolare, per eliminare una prassi corriva che talvolta trova credito in giurisprudenza, si è ritenuto necessario specificare che non può mai essere considerata prova atipica la prova acquisita in violazione delle norme che regolano il procedimento probatorio tipico: in altre parole, la prova disciplinata dalla legge, ma irritualmente acquisita, non può essere ammessa come prova atipica, perché ciò consentirebbe l’aggiramento del principio di legalità della prova. Così, nella medesima direttiva si esclude che la prova illegittima perché non conforme al modello legale possa diventare ammissibile come se non fosse prevista dalla legge: essa sarà comunque soggetta alle conseguenze stabilite dalle norme sull’invalidità, a seconda del tipo di violazione, fino alla nullità o all’inutilizzabilità.
Con la direttiva 32.3 si è voluto ribadire, anche se forse lo si sarebbe potuto ritenere implicito, il divieto di ammettere come prove atipiche quelle che violino la libertà morale della persona: nessuno strumento, ancorché oggi non immaginabile, inteso a forzare la psiche dell’individuo può trovare spazio in un processo rispettoso dei diritti individuali.
Nella direttiva 33 si fa riferimento al principio del libero convincimento del giudice, con una formula che lo collega, com’è ovvio, al dovere di motivare la decisione (per la specificazione dei requisiti della motivazione della sentenza si rimanda alla direttiva 25 e al relativo commento). Viene sottolineato, anche se dovrebbe darsi per scontato, che il libero convincimento può esercitarsi soltanto sulle prove legittimamente acquisite, dato che il principio di legalità della prova non può essere superato dalla personale opinione del giudice maturata al di fuori dei canoni stabiliti dalla legge. Non mancano infatti tuttora orientamenti giurisprudenziali tendenti a degradare le prove illegittime ad elementi di probatio minor ma pur sempre valutabili, in nome di un libero convincimento inteso come esercizio di un potere sottratto a limiti legali.
La direttiva 33.2 contempla, senza definirla, la prova indiziaria, prevedendo la necessità che la legge imponga una particolare cautela nella sua valutazione, sulla base di criteri specifici e più rigorosi; lo stesso si richiede per quanto riguarda i contributi narrativi dei quali, secondo la regola di esperienza già attualmente codificata, è meno probabile l’attendibilità, provenienti da coimputati o imputati di reato connesso o collegato.
Passando dalle disposizioni generali a quelle concernenti i singoli mezzi di prova, la direttiva 34 disciplina la testimonianza, secondo criteri da tempo consolidati. Tutti hanno la capacità di testimoniare, nonché l’obbligo di presentarsi al giudice e di rispondere secondo verità; la legge tuttavia deve prevedere casi di incompatibilità (ad esempio per i soggetti che partecipano ad altro titolo al processo) e facoltà di astensione, come quella dovuta alla tutela dei prossimi congiunti o all’esistenza di un segreto professionale o d’ufficio. La disciplina dei segreti è contenuta nella direttiva 28, in quanto limite di carattere generale non solo al dovere di testimoniare ma anche ai poteri di indagine del pubblico ministero.
La direttiva 34.2 ammette in linea di principio la testimonianza indiretta. Tuttavia, trattandosi di una prova che viene acquisita in deroga al principio di oralità/immediatezza, si prevede la necessità di una verifica, che normalmente avrà luogo mediante l’audizione del teste di riferimento, e un’utilizzabilità limitata, che non consenta di sostituire il testimone indiretto a quello indiretto se non nei casi in cui non sia possibile procedere altrimenti, e sempre che non si tratti di notizie di cui è ignota la fonte. Viene ribadito invece dalla direttiva 34.3 il categorico divieto di testimonianza della polizia giudiziaria sulle dichiarazioni ricevute nel corso delle indagini da testimoni (oltre che dai soggetti indagati), che rappresenta una delle chiavi della separazione tra indagini preliminari e dibattimento caratterizzante il sistema in senso accusatorio. Non a caso era partita dall’abrogazione di tale regola l’involuzione in senso inquisitorio propiziata dalla giurisprudenza costituzionale del 1992.
Nella direttiva 34.4 si prevede la possibilità dell’esame a distanza dei testimoni e degli imputati di un reato connesso, in casi tassativamente predeterminati e con le dovute garanzie. Nonostante alcune perplessità che continua a suscitare in linea di principio la sostituzione del collegamento audiovisivo al contatto diretto del dichiarante col giudice, occorre dare atto che l’istituto ha dato finora buona prova, superando anche il vaglio della Corte costituzionale.
La direttiva 35 contiene il catalogo delle prove tipiche che debbono essere disciplinate espressamente dal codice. Non ci sono indicazioni specifiche per ciascun mezzo di prova, se non quelle concernenti le garanzie minime imprescindibili: fra queste, la facoltà di non rispondere dell’imputato e delle altre parti private esaminate come tali, la tutela dell’attendibilità delle ricognizioni (al medesimo fine la direttiva 61.2 stabilisce che alle ricognizioni si proceda di regola con incidente probatorio), i poteri del giudice nella perizia, il divieto di acquisizione dei documenti anonimi. La direttiva 35.6, nella logica della semplificazione, consente l’acquisizione a fini di prova delle sentenze irrevocabili.
Con la direttiva 36 si prevede l’abolizione del dovere di testimoniare dell’imputato che nel corso delle indagini preliminari abbia reso dichiarazioni concernenti la responsabilità di altre persone. La cosiddetta “testimonianza assistita” ha distorto il fondamentale principio nemo tenetur se detegere e ha creato complicazioni - spesso inutilmente, in considerazione dei modesti risultati pratici - per la doppia veste, di imputato e di testimone, attribuita al medesimo soggetto.
La testimonianza obbligatoria dell’imputato non è necessaria, contrariamente a ciò che spesso viene sostenuto, per realizzare il contraddittorio nella formazione della prova e il diritto al controesame: il principio del contraddittorio non implica affatto che tutte le prove a carico debbano essere acquisite, specie se ciò entra in conflitto col diritto di difesa del dichiarante. La soluzione più equilibrata resta quella che prevede l’inutilizzabilità delle precedenti dichiarazioni dell’imputato su fatto altrui acquisite senza contraddittorio; tanto più che, se è necessario che tali dichiarazioni non vadano perdute, lo strumento di elezione dev’essere l’incidente probatorio. Anche la Corte europea dei diritti dell’uomo si è espressa nel senso appena indicato.
L’incompatibilità a testimoniare dell’imputato in procedimento connesso o collegato viene pertanto ripristinata, con l’unica, ragionevole eccezione nel caso in cui l’imputato sia uscito dal processo conclusosi con una sentenza irrevocabile, anche di condanna. Non è peraltro esclusa la testimonianza volontaria, e non coercibile, dell’imputato in dibattimento, che al momento dell’esame davanti al giudice decida di farlo, nella piena consapevolezza delle conseguenze della sua scelta (sul modello del vigente art. 210 comma 6 c.p.p.). In tal caso non c’è bisogno di distinguere tra i tipi di connessione o di collegamento, e l’acquisto della qualifica di testimone è indipendente dal fatto di aver reso dichiarazioni nei confronti di altri in sede i indagini preliminari.
Va da sé che la medesima ratio consente di ritenere ammissibile la testimonianza volontaria dell’imputato anche in sede di incidente probatorio; e che in ogni caso, pur trattandosi di testimonianza, andranno applicate le regole di valutazione della prova indicate alla direttiva 33.2 per i contributi narrativi provenienti da soggetti che abbiano interesse a un determinato esito del procedimento.
La direttiva 36.4 prevede che in tutti i casi in cui l’imputato assume la qualità di testimone debbano essere assicurate garanzie contro l’autoincriminazione, che vanno dal diritto di non rispondere a singole domande all’eventuale assistenza del difensore. La norma è dettata con specifico riferimento alla testimonianza su fatti concernenti la responsabilità di altri, ma non se ne esclude l’applicabilità alla testimonianza su fatto proprio, qualora il legislatore delegato volesse introdurre la testimonianza volontaria dell’imputato, con obbligo di verità, in luogo o accanto all’esame.
La direttiva 37 contempla le ispezioni e le perquisizioni, prevedendo che i casi siano predeterminati dalla legge, trattandosi di provvedimenti restrittivi della libertà personale o di domicilio. Secondo le direttive costituzionali in materia, è inoltre richiesto un atto motivato dell’autorità giudiziaria. La direttiva 38 si occupa invece del sequestro probatorio: il relativo potere è attribuito all’autorità giudiziaria (di regola, il pubblico ministero), che dovrà esercitarlo con provvedimento motivato, soggetto a riesame. La polizia può procedere a perquisizioni e sequestri nei soli casi d’urgenza, come è stabilito nella direttiva 54.6: beninteso, in tale ipotesi l’operato della polizia dovrà essere convalidato dall’autorità giudiziaria competente. La direttiva 38.4 riconosce all’interessato la facoltà di chiedere la restituzione della cosa sequestrata, e di adire il giudice in caso di rifiuto. La direttiva 38.5 impone al pubblico ministero di rimettere gli atti al giudice (col suo parere, che in questo caso sarà negativo) qualora non intenda accogliere la richiesta di sequestro probatorio proposta dall’imputato o dalla persona offesa.
La direttiva 39 colma la lacuna normativa che si era venuta a creare in seguito alla sentenza della Corte costituzionale che aveva ritenuto i prelievi ematici lesivi della libertà personale, e quindi soggetti alla disciplina dell’articolo 13 della Costituzione per quanto riguarda la predeterminazione legislativa di casi e modi, oltre alla previsione dell’atto motivato dell’autorità giudiziaria. La mancata introduzione di una normativa specifica ha reso pertanto impossibile l’impiego di strumenti di indagine che comportino l’esecuzione coattiva sulla persona di accertamenti o prelievi che abbiano carattere invasivo.
La materia è estremamente delicata, e lo testimonia l’ampio dibattito che si è svolto in commissione per trovare il giusto equilibrio tra le esigenze probatorie e la tutela della libertà personale. Un commissario ha anche proposto di sopprimere la direttiva, ma la maggioranza ha ritenuto necessario che una disciplina fosse introdotta, con le cautele necessarie ad evitare abusi.
Il presupposto è che manchi il consenso della persona interessata, e l’oggetto è rappresentato dai prelievi di materiale biologico (sangue, saliva, capelli) o dagli esami medici strumentali (ad esempio le radiografie, che attualmente la Cassazione ritiene, discutibilmente, soggette alla disciplina delle ispezioni). Il legislatore delegato dovrà comunque delimitare tassativamente i tipi di prelievo o di esame ammissibili, anche in ragione del loro livello di invasività ed in relazione alle garanzie specifiche di cui si dirà fra breve.
Gli atti di questo tipo sono ammessi solo se indispensabili ai fini dell’accertamento, e solo per reati predeterminati. Il provvedimento motivato è di competenza del giudice, ma il pubblico ministero può intervenire con proprio decreto nei casi d’urgenza, salvo convalida da parte del giudice; la medesima procedura è prevista nel caso in cui si renda necessario l’accompagnamento coattivo della persona.
Quanto alle garanzie specifiche della persona da sottoporre a prelievo o esame, limite invalicabile è rappresentato dalla tutela della vita, dell’integrità fisica e della salute della persona (o del nascituro, come nel caso di esami radiografici su una gestante); devono inoltre essere rispettate, nell’esecuzione delle operazioni, la dignità e il pudore della persona. Chi viene sottoposto a prelievo ha la facoltà di farsi assistere da persona di fiducia, che può essere anche un medico o il difensore.
La direttiva 39.2 prevede per ogni tipo di prelievo, anche se è stato prestato il consenso, la redazione di un verbale, le cui modalità dovranno essere stabilite dal legislatore delegato; mentre la direttiva 39.3 richiede una disciplina specifica per gli incapaci e i minori. A tutela della riservatezza della persona interessata, viene stabilito che i campioni debbano essere, di regola, distrutti entro un termine prestabilito (direttiva 39.4)
Non è stato accolto un emendamento inteso a circoscrivere l’utilizzabilità dei risultati ai soli fini di identificazione, onde evitare eccessive intromissioni nella sfera individuale della persona. Nonostante la serietà del rilievo, si è ritenuto che non dovesse essere trascurata l’importanza degli accertamenti in questione come mezzi di prova, soprattutto se indispensabili ai fini dell’accertamento. I prelievi a solo scopo di identificazione sono pertanto ben distinti, e sono riservati alla polizia giudiziaria - previa autorizzazione del pubblico ministero - ma si limitano alla saliva o ai capelli, risultando meno invasivi (direttiva 54.2, mentre la direttiva 54.3 ne prevede espressamente l’inutilizzabilità come prova).
Il tema dei mezzi di ricerca della prova è stato oggetto di un dibattito che, inizialmente, ha orientato il confronto sulla definizione della loro natura e sulla qualifica di mezzo di ricerca o di misura cautelare probatoria.
Da un lato, vi era la prospettiva di costruire un sistema ove detti mezzi fossero considerati e strutturati come “cautele probatorie” con tutte le connotazioni tipiche di questi strumenti; dall’altro, invece, la diversa prospettiva di collocarli nell’alveo tradizionale degli strumenti di ricerca della prova, indispensabili per individuare tutti gli elementi utili alla ricostruzione ed alla rappresentazione del fatto.
Ha prevalso la seconda soluzione, ancorata al dato tradizionale, non senza significative novità. La ragione essenziale risiede nel fatto che le misure cautelari, anche se in una dimensione squisitamente probatoria, sono orientate a soddisfare esigenze di tutela ed in questa ottica esse devono rientrare in archetipi specifici a seconda delle ragioni cautelari di riferimento, mentre i mezzi di ricerca della prova costituiscono di per sé modi funzionali alla ricerca degli elementi probatori. La loro natura può essere quella di strumenti volti a far fronte ad esigenze cautelari particolari ovvero a quella di strumenti al servizio dell’investigazione, proiettati verso la ricerca e, quindi, attivabili quando l’elemento va cercato e non quando esso è già noto e deve essere conservato o tutelato.
La distinzione è abbastanza netta dal punto di vista finalistico e ciò ha una ricaduta inevitabile nella disciplina positiva. I mezzi di ricerca della prova possono essere costruiti come strumenti tesi appunto a ricercare dati da acquisire al procedimento, mentre le cautele probatorie sono orientate più a tutelare esigenze connesse all’acquisizione di un determinato dato probatorio. Nel primo caso, per legittimare l’attivazione del mezzo, basta la necessità di cercare un dato, nel secondo caso, invece, si deve necessariamente partire da una base indiziaria minima per poter invocare l’applicazione di una misura cautelare, sia pure nell’ottica probatoria: qui, la finalità è, appunto, quella cautelare.
L’esigenza di esaltare la finalità diretta alla ricerca degli elementi probatori costituisce, quindi, la ragione essenziale per la quale si è ritenuto di conservare la dizione e l’impostazione tradizionale.
In materia di mezzi di ricerca della prova, si è ritenuto di aggiungere alle direttive riferite ai tradizionali mezzi (sequestro del corpo di reato e delle cose pertinenti al reato, sequestro probatorio, ispezioni, perquisizioni, intercettazioni di conversazioni telefoniche, ambientali e di flussi telematici) anche alcune direttive relative alla disciplina specifica della captazione di immagini fisse o in movimento, dell’acquisizione di dati personali e di prelievi di materiali biologici (ad esempio per l’individuazione del DNA) o dell’esecuzione di esami medici strumentali, nelle quali sono espressi principi molto simili, nelle linee generali, a quelli tratteggiati per le intercettazioni di conversazioni e comunicazioni.
Questi nuovi ambiti di ricerca della prova, posti all’attenzione procedimentale soprattutto dall’evoluzione scientifica, costituiscono le novità salienti.
Per quanto concerne il sequestro a fini investigativi, si è ritenuto di prevedere, in via generale, il potere del pubblico ministero di procedere al sequestro del corpo di reato e delle cose pertinenti al reato se sussistono esigenze investigative che lo rendono necessario. La specificazione rende evidente la necessità di una correlazione tra l’apprensione del bene qualificato (corpo del reato o cosa pertinente allo stesso) e le esigenze connesse alle indagini in svolgimento. Diverse esigenze potranno essere soddisfatte con altri strumenti ed in particolare con il sequestro preventivo possibile nella prospettiva di una futura confisca o per evitare che il reato sia aggravato e/o portato ad ulteriori conseguenze.
Ad esso si affianca un più generale potere del pubblico ministero di procedere al sequestro di cose e documenti per finalità probatorie. Finalità, cioè, connesse alle indagini e che riguardano beni oggettivamente differenti da quelli definibili corpo del reato o cosa pertinente al reato.
Una particolare attenzione, nell’ambito del sequestro probatorio, deve essere posta al sequestro di corrispondenza e al sequestro presso banche vista la delicatezza degli elementi che dovranno essere sottoposti a coercizione.
Avverso il provvedimento che applica il sequestro probatorio (o il sequestro del corpo di reato e delle cose pertinenti al reato) l’imputato, il suo difensore o i terzi interessati possono proporre richiesta di riesame al Tribunale collegiale.
La scelta fonda sulla necessità che il provvedimento genetico di apprensione del bene possa essere sottoposta al controllo mediante la richiesta di riesame al Tribunale in composizione collegiale.
Il potere di restituzione resta, invece, affidato al pubblico ministero; le altre parti e i terzi interessati possono, però, proporre opposizione al giudice nel caso di mancata restituzione.
Una ulteriore ipotesi è stata valutata e ritenuta necessaria per completare il quadro delle possibili situazioni. Se il pubblico ministero non accoglie la richiesta di sequestro probatorio proposta dalla persona offesa o dalla persona sottoposta alle indagini dovrà rimettere gli atti al giudice con parere negativo, affinché quest’ultimo decida sulla concedibilità del sequestro.
Per quanto concerne le ispezioni e le perquisizioni (mezzi di ricerca della prova oggettivamente tradizionali) si è solo prevista la necessità di predeterminare i casi in cui l’autorità giudiziaria può utilizzare questi mezzi e di disciplinare in modo specifico il procedimento. La invasività di questi mezzi suggerisce una disciplina specifica con la predeterminazione dei casi e dei modi nei quali l’attivazione del potere è legittimo.
Per le perquisizioni, poi, sarà essenziale tentare di uniformare il procedimento previsto per le varie ipotesi sparse in tutta la legislazione speciale e finalizzate alla soddisfazione di esigenze, spesso, differenti.
Le intercettazioni costituiscono il mezzo di ricerca della prova più discusso e più controverso degli ultimi anni. Alle sempre più estese esigenze dell’accertamento si contrappongono, spesso drammaticamente, le sempre maggiori lesioni di uno dei diritti fondamentali più tipici dell’era tecnologica, il diritto alla riservatezza. La disciplina codicistica deve assicurare la legalità dell’accertamento penale nel rispetto dei diritti dei singoli, siano essi indagati o semplici cittadini, articolando le garanzie precisate già nel 1973 dalla Corte costituzionale.
La direttiva 40, tracciando i principi cui dovrà attenersi il legislatore delegato nella disciplina delle intercettazioni, conferma in parte l’impostazione oggi vigente, cercando per il resto di ovviare a lacune (in tema, tra l’altro, di intercettazioni domiciliari) o a problematiche (con riferimento alla genuinità dei risultati delle intercettazioni o alla loro circolazione fuori dal procedimento ove sono state disposte) emerse dall’esperienza odierna. Al riguardo, si è tenuto conto delle soluzioni raggiunte dal Parlamento in sede di discussione del disegno di legge presentato dal ministro della giustizia. Per questi motivi la direttiva è molto dettagliata, dal momento che è sembrato necessario indicare in maniera vincolante al legislatore delegato i punti della disciplina da cui non è possibile prescindere.
Oggetto delle intercettazioni, viene precisato, può essere qualsiasi comunicazione destinata per sua natura a rimanere riservata o segreta, dentro o fuori private dimore (direttive 40.1 e 40.3). La direttiva 40.19, inoltre, estende in linea di massima la medesima disciplina ai casi di captazione delle comunicazioni orali non costituenti intercettazione, con particolare riferimento alla registrazione di un colloquio da parte di un interlocutore, direttamente o mediante trasmissione a terzi, come accade quando l’operazione è svolta da un agente segreto di polizia; mentre la direttiva 40.20 fa riferimento alle captazioni visive nei luoghi di privata dimora, che attualmente, stando all’insegnamento della Corte costituzionale, recepito dalle Sezioni unite della Cassazione, non possono essere utilizzate se non in quanto si tratti di intercettazione di comportamenti comunicativi. La direttiva 40.21, infine, prescrive l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria - in questo caso è incluso anche il pubblico ministero - per qualunque attività continuativa di osservazione dei comportamenti di un soggetto in luogo pubblico a fini investigativi.
Si conferma l’opzione secondo cui le intercettazioni possono essere disposte solo per determinate categorie di reati e solo allorquando si tratti di strumento indispensabile per la prosecuzione delle indagini (direttive 40.2 e 40.4). E’ sempre il giudice a dover autorizzare il mezzo di ricerca della prova, almeno là ove si rientri in quella sfera costituzionalmente tutelata del comportamento comunicativo così come individuato dalla Corte costituzionale. La direttiva 40.5 richiede, com’è ovvio, un provvedimento motivato: la motivazione dovrà vertere sulla gravità degli indizi di reato e sulla indispensabilità per le indagini, e indicare inoltre il collegamento tra le comunicazioni che si intendono intercettare e i fatti per cui si procede, allo scopo di evitare che la dimostrazione della probabile esistenza di un reato, di cui è richiesta soltanto la prova cosiddetta generica, possa consentire intercettazioni generalizzate nei confronti di chiunque. La direttiva 40.6 prevede, come oggi, il provvedimento di urgenza del pubblico ministero. Le direttive 40.7, 40.8 e 40.9 disciplinano i termini massimi di durata e le proroghe delle operazioni, per le quali è richiesto l’accertamento dell’attualità delle esigenze investigative.
Le direttive in tema di modalità delle operazioni e di localizzazione degli impianti (40.10 e 40.11) sono state redatte in modo da assicurare al legislatore delegato la necessaria libertà di azione, in considerazione della rapidissima evoluzione tecnologica, allo scopo assicurare il controllo sull’attività di intercettazione dentro e fuori del processo. Si pensi alla possibilità di registrare su supporto digitale di tutte le operazioni eseguite (compresa la memorizzazione automatica di orario, data e interlocutore in tempo reale) al fine di impedire intercettazioni illegittime, alterazioni nella raccolta dei flussi e, sotto altra prospettiva, consentire il successivo controllo da parte dell’autorità giudiziaria e della difesa. Anche per quanto riguarda gli impianti, è oggi possibile tenere separati i centri di intercettazione dai centri di ascolto. Nella direttiva 40.11 sono inoltre previste specifiche garanzie per l’installazione, quando necessario, degli strumenti di ripresa (in particolare nel domicilio privato): garanzie ulteriori rispetto alla semplice autorizzazione ad intercettare, oggi considerata sufficiente a consentire la violazione del domicilio. La direttiva 40.12 conferma l’obbligo di annotare tutti i provvedimenti motivati nell’apposito registro.
Per quanto riguarda la tutela della riservatezza e le modalità di acquisizione dei risultati al procedimento, la direttiva 40.13 prevede l’istituzione di un archivio riservato presso la procura della Repubblica, dove conservare tutta la documentazione concernente fatti o circostanze estranei alle indagini, che le parti hanno la facoltà di esaminare senza che per questo venga meno il segreto (direttiva 40.15). A questa forma di tutela si aggiunge il divieto di pubblicazione dei risultati delle intercettazioni (si intende, quelli processualmente rilevanti) fino alla conclusione delle indagini. La pubblicazione anticipata è consentita solamente per le intercettazioni utilizzate per l’adozione di un provvedimento limitativo della libertà personale, ma solo dopo la conoscenza da parte dell’indagato o del suo difensore (direttiva 40.14). La direttiva 40.16 prevede anche che la documentazione, salvo che sia necessaria per il processo, possa essere distrutta per tutelare la riservatezza, non solo dell’imputato, ma anche della persona offesa o di terzi estranei, soggetti attualmente privi di tutela.
Il giudice, su richiesta delle parti, che hanno avuto accesso all’archivio riservato, procede alla trascrizione dei soli risultati delle intercettazioni che reputa rilevanti (direttiva 40.15), mentre la restante documentazione continua ad essere coperta dal segreto. Tuttavia anche per le intercettazioni trascritte, e quindi processualmente rilevanti, possono essere introdotti limiti alla pubblicazione e alla divulgazione (direttiva 40.17).
In relazione ai vizi, nella direttiva 40.18 si è prevista esplicitamente la sola inutilizzabilità, perché le violazioni relative alla assunzione della prova, interessando il contraddittorio, cadranno sotto la generale disciplina della nullità.
Si rinvia al legislatore delegato, che dovrà coordinarla con i casi analoghi, l’individuazione dei reati particolarmente gravi per i quali siano possibili deroghe alla disciplina ordinaria (direttiva 40.22). Sempre al legislatore delegato è rimessa la specifica disciplina delle intercettazioni e delle riprese visive disposte per la ricerca dei latitanti, in particolare per quanto riguarda la loro eventuale utilizzazione probatoria (direttiva 40.23); mentre con riferimento alle intercettazioni disposte al di fuori del procedimento penale (ad esempio, le intercettazioni preventive), la direttiva 40.24 ne prevede l’utilizzabilità a soli fini investigativi, e non anche probatori. La direttiva 40.25, in ottemperanza all’articolo 68 della Costituzione, prevede il divieto di utilizzare mezzi coercitivi di indagine, fra i quali le intercettazioni, nei confronti dei soggetti per i quali è necessaria l’autorizzazione a procedere.
La direttiva 41 prevede che sia disciplinato l’accesso alle banche dati e il trattamento dei dati personali. La necessità di prevedere forme di tutela giurisdizionale non è più eludibile, in considerazione della natura di questo strumento di indagine, che consente di ottenere informazioni estremamente precise sulla base degli incroci di dati apparentemente neutri, realizzando una capacità intrusiva e limitativa dei diritti della personalità elevatissima, sino ad ora in gran parte rimessa alla disciplina civilistica (il codice della privacy) e, con essa, ai provvedimenti della relativa Autorità. In particolare, occorre tener conto delle numerose possibilità di scambio di dati nell’ambito dell’Unione europea, in relazione alle banche dati già esistenti o in via di istituzione.
Nella relativa disciplina andrà inclusa anche l’acquisizione dei dati esterni del traffico telefonico, già oggi soggetta, secondo l’interpretazione della Corte costituzionale, ad atto motivato dell’autorità giudiziaria.
La direttiva 42 consente l’impiego di tecniche investigative speciali per reati particolarmente gravi: si intende alludere alla possibilità per la polizia giudiziaria, dandone avviso al pubblico ministero, o per il pubblico ministero medesimo, di omettere o ritardare un atto di indagine, al fine dell’individuazione o della cattura dell’autore del reato o dell’acquisizione di elementi di prova; alla possibilità, per gli stessi fini, di procedere ad acquisti simulati o prestare assistenza ad appartenenti ad associazioni criminose; alla possibilità di utilizzare documenti o identità di copertura. Operazioni che risultano utili soprattutto, ma non esclusivamente, nelle indagini per i reati transfrontalieri.

15. La libertà personale

La direttiva n. 43 disciplina gli istituti dell’arresto in flagranza e del fermo di indiziati di delitto, fissando i principi che devono informarli sulla base, inannzitutto, di quanto previsto dall’art. 13 della Costituzione. Tale disposizione, infatti, consente la privazione della libertà personale da parte della pubblica sicurezza solo in casi eccezionali e tassativi di necessità e di urgenza e a condizione che, in tempi brevissimi prestabiliti intervenga la convalida dell’autorità giudiziaria.
La scelta corrisponde anche alla sperimentata utilità degli istituti richiamati, tradizionalmente presenti nella legislazione processuale penale italiana.
Per quanto concerne il primo istituto – l’arresto in flagranza – è stato previsto il potere-dovere della polizia giudiziaria di procedere all’arresto della persona colta in flagranza di uno spefico delitto. Il concetto di flagranza non viene definito in modo specifico, anche se la locuzione “colto in flagranza” evoca una relazione di immediatezza tra commissione del fatto e intervento della polizia privativo della libertà personale, che è alla base dell’istituto. Si è ritenuto che fosse esigenza di dettaglio stabilire la latitudine ed i confini del concetto, anche se il legislatore delegato dovrà avere cura di definire, in modo quanto più possibile preciso, le situazioni, ecezionali di necessità e durgenza, nelle quali si ritiene proficuo un intervento privativo della libertà personale da parte della pubblica sicurezza.
La direttiva richiama anche la distinzione tradizionale tra arresto obbligatorio e facoltativo. Nel primo caso, la polizia giudiziaria è obbligata ad effettuare l’arresto qualora il soggetto venga colto nella flagranza di un delitto, specificamente individuato, particolarmente grave. La peculiare gravità viene, poi, definita in base alla pena prevista – reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni e nel massimo a venti anni - o al nomen iuris della fattispecie. In quest’ultimo caso, il legislatore dovrà predeteminare tassativamente le fattispecie per le quali l’arresto in flagranza dovrà ritenersi obbligatorio, in relazione a speciali esigenze di tutela della collettività che debbono necessariamente ricorrere. Questa peculiare definizione consente di isolare le fattispecie in base ad effettive necessità connesse alle “esigenze di tutela della collettività”, categoria che dovrà, ovviamente, essere oggettivizzata quanto più è possibile.
In ogni caso, per l’imputato minore di anni diciotto, l’arresto in flagranza non può mai costituire un obbligo per la polizia giudiziaria.
Viene, poi, previsto, nella direttiva 43.3, l’arresto facoltativo in flagranza di reato per fattispecie predeterminate in relazione alla pena prevista ovvero da definire in base alla particolare gravità. Con riferimento a questo istituto, il potere di privazione della libertà peronale da parte della polizia giudiziaria si giustifica esclusivamente in funzione della gravità o delle circostanze del fatto ovvero della pericolosità del soggetto. La specifica individuazione dei parametri ai quali ancorare l’esercizio del potere di arresto facoltativo della polizia giudizaria consente di ridurre al minimo la discrezionalità della stessa e, nel contempo, evitare il sacrificio ingiustificato della libertà personale nel pieno rispetto di quanto previsto dall’art. 13 Cost.
In ogni caso di arresto in flagranza, la polizia giudiziaria ha l’obbligo di avvisare immediatamente il pubblico ministero e di porre a sua disposizone la persona privata della libertà personale non oltre le ventiquattro ore dall’arresto. La previsione di tempi stringenti
nasce dalla necessità di far intervenire quanto proima il pubblico ministero e di far scattare quanto prima il meccanismo diretto alla convalida dell’arresto.
La direttiva 43.4 discplina, invece, l’istituto del fermo di indiziati di delitto prevedendo, innanzitutto, il potere-dovere del pubblico ministero di procedere al fermo delle persone gravemente indiziate di reati particolarmente gravi, da individuare in modo tassativo e predeterminato, quando vi è fondato pericolo di fuga.
Analogo potere viene riconosciuto alla polizia giudiziaria nei casi di urgenza, quando, cioè, non è assolutamente possibile attendere il preventivo intervento del pubblico ministero. Anche in questa ipotesi, la polizia giudiziaria dovrà avvisare immediatamente il pubblico ministero ponendo a sua disposizone la persona privata della libertà personale non oltre le ventiquattro ore dal fermo.
Tre sono, quindi, i parametri che legittimano il fermo: la peculiare gravità del delitto; la gravità indiziaria; il fondato pericolo di fuga. L’esigenza che richiede un intervento urgente che precede quello del giudice risiede nel perislo di fuga che deve essere fondato, cioè effettivo.
Il fermo è stato oggetto di un dibattito all’interno della Commissione che ha messo in evidenza il possibile uso strumentale dell’istituto, qualche volta utilizzato per accorciare “patologicamente” i tempi di emissione della misura cautelare. Non si è riusciti ad individuare una formula che riuscisse a rendere chiara la volontà della Commissione di prevedere un rimedio a tale illegittima prassi. Nondimeno, però, è auspicabile che la normativa di dettaglio venga articolata in modo da ridurre quanto più è possibile il rischio di una utilizzazione strumentale dell’istituto anche attraverso la restrizione delle ipotesi di reato per le quali risulta possibile la sua attivazione.
La direttiva 45 prevede, in linea con quanto stabilito dall’art. 13 Cost., la fissazione dei principi per la disciplina dell’istituto della convalida dell’arresto e del fermo.
Il primo principio esplicitato concerne l’obbligo per il pubblico ministero di disporre l’immediata liberazione dell’arrestato e del fermato ove non sussistano le condizioni di legittimazione della privazione provvisoria della libertà personale oppure quando non ritenga di dover chiedere al giudice della convalida l’applicazione di una misura coercitiva.
La direttiva è ispirata, in ossequio agli artt. 13 e 27 Cost., al principio della massima tutela della libertà personale, evitando che la sua lesione prosegua in macanza delle condizioni di legittimazione ovvero nei casi in cui il pubblico ministero non abbia in animo di chiedere l’applicazione di una misura coercitiva.
Ove non ricorrono le situazioni richiamate, il pubblico ministero dovrà, quindi, richiedere al giudice, entro 48 ore dall’arresto o dal fermo, la sua convalida, che dovrà essere decisa entro le successive 48 ore, previa fissazione di un’udienza in camera di consiglio nella quale deve essere preventivamente sentita la persona arrestata o fermata.
L’istituto corrisponde ad un archetipo sperimentato e consolidato nel quale alla decisione sulla legalità dell’arresto o del fermo segue la decisione, distinta dalla prima, sulla richiesta di applicazione della misura cautelare. Sono due distinti provvedimenti che possono coesistere anche in un unico atto, ma che hanno una struttura ben differenziata. Da un lato, la decisione sulla correttezza e sulla legalità dell’arresto o del fermo, suscettibile di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111 comma 7 Cost.; dall’altro, la decisione sulla richiesta cautelare, suscettibile di riesame o di ricorso per cassazione (ove la richiesta del pubblico ministero viene accolta) o di appello (se non viene accolta) al Tribunale del riesame.
La scansione temporale predeterminata, così come la tempistica dell’udienza di convalida, corrisponde alla espressa previsione dell’art. 13 Cost.
La direttiva n. 44, infine, prevede le garanzie difensive minime da rispettare. Esse vanno dal dovere di avvertire la persona arrestata o fermata di nominare un difensore di fiducia al dovere di comunicare l’avvenuto arresto o fermo al difensore nominato. Questi potrà colloquiare liberamente col proprio assistito, fermato o arrestato, naturalmente prima che questi venga interrogato. Il diritto al colloquio così concepito può essere derogato, con decreto motivato del pubblico ministero, non oltre le 48 ore, in casi eccezionali, per specifiche ed inderogabili esigenze e limitatamente ai delitti di terrorismo o di eversione all’ordine democratico.
Il tema delle misure sembra aver assunto nel tempo un forte grado di stabilità.
Fortemente innovato rispetto all’impianto del codice del 1930 sia sotto il profilo contenutistico che sotto quello sistematico, l’esigenze di rinnovamento che vi erano sottese portarono addirittura all’anticipazione della riforma codicistica.
Peraltro, alcune distorsioni della prassi hanno indotto il legislatore ad intervenire correggendo alcuni profili della disciplina del libro IV in senso più garantista (l. n. 332 del 1995) ancorché l’emergere di situazioni di allarme sociale abbiano suggerito anche connotazioni in senso restrittivo (v. “pacchetto sicurezza”).
Si è ritenuto di tener ferma la scelta effettuata dal codice dell’88 e risalente al Progetto preliminare del 1978. Si dedica dunque un capo alle misure che possono essere disposte nel corso del processo penale in funzione di esigenze cautelari e con effetti limitativi delle libertà o delle disponibilità di beni da parte dell’imputato, con la novità che lo stesso capo raccoglie anche le direttive inerenti all’arresto e/o al fermo che, pur essendo vicende autonome rispetto alle “misure cautelari”, legittimamente possono appartenere al capitolo della libertà personale, quale ulteriore segnale di attenzione al bene protetto e quale indirizzo per “procedure differenziate”; anche se ovviamente spetterà al legislatore delegato individuare la sedes materiae. Sul punto è troppo noto il dibattito che ha condotto dottrina e legislatore ad abbandonare l’impostazione minimizzante adottata in proposito dal codice del 1930 ed a ricercare un nuovo equilibrio tra le esigenze che possono definirsi, appunto, «cautelari» (e che coinvolgono il processo penale nel suo insieme) e le esigenze di rispetto di quel diritto alla libertà personale che nella Costituzione trova tutela primaria ed autonoma in quanto tale.
Piuttosto, va messa in evidenza la nuova sistematica «interna» che la disciplina è venuta ad assumere nel testo che si sta illustrando, che scandisce con maggiore nettezza talune distinzioni tra misure di coercizione personale, misure “interdittive” e misure “reali”, tutte riconducibili alla finalizzazione “cautelare”, diversamente da quelle che ineriscono ai bisogni di attualità tra fatto e restrizione della libertà.
E va dato atto del ricco e complesso dibattito coltivato in Commissione circa l’opportunità di un approdo “più moderno” e garantista della vicenda cautelare: ci si riferisce alla collegialità dell’organo che adotta le misura e al c.d. “contraddittorio anticipato”.
Invero, se è sicuro che il sistema normativo vigente sulle misure cautelari appare ancora oggi valido sia per l’impianto teorico che per la coerenza logica degli strumenti processuali diretti a trovare una giusta composizione delle varie esigenze bisognose di tutela, l’unico aspetto che deve essere sicuramente rivisto è quello relativo all’attuazione di una piena giurisdizione nel procedimento cautelare. Allo stesso modo è sicuro che il codice dell’88 abbia profondamente innovato l’impostazione del codice del ‘30, passando da una concezione di assoluta prevalenza degli interessi dello Stato rispetto a quelli dell’individuo, con la conseguente collocazione delle misure restrittive della libertà personale in sede istruttoria – quasi come uno strumento d’indagine –, ad una esaltazione delle esigenze primarie di difesa delle libertà fondamentali del cittadino, conformemente alla nuova visione personalistica delle garanzie riconosciute dalla Carta costituzionale del 1948, con la sistemazione delle varie misure coercitive e interdittive in un autonomo libro, impostato esclusivamente in funzione cautelare di beni e interessi costituzionalmente rilevanti e sempre nel rispetto del canone del minimo sacrificio per la libertà personale.
Dunque la più rilevante innovazione riguarderebbe l’attuazione della funzione giurisdizionale nell’esercizio del potere di limitare la libertà dell’imputato anche nella fase delle indagini, soluzione che sembra imposta da una lettura congiunta degli artt. 13, 24 e 111 Cost. Invero, se per l’arresto e il fermo le ragioni di urgenza impongono un rinvio dell’intervento giurisdizionale – nelle due funzioni, cognitiva e potestativa – a un momento immediatamente successivo all’adozione del provvedimento, conformemente, peraltro, al 3° comma dell’art. 13 Cost., per le altre misure restrittive delle libertà della persona non sembra che sussistano ragionevoli elementi per sostenere un sacrificio della funzione cognitiva del giudice rinviandola ad un eventuale controllo successivo. In particolare, per quanto riguarda la libertà personale, trattandosi di un bene non facilmente ripristinabile nella sua integralità, esso può subire limitazioni soltanto in via realmente eccezionale e mediante un provvedimento giurisdizionale che affondi le radici della sua forza potestativa nell’assoluto rispetto del canone della piena cognizione del giudice in ordine sia alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza che alla puntuale individuazione delle esigenze cautelari da soddisfare. Lo strumento processuale aureo è il contraddittorio tra le parti davanti al giudice imparziale prima dell’adozione della misura e non dopo, per evitare i troppo gravi rischi di pregiudizi, talora palesemente ingiusti, in cui non raramente sono incorsi, nell’esperienza pratica italiana, i diritti fondamentali dei cittadini. La libertà personale è un diritto che va protetto prima di essere sacrificato, perché con il suo sacrificio si cancellano definitivamente tutta una serie di diritti e di garanzie di contesto sociale, politico ed economico, che non si riesce più a recuperare neanche dopo che sia finita la compressione della libertà personale. In tale direzione d’altronde è intesa l’idea sottostante le garanzie dell’art. 13 Cost.
Su questa premessa la Commissione si è posta l’altro problema e cioè se la piena cognizione del giudice vada assicurata per tutte le misure cautelari o solo per alcune di esse.
E se appariva fuor di dubbio quella pratica per la misura della custodia cautelare, perché “punitiva” per la persona sottoposta alle indagini da richiedere una decisione che sia frutto della pienezza della giurisdizione, lo stesso trattamento si auspicava anche le altre misure cautelari personali – sia coercitive, che interdittive – e reali, per riportare dentro la giurisdizione tutto il capitolo delle restrizioni alla libertà della persona, intesa non soltanto come libertà personale, ma anche come libertà di locomozione e come libertà di esercizio di tutti gli altri diritti riconosciuti alla persona, che ne costituiscono la proiezione esterna.
Epperò risultava evidente che, soprattutto nel caso in cui si adotti per tutte le misure personali la procedura cautelare con un contraddittorio che precede il provvedimento applicativo, sarebbe stato necessario congegnare un meccanismo che assicuri la presenza della persona sottoposta alla misura all’udienza di fronte al giudice, tema su cui si è discusso - a parte del già noto strumento dell’ordine di comparizione di cui all’art. 132 c.p.p. - quanto della possibilità che il giudice possa sapientemente impiegare il c.d. braccialetto elettronico che risulta, in definitiva, il meno invasivo e più tollerabile rispetto alla presunzione d’innocenza.
Nello stesso dibattito non è mancato chi riteneva che In questo quadro, risulta chiaro che la richiesta del pubblico ministero di applicazione della misura cautelare potesse essere anche non tipizzata, dando così spazio al giudice di fissare la misura adeguata sulla base degli argomenti che si sono dibattuti in udienza davanti a lui e che la richiesta stessa dovesse contenere la formulazione dell’imputazione, vale a dire l’attribuzione, sia pure in via provvisoria, di un fatto di reato alla persona nei cui confronti si chiede che venga applicata la misura cautelare, personale o reale, anche perché la formulazione dell’imputazione apre il processo, rende indefettibile la decisione e determina l’oggetto del processo con una certa stabilità.
L’idea faceva perno sulla Corte costituzionale (sent. n. 48 del 1994), che, nel qualificare il procedimento cautelare parla di “processo nel processo”, stabilendo, in proposito, le forme d’incompatibilità che colpiscono il giudice che ha una precedente cognizione del merito. E reputava non priva di pregio l’osservazione che, in rapporto alla richiesta di rinvio a giudizio, ravvisa nell’applicazione della misura cautelare effetti di maggior pregiudizio per l’imputato, per cui non a torto si sostiene che “i gravi indizi di colpevolezza legittimanti il provvedimento restrittivo debbano rappresentare un quadro probatorio della responsabilità dell’imputato non minore di quello richiesto per disporre il rinvio a giudizio dello stesso nell’udienza preliminare”. Peraltro – si è aggiunto - che il giudice utilizza i medesimi “gravi indizi” per stabilire la quantità della pena ai fini della valutazione di proporzionalità che la misura deve rispettare. Si tratterebbe, quindi, di un giudizio di colpevolezza allo stato degli atti, ma che non può giustificare una minor levità della valutazione probatoria se si vuole ridurre il rischio che l’imputato subisca una limitazione della libertà personale per un processo che non finirà con l’irrogazione di una pena.
L’ampia discussione svolta – anche sui nodi di realizzazione della complessa procedura così ipotizzata – ha toccata tutti i punti di ricaduta di un sistema così congegnato.
Pur nella condivisione della elevata idealità della proposta, quanto alla “collegialità”, sono prevalsi razionali motivi di tipo ordinamentale, soprattutto per i Tribunali di piccole e/o di medie dimensioni, non “aggirabili” con la previsione di un organo distrettuale (peraltro “sfruttato” per il rito abbreviato collegiale) per ovvi motivi di segretezza della vicenda e di “parcellizzazione” del fascicolo del pubblico ministero. Soprattutto ha fatto da perno, all’esclusione della ipotesi, la netta opposizione della componente dell’Avvocatura all’abolizione del “riesame”, situazione naturale se il giudice del provvedimento è collegiale.
Quanto al “contraddittorio anticipato”, l’affezione ideale ha ceduto rispetto al parere contrario dell’Avvocatura rispetto alla partecipazione ad un’udienza – quella per il provvedimento – in cui la difesa si presenta priva di conoscenze processuali per carenza di discovery e, all’opposto, della Magistratura, soprattutto inquirente che ha richiamato l’attenzione sulla impraticabilità della proposta specie per i procedimenti in cui la richiesta riguarda più accusati. Né si è ritenuto possibile l’adozione di strumenti elettronici per assicurare la presenza della persona alla “udienza cautelare” perché di per sé ritenuti eccessivamente stigmatizzanti.
Infine, quanto all’ “imputazione” come atto presupposto rispetto alla richiesta, ragioni sistematiche e profili semantici, nonché la previsione dell’ “accusa” contenuta nell’informazione di garanzia ne hanno sconsigliata l’adozione in questa sede. Perciò si è ritenuto sufficientemente garantista l’attuale procedura, che comunque, viene rinforzata con la previsione dell’ “ascolto” della persona – previo accompagnamento – solo in presenza di un dubbio del giudice del provvedimento, sia quanto alla gravità indiziaria sia quanto alla scelta della misura, e con più penetranti oneri di motivazione.
Ci si affida, così, al legislatore delegato per la messa a punto di questo indirizzo “più garantista”, anche perché la contestuale scelta della collegialità del provvedimento e dell’adozione di procedure con “contraddittorio anticipato” spetta al Parlamento per la sua elevata politicità e per eguale rilievo sociale.
Novità saliente, comunque, è l’imposizione del giudizio a breve distanza dall’esecuzione del provvedimento cautelare. Invero, se il pubblico ministero si spinge sulla strada dei “gravi indizi di colpevolezza” e se tale spendita è valutata positivamente dal giudice – con tutti i meccanismi di controllo successivi al provvedimento - é indispensabile costruire la prossimità al giudizio della vicenda, i cui presupposti rendono superfluo il controllo in udienza di conclusione delle indagini a cui si accede, però, a richiesta dell’imputato per sfruttarne le potenzialità definitorie e/o altra forma di giudizio.
Dunque – e nello specifico delle direttive – la compattezza e la sistematicità della disciplina nel codice del 1988 ha indotto la Commissione alla sostanziale conferma delle scelte contenute negli artt. 272-325 c.p.p.
Lo testimonia la direttiva n. 46 ove sono stati ribaditi i criteri di adeguatezza, proporzionalità e gradualità in ordine alla decisione sulla misura; il carcere come extrema ratio; le soglie di pena per la custodia cautelare; la previsione di una specifica disciplina per i delitti di criminalità organizzata, di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico; l’eclusione di presunzioni legali assegnando al giudice il compito di valutare le diverse situazioni individuali; la revocabilità e la sostituibilità delle misure in presenza delle mutate situazioni processuali.
Risultano confermate anche le previsioni in tema di applicazione delle misure (iniziativa, competenza, provvedimento, motivazione).Sarà, invece, compito del legislatore delegato individuare le situazioni che potranno consentire l’espletamento di un interrogatorio anticipato, fissandone le modalità ed i tempi per il suo svolgimento. Resta confermata, per le altre ipotesi, la previsione dell’interrogatorio di garanzia.
Alcune puntualizzazioni, rispetto all’attuale disciplina, sono previste nella direttiva 48, con riferimento ai possibili effetti preclusivi delle decisioni intervenute nella procedura di controllo delle cautele.
Sostanzialmente ribadite risultano dalla direttiva 49 le attuali regole in tema di impugnazioni cautelari: si segnalano, tuttavia, una volontà di accelerazione dei tempi di decisione (e di motivazione) unitamente ai profili sanzionatori per le attività superflue.
Anche la disciplina dei termini è ribadita dalle direttive 50 e 51. Trovano adeguata regolamentazione le attuali previsioni in tema di durata massima, sospensione, proroga, rinnovazione, congelamento.
Riferimenti espressi sono fatti per le contestazioni a catena e per la reintroduzione delle misure.
Sono confermate anche le previsioni restrittive, introdotte con le novelle cui si è fatto cenno in esordio, che consentono di applicare le misure cautelari con la sentenza di condanna di primo grado ed in grado di appello.
Con le direttive 52 e 53 è confermata la possibilità di prevedere l’applicazione di misure interdittive e di misure cautelari reali. Sotto quest’ultimo aspetto, si prevedono sia il sequestro conservativo, sia quello preventivo: a proposito di quest’ultima misura viene ribadita l’attuale disciplina del c.d. fermo reale, mentre si sottolinea la necessità che il sequestro di azienda o di entità produttive non pregiudichi lo svolgimento delle relative attività.
Durante il dibattito in Commissione sono state discusse e vagliate altre proposte innovative in tema di procedimento applicativo di misure cautelari personali.
In particolare, si evidenziano – in sintesi – i tratti salienti di una proposta di minoranza: prevedere che nella fase delle indagini preliminari le decisioni sulle richieste di misure cautelari personali coercitive siano emesse dal giudice per le indagini preliminari con ordinanza motivata, entro un termine predeterminato, prorogabile una sola volta per oggettiva complessità della richiesta con atto comunicato al solo P.M. richiedente; prevedere che nei soli procedimenti per delitti di criminalità organizzata o con finalità di terrorismo la decisione possa essere emessa – in casi predeterminati – dal giiudice per le indagini preliminari in composizione collegiale, ferma restando la successiva facoltà di impugnazione del provvedimento.
Le ragioni di tale proposta - che qui brevemente si illustrano – sono da ricercarsi nella avvertita necessità di innalzare il tasso di efficienza e garanzia del procedimento cautelare in modo diverso dalla previsione di forme di ‘contraddittorio anticipato’. Ciò perché si ritiene che l’introduzione – sia pure con opportune limitazioni – dell’ascolto preventivo finirebbe con il determinare la necessità di forme limitative ‘temporanee’ della libertà personale adottate in sostanza sulla base della sola richiesta del Pubblico Ministero (per scongiurare, ove presente, il pericolo di fuga o di alterazione della genuinità della prova), il che si pone in contrasto con le esigenze costituzionali di ‘eccezionalità’ delle limitazioni di libertà.
Appare, dunque, più opportuno – secondo tale indirizzo – il mantenimento dell’attuale assetto procedimentale con una introduzione di elementi di novità consistenti: a) nella previsione di un termine da parte del legislatore (sia pure prorogabile) entro il quale il giudice dovrà provvedere sulla richiesta, e ciò allo scopo di evitare che i ritardi nelle valutazioni delle richieste cautelari (spesso derivanti dai notevolissimi carichi di lavoro degli uffici GIP e dalla sottostima delle risorse umane necessarie ad evadere le procedure) diventino l’antecedente causale di quell’utilizzo improprio dello strumento del fermo già segnalato in altra parte della presente relazione; b) nella limitata introduzione della collegialità dell’organo giudicante chiamato ad emettere la prima valutazione cautelare, prevista solo per particolari ‘categorie di reati’ ed in casi ‘tipizzati’, senza che ciò pregiudichi la successiva facoltà di impugnazione del provvedimento.
Si precisa che la limitata introduzione della collegialità – su cui si è lungamente discusso in Commissione – appare uno strumento di grande efficacia sul piano della effettività delle garanzie per l’individuo, posto che una valutazione collegiale consente - in tale delicatissima fase del procedimento – di ridurre al minimo gli errori di attribuzione di significato dimostrativo agli elementi di prova raccolti in sede di indagini. Inoltre, la scelta di mantenere – anche in tali casi – la facoltà di impugnazione è in tutta evidenza rapportabile alla obiettiva necessità di rispettare l’esercizio delle facoltà previste dal contraddittorio, posto che l’impugnazione si gioverebbe dei risultati dell’interrogatorio di garanzia (successivo alla emissione del provvedimento cautelare) e dunque manterrebbe inalterata la sua logicità sistematica e la sua funzione di controllo.
Il Plenum della Commissione ha comunque deciso di proporre il diverso testo approvato, ferma restando l’illustrazione dei contenuti e delle ragioni della proposta di minoranza.



16. Le indagini preliminari

Alla base della stessa idea di processo penale quale “procedimento” finalizzato all’accertamento di fatti specifici e delle conseguenti responsabilità penali, fondato sul contraddittorio (e sul metodo dialogico), risiede la indubbia necessità di realizzare, all’interno del sistema processuale, un primo momento (o una prima fase) che tenda alla elaborazione dell’ipotesi accusatoria da porre a base del successivo giudizio, con esplicita vocazione alla raccolta degli elementi sulla scorta dei quali effettuare la richiamata verifica. In tale fase, si parte da un dato grezzo (la notizia di reato o addirittura una informazione meno significativa e meno concludente della notizia di reato) e si punta alla formazione dell’imputazione, punto di riferimento essenziale del successivo processo. Questo percorso, essenziale per il successivo giudizio, costituisce il momento procedurale al quale si riferiscono le direttive da n. 54 a n. 67.
Esso, in via di prima approssimazione, costituisce un momento di raccolta di elementi e di selezione delle ipotesi da sottoporre al successivo vaglio giurisdizionale.
Il sistema processuale del 1988 ha introdotto, in relazione alla fase investigativa, una significativa e fondamentale novità rispetto al processo penale preesistente.
Non più una fase istruttoria intesa come momento deputato alla raccolta delle prove direttamente spendibili nel successivo giudizio (di fatto limitato ad una mera conferma delle prove già raccolte, dove la difesa ricopriva un ruolo di mera critica della prova, senza poteri significativi), ma una fase investigativa preliminare, strutturata in modo servente rispetto alle determinazioni inerenti l’esercizio dell’azione penale.
Accantonata l’idea di un inchiesta preliminare senza eccessive formalità, proposta dal dibattito dottrinale negli anni 60, è stata, invece, sviluppata l’idea di costruire una fase preliminare, senza velleità istruttorie, ma con una proiezione diretta all’esercizio dell’azione penale. L’elaborazione dell’imputazione e la raccolta degli elementi che consentono di sostenere l’accusa in giudizio caratterizzano in modo peculiare la fase investigativa, ma con una proiezione limitata all’atto di impulso dell’azione senza alcuna ricaduta probatoria sul successivo dibattimento.
Questa scelta è stata tradotta, inizialmente, in modo molto puntuale, attraverso la costruzione di un modello fondato su una netta distinzione funzionale tra fase investigativa e fase processuale e su uno sbarramento tra le due richiamate fasi, senza alcun vaso comunicante tra le stesse: tutto ciò che il pubblico ministero elaborava nelle indagini non poteva essere utilizzato nel dibattimento ad eccezione delle dichiarazioni raccolte sul luogo e nell’immediatezza del fatto o nel corso delle perquisizioni (in un contesto, cioè, oggettivamente irripetibile e, per ciò stesso, di particolare genuinità).
Questa iniziale opzione è stata completamente stravolta dalla Corte costituzionale che, con le note sentenze del 1992, ha determinato la sostanziale modifica del modello processuale scelto dal legislatore del 1988, richiamando ed applicando, per tale operazione demolitrice, il principio di non dispersione delle prove (principio sulla cui rilevanza costituzionale si sono nutriti, a ragione, molti dubbi; la convinzione dottrinale consolidata è che tale principio non abbia alcun rilievo costituzionale e che, pur se esprime un’esigenza indiscutibile, non è utilizzabile per la verifica della compatibilità costituzionale delle norme).
Cambiava, in modo sostanziale, la relazione tra indagini e dibattimento e la mutazione era orientata nella direzione (della sostanziale costruzione) di un sistema di vasi comunicanti tra i due segmenti procedurali: tutte le dichiarazioni rese al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria, nelle indagini preliminari, potevano essere veicolate nel dibattimento attraverso il meccanismo delle contestazioni, spendibile anche se il dichiarante non rispondeva all’esame dibattimentale (perché si avvaleva della facoltà di non rispondere o non si presentava al dibattimento o affermava cose diverse da quelle precedentemente dichiarate).
Si destrutturava, in tal modo, il sistema scelto dal legislatore del 1988 e si strutturava un nuovo sistema processuale che, nella parte interessata dalla pronunzie di illegittimità costituzionale (cioè il cuore del processo), era ontologicamente molto distante dal primo.
La dottrina ha sempre contestato la scelta, peraltro imposta per via giurisprudenziale, in quanto mutava radicalmente l’opzione politica posta a base del nuovo sistema processuale e fondava su un principio (la non dispersione delle prove) estraneo al contesto costituzionale e neppure lontanamente raffrontabile con il principio del contraddittorio che, al contrario, evocava esigenze molto differenti ed in particolare richiedeva che la prova si formasse effettivamente (e non fittiziamente) nel giudizio dibattimentale.
Negli anni successivi, invero, più di una novella legislativa si è inserita in questo alveo: in particolare, vale la pena di richiamare la legge sulle investigazioni difensive disegnata proprio per riequilibrare un sistema che, a seguito delle richiamate sentenze, dava segnali di profondo disequilibrio ed evidente malessere. Si doveva, per questa strada, anche completare il nuovo posizionamento della difesa costruito nell’ottica secondo la quale “l’effettiva difesa consiste nel difendersi provando”.
La novella ha, cioè, reso operativa l’idea dell’investigazione del difensore, prima solo accennata, inserendo nel sistema un meccanismo fondamentale, diventato oramai patrimonio culturale condiviso. Oggi, infatti, si ritiene, giustamente, che anche nella fase delle indagini preliminari bisogna, ad un certo punto, riconoscere alla difesa la possibilità concreta di attivare le investigazioni difensive.
I tentativi parziali del legislatore del 1997 di recuperare l’iniziale modello attraverso la modifica del sistema delle letture delle dichiarazioni rese dall’imputato (art. 513 c.p.p.) sono stati immediatamente corretti dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 361 del 1998 con la quale sono stati ribaditi i precedenti orientamenti, ma con una impostazione e con argomenti nuovi e molto interessanti. A differenza delle decisioni del 1992, la sentenza richiamata ha avuto il grande merito di indicare la necessità di rispettare il contraddittorio e le prerogative strettamente connesse al diritto di difesa. Il limite di questa decisione è quello di prediligere una dimensione meramente formale del contraddittorio in luogo di una dimensione sostanziale più aderente alla ratio del principio.
Era, quindi, necessario un intervento legislativo che chiarisse, a livello costituzionale, i connotati e la latitudine del principio del contraddittorio, principio, peraltro, già noto al nostro ordinamento ed entrato, da molti anni, a far parte nel dibattito dottrinale come punto di riferimento essenziale e condiviso del sistema processuale penale.
Il legislatore è, quindi, intervenuto nello specifico settore modificando in modo significativo l’art. 111 Cost. e inserendo, tra le caratteristiche della giurisdizione, il contraddittorio e la ragionevolezza del tempi processuali.
La scelta di novellare l’art. 111 Cost è stata molto importante, in quanto ha consentito di comprendere immediatamente la opzione di fondo seguita dal legislatore costituzionale: il contraddittorio e tutti gli altri principi richiamati (giusto processo, parità delle parti, terzietà e imparzialità del giudice, ragionevolezza dei tempi ecc.) costituiscono principi politici afferenti direttamente alla giurisdizione, che possiamo definire i caratteri costituzionali utili a delineare la giurisdizione in genere e quella penale in specie.
I successivi interventi legislativi, tendenti ad adeguare il modello processuale ai nuovi principi introdotti nell’art. 111 Cost., hanno recuperato l’iniziale distinzione tra fase investigativa e dibattimento, anche se con qualche significativa novità: in particolare, le parti possono, previo accordo, introdurre nel dibattimento atti preformati nel corso delle indagini preliminari. La peculiarità corrisponde, in parte, all’eccezione, prevista nello stesso art. 111 Cost., secondo la quale il legislatore può prevedere casi nei quali la prova non si forma in contraddittorio, per consenso dell’imputato (ed è la matrice della nostra ipotesi), impossibilità oggettiva o provata condotta illecita.
La soluzione adottata dal legislatore ordinario, richiedendo il consenso delle parti (e non del solo imputato), propone una soluzione più condivisibile di quella rigidamente aderente alla lettera della Costituzione (ove si parla del solo imputato).
Ciò nonostante, bisogna ribadire il fondamentale principio emergente dall’art. 111 Cost.: due indagini parallele non possono sostituire il contraddittorio, che resta il valore di fondo cui ancorare il processo penale.
Inizialmente, la struttura delle indagini e la convinzione che vi fosse uno sbarramento netto tra dibattimento e indagini era anche frutto di un’idea di processo molto sbilanciata sulla prova orale (testimoni e dichiaranti).
Oggi, invero, il progresso tecnologico e le fisionomie criminali hanno aumentato di molto la percentuale di utilizzo processuale di tipologie probatorie (intercettazioni, video riprese, documentazione bancaria ecc.) che si formano prevalentemente (o in gran parte) nelle indagini preliminari: vi sono sempre più processi che fondano, in modo prevalente, su questi elementi.
Ciò nonostante, bisogna ribadire un dato ineludibile: l’art. 111 Cost. individua un modello processuale fondato sul contraddittorio, assegnando, inevitabilmente, alle indagini una funzione servente, proiettata sull’azione; in tal senso, esso si oppone decisamente ad ogni idea di indagini come luogo di formazione della prova, anche se sono previste consistenti deroghe di cui tener conto.
La decisione giusta è e resta il prodotto del contraddittorio, in alcun modo sostituibile, tranne casi specifici di deroga, con due indagini parallele.
L’esame dei caratteri tipici della fase investigativa, la cui natura è quella di fase procedimentale propedeutica e servente rispetto all’esercizio dell’azione penale, ci porta a sottolineare la peculiarità di alcuni di essi e la necessità di tenerli in debita considerazione nella elaborazione delle direttive relative alla fase investigativa.
La messa a punto delle direttive sulle indagini preliminari ha preso spunto, infatti, dal dibattito dottrinale e giurisprudenziale sui caratteri tipici delle indagini e sui punti critici, sui nodi problematici della fase investigativa.
La elencazione di questi punti, senza alcuna pretesa di esaustività, rende chiare le intenzioni poste a base delle scelte successive:
- l’efficienza dell’attività investigativa (cioè l’elevata capacità di raccogliere gli elementi necessari alla ricostruzione dei fatti illeciti ed alla individuazione degli autori, sia pur nell’ottica specifica dell’esercizio dell’azione penale), da intendersi come capacità di individuare le ipotesi da sottoporre alla valutazione del giudice in modo rapido, accorto ed effettivo in relazione ad un successivo processo in un’ottica di utilità (l’idea è sempre quella di evitare il processo - di per sé dannoso - se non vi sono condizioni concrete per giungere ad un determinato epilogo); efficienza, poi, come sistema integrato di garanzie che procedono in modo lineare e che hanno eguale valenza;
- la sua rapidità (naturalmente nei limiti fisiologici utili al primo obiettivo) fondamentale nell’ottica della ragionevole durata del processo che, da un punto di vista ontologico (ma non formale), risente dei tempi delle indagini: peraltro, la celebrazione a distanza del dibattimento tradisce tutti i principi del giudizio e rende molto problematiche le acquisizioni probatorie e, spesso, dipende anche dalla durata delle indagini e dai tempi (talora biblici) che separano la chiusura delle indagini dall’inizio del dibattimento; in questa ottica, la ragionevole durata coinvolge anche la fase investigativa nonostante la lettera dell’art. 111 Cost. si riferisca solo al processo;
- la polivalenza della fase (cioè la pluralità di funzioni che la caratterizzano): gli elementi che ivi vengono raccolti sono utili alle determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale (valutate nel loro complesso, come risultato dell’attività investigativa: nell’ottica della verifica dell’utilità del giudizio e/o della possibilità di ottenere, all’esito, una condanna; costituiscono la struttura portante della sentenza allo stato degli atti; in alcuni casi riguardano atti che hanno una valenza probatoria spendibile direttamente nel dibattimento (la valenza probatoria, in questo caso, riguarda uno specifico atto e non il complesso dell’attività investigativa funzionale all’azione): sul punto, però, si pone, da un lato, il problema del limite di questa peculiarità (altrimenti le indagini finirebbero per diventare il luogo di formazione della prova); dall’altro lato, invece, si deve prendere atto dell’aumento incisivo degli atti probatori che si formano “sostanzialmente” o, almeno, prevalentemente nelle indagini;
- il ruolo fondamentale del pubblico ministero, cui resta affidata la direzione delle indagini;
- l’indipendenza rispetto alle possibili interferenze esterne (cioè: obbligatorietà dell’azione penale, pur se da intendersi in un’ottica prevalentemente politica; uguaglianza quale naturale riferimento della prima);
- la funzione di garanzie e di controllo del giudice per le indagini preliminari che deve essere aumentata in funzione delle esigenze prima sottolineate: il tema investe le c.d. finestre giurisdizionali, cioè la possibilità di adire direttamente il giudice, nella fase investigativa, per peculiari esigenze connesse all’attività di investigativa difensiva;
- il rispetto delle garanzie difensive (con i connessi problemi relativi al “momento” dell’informazione, ai suoi contenuti, ai diritti difensivi connessi alla ricerca di elementi probatori concretamente esercitabili; alle investigazioni difensive ed alla necessità di rendere effettivi i poteri investigativi del difensore consentendo di “ricorrere” al giudice nei casi di oggettiva difficoltà);
- la completezza delle indagini rispetto ai temi dell’accertamento (evitando, però, di appesantire le indagini, chiedendo alle stesse la ricostruzione di fatti eccentrici rispetto alle necessità dell’azione);
- la durata prestabilita e verificabile (concetto che, se da un lato non deve ingessare ed ostacolare le potenzialità investigative, dall’altro deve costituire un diritto riconoscibile e controllabile dal giudice, attraverso la previsione di meccanismi di controllo reali e finalizzati alla verifica dell’utilizzabilità/inutilizzabilità delle attività investigative rispetto ai tempi prestabiliti di durata della fase);
- la segretezza quale valore strumentale alle esigenze dell’accertamento, ma in equilibrio, non in conflitto, con le garanzie di informazione e conoscenza da parte della difesa, premessa per l’attivazione del diritto previsto dagli artt. 24 e 111 Cost.; la continuità investigativa;
- la snellezza delle indagini (evitando, cioè, strutture pesanti, non essenziali rispetto agli scopi concreti da perseguire);
- il riconoscimento di poteri investigativi effettivi in capo sia al pubblico ministero sia alla polizia giudiziaria, capaci di raggiungere gli scopi delineati;
- il riconoscimento del valore essenziale del coordinamento investigativo, auspicabile a tutti i livelli;
- il c.d. doppio binario (la previsione, cioè, in taluni casi e per talune fattispecie di reato, particolarmente gravi, di discipline normative differenziate, coerenti con le differenti esigenze investigative che quelle fattispecie propongono).
A questa elencazione di punti qualificanti e condivisi, devono aggiungersi i nodi problematici (alcuni di natura prevalentemente politica), affrontati e risolti, prima di approntare le linee direttive delle indagini preliminari: chi le svolge e con quali poteri; si acquisiscono elementi che possono avere ingresso nel dibattimento e in che misura; che durata debbono avere; come devono concludersi.
Le direttive proposte tendono a costruire una fase investigativa che, dopo aver sciolto i nodi politici richiamati, punta ad equilibrare i temi prima evocati.
L’equilibrio fonda su due poli: da un lato, l’art. 111 Cost. che individua un modello processuale fondato sul contraddittorio; dall’altro, la funzione delle indagini di consentire la costruzione effettiva di un’ipotesi accusatoria utile ad innescare il meccanismo dibattimentale (connotazione che si oppone, come già sottolineato, decisamente ad ogni tentativo di disegnare le indagini come luogo generale di formazione della prova; anche se la polivalenza delle indagini e la proiezione verso sentenze allo stato degli atti riconosce la forte attitudine degli elementi investigativi di trasformarsi in elementi capaci di fondare il giudizio).
Si deve aggiungere, per completare il quadro generale, che l’art. 111 comma 3 Cost. prevede un sistema di garanzie che riguardano anche la fase investigativa ed impongono di prevedere l’anticipazione in tale momento procedurale dell’attivazione di talune fondamentali garanzie difensive.
L’anticipazione dell’operatività concreta del disposto dell’art. 111 comma 3 Cost. alla fase delle indagini preliminari comporta significative conseguenze in punto di costruzione del modello processuale, essenzialmente connesse al momento della conoscenza dell’esistenza del procedimento e dell’accusa e alla possibilità di rivolgersi direttamente al giudice per le necessità difensive: evitando, però, accuratamente di appesantire la fase investigativa e di trasformarla in una fase di raccolta delle prove (sarebbe un intollerabile ritorno al passato).
L’impostazione della fase investigativa riconosciuta nella legge delega non diverge, nei suoi tratti essenziali, da quella disegnata nel c.p.p. del 1988, anche se non mancano elementi che la caratterizzano in modo peculiare. In particolare, essa punta alla strutturazione omogenea ed equilibrata delle esigenze prima individuate (punto 2) evidenziate da quasi venti anni di esperienza giurisprudenziale elaborata nell’operatività del c.p.p. attualmente vigente e da un ricco dibattito dottrinale.
Le differenze più significative rispetto a quelle del 1988 sono concentrate nelle fasi dell’iscrizione nel registro delle notizie di reato, della definizione stessa di notizia di reato, nei meccanismi di proroga dei termini di durata delle indagni stesse, nella spedizione dell’informazione di garanzia, nelle c.d. finestre giurisdizionali e nella conclusione della fase (azione o archiviazione).
Per il resto, invece, si è tentato di razionalizzare il modello investigativo esistente, affidando al pubblico ministero la conduzione e la responsabilità delle indagini ed alla polizia giudiziaria il compito fondamentale di prendere notizie dei reati e di coadiuvare il pubblico ministero nell’esercizio delle attività investigative. Naturalmente, anche il pubblico ministero dovrà/potrà prendere notizia dei reati, nei limiti stabiliti dalla legge, cioè secondo scansioni normative che potranno anche limitare, senza annullare, questo potere rispetto a specifiche e predeterminate fattispecie di reato.
In particolare, la fase delle indagini preliminari, nell’intenzione posta a fondamento della legge delega, resta una fase procedimentale che precede l’esercizio dell’azione penale ed è ovviamente orientata a porre in essere tutte le attività necessarie all’assunzione delle determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale. Questo epilogo (l’esercizio dell’azione o, all’opposto, la richiesta di archiviazione) rappresenta il fine che orienta le indagini e le spiega dal punto di vista funzionale, strutturale e contenutistico.
La celebrazione a distanza del dibattimento, poi, è un fatto che tradisce tutti i principi del giudizio e rende molto problematiche le acquisizioni probatorie. Esso dipende anche dalla durata delle indagini e dai tempi (talora esagerati) che separano la chiusura delle indagini dall’inizio del dibattimento, Quindi, la ragionevole durata del processo coinvolge anche la fase investigativa nonostante la lettera dell’art. 111 Cost. si riferisca, formalmente, solo al processo (forse inteso in una accezione generale e omnicomprensiva). Ma è evidente che un mancato controllo sui tempi di durata delle indagini finisce per incidere in modo irreversibile sulla concreta riconoscibilità del principio di ragionevolezza dei tempi. Da questa semplice considerazione, alla quale si uniscono le già richiamate esigenze difensive, nasce l’idea di contingentare la durata delle indagini riconoscendo al giudice un potere di verifica concreta circa il dies a quo.
La fase investigativa partecipa, indiscutibilmente, alla complessiva vocazione del sistema processuale di giungere al suo epilogo in tempi ragionevoli. Questa essenziale caratteristica, prevista, peraltro, in modo espresso e forte dall’art. 111 Cost., pur nella naturale relatività del riferimento, non può che trovare le sue fondamenta nelle indagini preliminari. Esse rappresentano il primo momento della complessa scansione procedurale e proprio per questo la loro durata “ragionevole” configura un esempio per il prosieguo della vicenda.
Il compito di direzione delle indagini deve essere affidato al pubblico ministero, così come al medesimo organo vanno riconosciuti, come vedremo, poteri di acquisizione della notizia di reato.
Il dominus delle indagini è, cioè, il pubblico ministero, il quale ha il compito di guidarle, avvalendosi anche dell’attività investigativa della polizia giudiziaria, posta alle dipendenze dell’autorità giudiziaria. Il ruolo di guida, affidato all’organo dell’accusa, rappresenta, quindi, uno dei dati centrali della struttura che si vuole disegnare con riferimento alle investigazioni.
Le indagini preliminari hanno una naturale vocazione alla segretezza, valore dal quale dipende la buona riuscita delle stesse e, contemporaneamente, modo per tutelare la persona sottoposta alle indagini da nocive pubblicazioni di notizie sull’esistenza del procedimento e sui suoi contenuti. L’esigenza di segretezza investigativa aumenta proporzionalmente a seconda delle categorie di reati rispetti ai quali l’attività investigativa viene attivata.
Contemporaneamente, però, essa deve confrontarsi con la connessa esigenza di conoscenza dell’esistenza dell’attività investigativa da parte della persona sottoposta alle indagini e della persona offesa, premessa indispensabile per attivare le indagini difensive o, più in generale, per attivare l’elaborazione difensiva. Vi è dunque la necessità di cercare un equilibrio che tenga conto della varie esigenze richiamate, apparentemente in conflitto, ma in realtà entrambe orientate “alle necessità dell’accertamento” che richiede segretezza e, contemporaneamente, partecipazione informata dell’interessato.
Va, in questo ambito, precisato che la segretezza investigativa, intesa quale dovere di non divulgare i contenuti delle indagini preliminari all’esterno, costituisce una caratteristica che coinvolge la fase nella sua interezza; mentre la segretezza proiettata nei confronti della persona sottoposta alle indagini deve avere una durata oggettivamente limitata: cessa, naturalmente, con l’esercizio di atti investigativi invasivi che, coinvolgendo direttamente diritti della persona, richiedono l’attivazione difensiva; cessa, in ogni, caso dopo un tempo predeterminato, dal momento che, dopo una prima fase investigativa, l’informazione di garanzia diventa ineludibile, come ineludibili (in quanto fondamentali) sono le necessità difensive che essa coinvolge e le esigenze connesse.
La scelta effettuata dalla Commissione fonda sulla creazione di un sistema nel quale, in una prima fase, dalla durata limitata e predeterminata, prevale la segretezza investigativa (l’indagine è, cioè, generalmente segreta e non viene comunicato nulla tranne che non debbano essere compiuti atti invasivi cui consegue necessariamente l’attivazione difensiva); successivamente, invece, pur restando la segretezza investigativa quale valore, prevale la generale necessità di spedire l’informazione di garanzia, contenente l’accusa. Il punto centrale del sistema sarà quello di individuare il tempo “predeterminato e congruo” entro il quale spedire, in ogni caso, l’informazione di garanzia, la cui funzione è proprio quella di consentire l’attivazione difensiva in tutta la sua latitudine ed a prescindere dalle esigenze dell’accertamento. La congruità del termine, oltre il quale la segretezza nei confronti della persona sottoposta alle indagini diventa patologica, dovrà essere individuata naturalmente considerando la peculiarità dell’accertamento di talune fattispecie di reato, particolarmente gravi e connotate da una spiccata pericolosità.
In nessun caso, però, l’informazione alla difesa potrà essere omessa. Potrà essere ritardata per tipologie di reato predeterminate, ma entro tempi congrui dovrà comunque essere spedita anche in queste ultime ipotesi.
In ogni caso, quindi, dopo un tempo prefissato, la difesa sarà messa in condizione di intervenire, di attivarsi e di elaborare, se ritiene, il suo contributo investigativo.
Nello specifico, per quanto concerne la conoscenza delle indagini preliminari, indispensabile per poter attivare le investigazioni difensive e per poter comunque attivare la difesa, è stata prevista, come abbiamo già sottolineato, la comunicazione dell’informazione di garanzia al momento del compimento del primo atto cui il difensore ha il diritto di assistere e comunque non oltre un termine prestabilito, decorrente dalla acquisizione della notizie di reato. L’informazione di garanzia deve contenere le generalità della persona sottoposta alle indagini e della persona offesa, la enunciazione sintetica dell’accusa e dei motivi che la sostengono e l’indicazione dei diritti dell’accusato. Anche l’invio dell’informazione di garanzia potrà essere ritardata per particolari tipologie di reato e per peculiari esigenze investigative, fermo restando il dovere di spedirla ogni volta che deve essere compiuto un atto cui il difensore ha il diritto di assistere.
A completamento dell’ambito connesso alla segretezza investigativa, è stata prevista, poi, la comunicabilità delle iscrizioni nel registro delle notizie di reato su richiesta della persona sottoposta alle indagini, del difensore o della persona offesa, con l’eccezione dei casi in cui il pubblico ministero, per ragioni investigative, ritenga di disporre la segretazione. In questo ultimo caso, però, la segretazione deve avere un durata temporale limita alle reali esigenze investigative e comunque non deve superare un termine massimo.
In questa prospettiva, è stato, innanzitutto, stabilito che il pubblico ministero ha il potere-dovere di compiere indagini in funzione dell’esercizio dell’azione penale, proiettate, cioè, all’epilogo naturale verso cui tende l’azione dell’accusa: la richiesta di procedere al giudizio.
Le indagini devono essere, poi, complete e devono avere quale contenuto l’accertamento di fatti specifici, tra cui si è ritenuto di comprendere anche quelli favorevoli alla persona sottoposta alle indagini.
L’aspetto della completezza delle indagini, inteso nel senso di indagini che esplorano tutti i temi ragionevolmente utili alla ricostruzione del fatto, corrisponde agli insegnamenti della Corte costituzionale che, sin dal 1991 (sent. 88/91), ha richiamato l’attenzione del legislatore sull’esigenza di completezza delle indagini, costruendo il concetto come un valore da coltivare ed ampliare. Anche la necessità di accertare fatti specifici costituisce una caratteristica ineludibile, per evitare che le attività investigative siano proiettate verso l’accertamento di “fenomeni sociali” e che perdano di vista la loro essenziale funzione direzionata alle determinazioni inerenti l’esercizio dell’azione penale, quindi la richiesta di un giudizio nella prospettiva di un accertamento della responsabilità penale per un fatto di reato specifico e determinato nei contenuti normativi.
Le indagini devono avere, poi, un termine di durata prestabilito e congruo, che possa consentire sia al pubblico ministero di effettuare le investigazioni necessarie alle determinazioni relative all’esercizio dell’azione penale sia alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa di aver una certezza sui tempi investigativi massimi. Termine che decorre dalla acquisizione della notizia di reato nominativa e che possono essere prorogati una sola volta attraverso un meccanismo che prevede la richiesta di proroga del pubblico ministero motivata con l’indicazione degli atti investigativi da svolgere e dei tempi necessari a svolgerli e la decisione del giudice per le indagini preliminari, sganciata da ogni automatismo, con la quale lo stesso può concedere una proroga commisurata alle reali esigenze investigative, entro i limiti massimi fissati dalla legge.
Questo sistema vuole togliere ogni connotazione di automatismo alla proroga delle indagini preliminari, riconducendo il meccanismo alla sua naturale funzione: consentire l’”eccezionale” utilizzazione di un termine investigativo ulteriore (cioè maggiore) rispetto a quello ordinario prestabilito (e congruo) nei casi di effettive e dimostrate esigenze connesse alle indagini da svolgere, previa indicazione specifica delle attività investigative da svolgere e dei tempi necessari per effettuarle. Il pubblico ministero deve, cioè, mettere il giudice nella condizione di conoscere il programma investigativo che legittima la richiesta di proroga per poter valutare se e con quale ampiezza temporale concedere la proroga.
La problematica della ritardata iscrizione è stata ritenuta, sin dalle prime battute del c.p.p. del 1988, una delle problematiche di maggiore delicatezza per le indiscutibili interrelazioni che essa aveva con alcuni nervi scoperti della procedura penale ed in particolare con quelli afferenti al controllo dei potere del pubblico ministero nella fase investigativa, a lui solo affidata. La giurisprudenza, pur rendendosi conto della delicatezza del versante in quanto iscrivere con ritardo una notizia significa dilatare arbitrariamente i tempi delle indagini aggirando, di fatto, la previsione normativa, ha sempre optato per una soluzione morbida. Ha, cioè, prevalentemente affermato che la ritardata iscrizione non può dar luogo a sanzioni processuali, potendo, invece, avere consistenti riverberi penali e disciplinari per il pubblico ministero inadempiente. Soluzione insoddisfacente dal momento che la ritardata iscrizione crea un vulnus interno alla fase di raccolta degli elementi investigativi e lede in modo significativo i diritti della persona sottoposta alle indagini. Per tale semplice ragione essa deve trovare all’interno del sistema una risposta adeguata ed equilibrata.
In questo ambito specifico, peraltro, la Corte costituzionale, ha chiarito, in una prospettiva sostanzialmente diversa e condivisibile, come l’iscrizione abbia natura ricognitiva e non costitutiva, esistendo un vero e proprio diritto alla corretta iscrizione della notizia di reato (immediatamente successiva alla sua acquisizione nominativa). La ricerca di un meccanismo di controllo affidabile ha fatto concentrare l’attenzione sul giudice per le indagini preliminari e sulla sua essenziale funzione di controllo.
Il controllo effettivo e pregnante del giudice costituisce, infatti, un momento essenziale dei meccanismi di iscrizione della notizia di reato e di proroga dei termini della indagini preliminari.
Per dare certezza al principio di durata limitata delle indagini e per evitare problemi connessi alla tempestività della iscrizione, fondamentale per dare concretezza al primo principio, è stata stabilita la inutilizzabilità degli atti compiuti oltre il termine previsto o prorogato e, soprattutto, il potere del giudice, ogni qual volta valuta la utilizzabilità degli atti o su richiesta delle parti, di verificare la correttezza dell’iscrizione retrodatando, ove necessario, la iscrizione medesima al momento nel quale doveva essere effettuata.
Sia il meccanismo di durata delle indagini, sia il meccanismo di comunicabilità dell’iscrizione nel registro delle notizie di reato subirà deroghe nei casi di reati di particolare gravità per i quali sono inevitabilmente necessari tempi investigativi maggiori e maggiore segretezza.
In questa prospettiva, il pubblico ministero può effettuare ogni attività investigativa utile, esplorando ogni tema necessario ai fini delle sue determinazioni. Anche la completezza investigativa, cui mira l’attività del pubblico ministero, è un elemento particolarmente significativo, che, come abbiamo già sottolineato, deve essere valorizzato e controllato dal giudice, in sede di valutazione sugli epiloghi delle indagini medesime (esercizio dell’azione o controllo sulla richiesta di archiviazione).
Il potere del pubblico ministero concerne lo svolgimento delle attività investigative necessarie ai fini richiamati, potendo, in particolare, procedere ad interrogare l’imputato, raccogliere informazioni, procedere a confronti, a individuazioni di persone e di cose, ad accertamenti tecnici, ad ispezioni, potrà disporre perquisizioni, sequestri e, previa autorizzazione del giudice, intercettazioni di conversazioni e di altre forme di comunicazione, di immagini e di dati personali. L’organo dell’accusa, potrà, nei casi di urgenza, disporre direttamente l’intercettazione o le altre forma di captazione: queste, però, dovranno essere convalidate entro tempestivamente, con previsione di inutilizzabilità assoluta delle intercettazioni compiute in mancanza di provvedimento convalidato.
Il pubblico ministero deve documentare l’attività compiuta secondo specifiche e differenziate modalità comunque idonee allo scopo ed espressamente previste.
Nello svolgimento delle indagini, poi, l’organo di accusa potrà avvalersi della polizia giudiziaria, in virtù della dipendenza funzionale che caratterizza i rapporti con quest’ultima.
E’ stato anche previsto il potere del pubblico ministero di svolgere attività integrative di indagine dopo l’esercizio dell’azione penale, comunicandole tempestivamente alle altre parti.
Tra i vari uffici del pubblico ministero deve esservi un collegamento investigativo espressamente disciplinato. Il tema del coordinamento investigativo, specificamente trattato in altra parte della relazione, costituisce un punto qualificante della fase investigativa dal momento che esso costituisce un approdo colturale indiscutibile: questa ottica, è stato previsto il potere di coordinamento del Procuratore generale presso la Corte di appello e del Procuratore nazionale antimafia per specifiche tipologie di reati (quelli di tipo mafioso o aggravati dalla finalità mafiosa e i reati di terrorismo). La particolare attenzione al coordinamento investigativo segue una apprezzabile linea legislativa sviluppatasi negli ultimi anni, che, prendendo spunto da esigenze concrete connesse alle indagini per i reati di criminalità organizzata, punta a rendere il coordinamento investigativo, pur nella differenza ovvia di forme, un dato normativo che informa l’intera fase investigativa, in tutte le sue latitudini ed orienta le relazioni tra gli uffici e con gli organi deputati al coordinamento.
Dal canto suo, invece, per la polizia giudiziaria è stato previsto, in via generale, innanzitutto il potere-dovere di prendere notizia dei fatti costituenti reato e di descriverli, fornendo al pubblico ministero l’indispensabile dato iniziale utile a impostare le indagini preliminari. Deve, poi e conseguenzialmente, assicurare le fonti di prova, anche per mezzo di investigazioni scientifiche. Questa attività caratterizza in modo peculiare l’attività della polizia giudiziaria dal momento che attraverso di essa si assicurano al procedimento prima ed al processo poi le fonti probatorie indispensabili alla ricostruzione del fatto ed alla verifica della utilità del dibattimento e, successivamente, della responsabilità penale. Il riferimento all’investigazione scientifica, quale riconoscimento di queste specifica attività e della sua autonomia nell’ambito delle prime indagini, colma un vuoto rappresentato dalla stessa polizia scientifica in sede di audizione.
Alla polizia giudiziaria è riconosciuto, poi, il fondamentale compito di impedire che i reati vengano portati ad ulteriori conseguenze: attività di prevenzione e di intervento essenziale nella logica preventiva che deve ispirare uno stato moderno.
E’ stato previsto, poi, il potere della polizia giudiziaria di procedere, per l’identificazione della persona sottoposta alle indagini, previa autorizzazione del pubblico ministero, al prelievo coattivo di capelli o di saliva, nel rispetto della dignità personale del soggetto e senza alcuna possibilità di utilizzare a fini probatori i campioni così prelevati.
La constatazione dell’importanza del DNA e delle tecniche di identificazione personale con mezzi scientifici consiglia di prevedere la possibilità di utilizzare, solo a fini identificativi, queste nuove tecniche purché siano determinate le sostanze prelevabili coattivamente, sia espressamente garantita la dignità personale del soggetto e l’inutilizzabilità a fini probatori dei campioni acquisiti. Queste tre garanzie costituiscono l’imprescindibile corredo del prelevamento di campioni a fini identificativi per evitare che si trasformi in una pratica deleteria laddove, invece, esso costituisce un modo essenziale per identificare i soggetti.
Prima che il pubblico ministero intervenga con le direttive utili allo svolgimento proficuo delle indagini, è stato previsto il potere-dovere della polizia giudiziaria di raccogliere ogni elemento utile alla ricostruzione del fatto e alla individuazione del colpevole e di assumere sommarie informazioni da chi non si trovi in stato di arresto o di fermo, con l’assistenza del difensore.
E’ stato previsto, inoltre, il potere-dovere della polizia giudiziaria di assumere sul luogo e nell’immediatezza del fatto, anche senza l’assistenza del difensore, notizie ed indicazioni utili ai fini dell’immediata prosecuzione delle indagini, con divieto di ogni documentazione e utilizzazione processuale, anche attraverso testimonianza della stessa polizia giudiziaria.
Questi poteri costituiscono i modi attraverso i quali, in via autonoma, la polizia giudiziaria deve poter effettuare tutte le attività che ritiene opportune per raggiungere le finalità accertative che le competono anche prima che il pubblico ministero abbia effettivamente assunto la direzione delle indagini ed impartito le direttive necessarie allo svolgimento delle stesse, potendo anche assumere sommarie informazione dalla persona sottoposta alle indagini, che non si trovi in stato di privazione della libertà personale e a condizione che la persona sia assistita dal difensore.
Diversamente, invece, e solo per poter procedere nella indagini, la polizia giudiziaria può assumere, sul luogo e nell’immediatezza del fatto, notizie utili anche senza l’assistenza del difensore quando le notizie vengono fornite dalla persona sottoposta alle indagini o che comunque debba assumere questa qualità.
La peculiare differenza rispetto al sistema vigente e che non viene fatta alcuna distinzione tra dichiarazioni provocate e dichiarazioni spontanee, sicché ad entrambe si applica lo stesso regime delineato in via ovviamente generale.
Nella enunciazione delle direttive si è ritenuto opportuno chiarire in modo esplicito il dato, prevedendo espressamente il divieto di ogni utilizzazione agli effetti del giudizio e per l’applicazione di una misura cautelare personale delle dichiarazioni spontanee rese alla polizia giudiziaria dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini senza l’assistenza della difesa.
La polizia giudiziaria ha anche l’obbligo di riferire al pubblico ministero immediatamente la notizia del reato, indicando tutto quanto necessario e cioè le attività compiute e gli elementi sino ad allora acquisiti. Viene previsto il divieto di utilizzazione agli effetti del giudizio, anche attraverso testimonianza della stessa polizia giudiziaria, delle dichiarazioni ad essa rese da testimoni o dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini. La polizia giudiziaria, prima che il pubblico ministero intervenga impartendo le direttive per lo svolgimento delle indagini, deve raccogliere ogni elemento utile alla ricostruzione del fatto e alla individuazione del colpevole ponendo in essere le attività necessarie. Nel momento in cui il pubblico ministero interviene, la polizia giudiziaria deve compiere gli atti ad essa specificamente delegati dal pubblico ministero, svolgendo, nell’ambito delle direttive impartite, tutte le attività di indagine necessarie per accertare i reati, nonché le attività richieste da elementi successivamente emersi, informando prontamente il pubblico ministero.
La polizia giudiziaria, dovrà procedere, in casi predeterminati di necessità e di urgenza, a perquisizioni e a sequestri, comunicando immediatamente i relativi atti al pubblico ministero.
Una volta che il pubblico ministero ha assunto la direzione delle indagini preliminari, la polizia giudiziaria dovrà compiere tutti gli atti che le vengono espressamente delegati dall’organo dell’accusa e, nell’ambito delle direttive alla stessa impartite, dovrà svolgere tutte le attività di indagine per accertare i reati e attività richieste da elementi successivamente emersi, informando, in questo caso, senza alcun ritardo il pubblico ministero.
Anche la polizia giudiziaria dovrà attivarsi per far rispettare le previste garanzie difensive nel compimento degli atti ad essa delegati o posti in essere in via autonoma e di iniziativa.
Viene previsto, infine, l’obbligo della polizia giudiziaria di documentare secondo specifiche modalità tutta l’attività compiuta, anche attraverso mezzi audiovisivi e strumenti elettronici, in modo da rendere controllabile l’attività stessa.
Deve essere prevista, poi, la trasmissione, in casi predeterminati, di informazioni e di copie di atti, anche coperti da segreto, ad altra autorità giudiziaria penale e, ai fini della prevenzione di determinati delitti, al ministro dell’interno con la facoltà del destinatario della richiesta di trasmissione di rigettarla con decreto motivato.
Per quanto concerne le garanzie difensive, è stato previsto il diritto dell’imputato e della persona offesa di nominare, innanzitutto, un difensore tecnico per l’attivazione concreta delle prerogative difensive che non possono in alcun modo prescindere dalla difesa tecnica. A ciò si aggiunge, per rendere concreta la difesa, la necessità di individuare specificamente gli atti del pubblico ministero ai quali il difensore ha diritto di assistere, precisando che, in ogni caso, tra di essi devono in ogni caso rientrare, per la loro delicatezza, invasività o per la essenziale funzione difensiva che rivestono, l’interrogatorio e i confronti con l’imputato, nonché le perquisizioni, le ispezioni e i sequestri. Questa elencazione, alla quale potranno aggiungersi altri atti specifici, costituisce il minimo inderogabile, ove la presenza del difensore tecnico non può in alcun modo essere sacrificata.
Consegue, sul piano logico, la necessità di prevedere il diritto del difensore di ricevere avviso del compimento degli atti cui ha diritto di assistere, esclusi, ovviamente, gli atti di perquisizioni e sequestro che essendo tipici atti a sorpresa, non possono essere comunicati al difensore prima del loro compimento.
In questi casi, però, vive il diritto del difensore ad assistere senza preavviso. Infine, deve essere prevista la disciplina del deposito degli atti compiuti dal pubblico ministero, con la ulteriore previsione di ipotesi nelle quali, ricorrendo gravi motivi specificamente individuati, il deposito può essere ritardato.
Queste direttive completano il profilo statico delle garanzie difensive (conoscenza del procedimento e dell’accusa e possibilità di nominare un difensore tecnico cui dovranno essere effettuate le comunicazioni utili alla esplicazione del diritto di assistere la persona sottoposta alle indagini) e costituiscono la premessa per la esplicazione del profilo difensivo dinamico che consiste nella possibilità concreta di difendersi provando.
La conoscenza delle indagini è anche la premessa per l’attivazione di un potere investigativo in capo alla persona sottoposta alle indagini, al suo difensore ed alla persona offesa che si traduce nella possibilità di svolgere attività investigative tipizzate nella forma e nella facoltà di chiedere direttamente al giudice l’effettuazione di particolari atti necessari alle esigenze investigative che per la loro peculiarità non possono essere svolte direttamente dall’interessato (le c.d. finestre giurisdizionali).
In questa direzione, infatti, è stato previsto innanzitutto il fondamentale potere di effettuare investigazioni difensive per le finalità proprie della difesa, ponendo in essere una serie di specifici atti investigativi attraverso modalità determinate e documentati in modo idoneo. Queste attività, per la loro specifica vocazione difensiva, potranno essere utilizzate dal difensore ove ritenute utili.
Insieme al potere di svolgere attività investigative difensive è stata, poi, prevista la possibilità di rivolgersi direttamente al giudice per le necessità difensive che non si riescono a soddisfare attraverso le indagini della difesa.
Le scelte poste a base delle direttive sulle investigazioni difensive e sulle finestre giurisdizionali prendono spunto da un dato consolidato e condiviso nella cultura giuridica e nel sistema processuale: la vera difesa consiste nel difendersi provando. Questa affermazione, ricca di riferimenti e di interrelazioni, richiede, inannzitutto la concreta possibilità per la difesa di effettuare attività di ricerca di elementi probatori utili.
La disciplina delle indagini difensive, introdotta nel nostro ordinamento processuale con la legge 7 dicembre 2000 n.397, nasce come una delle prime forme di attuazione del “giusto processo” disegnato dalla riforma dell’articolo 111 della Costituzione.
La generica previsione di facoltà di individuazione e di ricerca di elementi di prova a favore dell’assistito e di acquisizione di informazioni da parte di persone in grado di renderne, contenuta nell’articolo 38 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale che costituiva l’unico riferimento normativo in materia di attività di indagine difensiva, pur con le integrazioni dettate dalla legge 8 agosto 1995 n. 332, si è rilevata immediatamente inadeguata a corrispondere alla realizzazione effettiva dei valori del nuovo disposto costituzionale.
Il contraddittorio come metodo di formazione della prova, la parità delle parti davanti al giudice terzo ed imparziale, il principio del “difendersi provando”, hanno imposto l’introduzione di una disciplina articolata che regolasse, tipizzandoli, i poteri e le modalità di indagine del difensore e assicurasse l’utilizzabilità dei risultati ai fini della decisione.
Pertanto, condividendo e confermando i valori e l’impianto generale della legge vigente, la Commissione ha operato nella prospettiva di superare alcune lacune, emerse nella sperimentazione pur breve della normativa, attinenti ai poteri di investigazione e, in specie, a quelli disponibili dalla persona offesa, e di conferire alla disciplina una migliore rispondenza al principio costituzionale della parità delle parti, rivedendo l’individuazione degli interlocutori del difensore nel momento dell’attività di ricerca della prova a favore del proprio assistito.
Si è confermata, quindi, la facoltà del difensore di svolgere investigazioni, anche con l’ausilio di investigatori privati e di consulenti, per ricercare ed individuare elementi di prova a favore del proprio assistito, con forme e finalità specificamente stabilite (direttiva 63.1): l’ampiezza del riferimento alle “investigazioni” è stata intesa come certamente comprensiva delle attività di indagine già previste dalla normativa vigente ma anche potenzialmente suscettibile di ulteriori arricchimenti dei poteri investigativi, riservandone opportunamente al legislatore delegato la definizione nel dettaglio e sempre nel rispetto del criterio di tipizzazione delle forme e delle finalità, ribadito a conclusione della prima direttiva.
In osservanza del principio sancito dall’art. 24 co. 2 della Costituzione, secondo il quale “la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”, si è altresì mantenuta l’estensione del potere investigativo del difensore ad ogni stato e grado del procedimento, inclusa la fase dell’esecuzione e il giudizio di revisione, ribadendo così il valore innovativo della disciplina vigente rispetto alle originarie previsioni dell’art.38 disp.att.c.p.p., laddove soddisfa le esigenze di ricerca della prova da parte della difesa non solo nel dibattimento ma nell’intero percorso del procedimento.
Con il riferimento indistinto alla figura del difensore si è inteso, infine, riconoscere uguale titolarità di poteri di indagine per la difesa della persona sottoposta a procedimento e per quella della persona offesa.
Nel quadro della condivisione e della conferma dei principi essenziali della vigente disciplina delle indagini difensive, si è ribadita l’esclusione esplicita dell’obbligo di denuncia da parte del difensore anche con riguardo ai reati dei quali abbia avuto notizia nel corso dell’attività investigativa (direttiva 63.2), corollario necessario dei requisiti di libertà, autonomia e indipendenza che devono informare l’attività dell’avvocato, finalizzata alla tutela di diritti e di interessi di parti private, per espresso dettato delle regole deontologiche (preambolo del Codice Deontologico Forense, 17 aprile 1997 e successive modifiche).
La specifica esclusione dell’obbligo di denuncia in capo al difensore che conduce le investigazioni difensive ha, inoltre, il valore significante dell’affermazione che anche nell’esercizio di tale attività defensionale l’avvocato non riveste la funzione di pubblico ufficiale, del tutto inconciliabile con la natura privata degli interessi tutelati.
Si è trattato, pertanto, di mantenere ferma la specifica espressione di un principio che, anche alla luce di recenti pronunce (Cass. Sez. Un., 27 giugno 2006, n. 3200) è ricorrentemente soggetto a discussione e si è ritenuto debba opportunamente essere definito in sede legislativa nel quadro dei canoni del giusto processo dettati dalla norma costituzionale, tra i quali la contrapposizione davanti al giudice di due parti diverse per qualità e ruoli, seppure pari nel contraddittorio, è elemento essenziale e inalienabile.
L’innovazione rispetto alla disciplina vigente, contenuta nella direttiva 63.3, attiene all’individuazione dell’interlocutore del difensore dell’indagato nello svolgimento dell’attività di indagine difensiva.
La scelta prende spunto dall’art. 111 comma 3 Cost. che individua nel giudice il soggeto di riferimento da adire per le necessità evocate e proietta il sistema verso le c.d. finestre giurisdizionali, cioè possibilità concrete di rivolgersi al giudice, nel corso delle indagini.
Ipotesi, quelle contemplate, ricorrenti in tutti i casi in cui il compimento dell’atto di indagine richiede la collaborazione necessaria di un terzo, come nell’acquisizione di informazioni o nell’accesso a luoghi privati o non aperti al pubblico e questi la rifiuti, ovvero in quelli in cui l’attività investigativa consiste nell’acquisizione di dati o elementi personali (tabulati telefonici, supporti telematici, documenti bancari…) appartenenti o custoditi presso altri soggetti.
A differenza della disciplina attuale, che stabilisce interlocuzioni differenziate con il pubblico ministero e con il giudice a seconda degli atti di indagine, si è individuato nel giudice il soggetto cui rivogersi, in linea col dettato costituzionale previsto dall’art. 111 comma 3 Cost.
Si è ritenuto, pertanto, di superare l’asimmetria ricorrente nella disciplina vigente che vede una parte, la difesa, richiedere all’altra parte, l’accusa, la collaborazione per lo svolgimento di atti di indagine difensiva.
Con ciò non si è affatto esclusa, peraltro, ogni forma di partecipazione del titolare dell’indagine pubblica, prevedendo sia la comunicazione del decreto del giudice che dispone l’assunzione o autorizza il compimento dell’atto di indagine richiesto, ma anche l’immediato inserimento nel fascicolo delle indagini preliminari del verbale dell’atto di indagine assunto dal giudice o di quello autorizzato.
Il che, naturalmente, significa altresì che il ricorso all’intervento del giudice per il compimento di atti di indagine difensiva, comportando il coinvolgimento di un soggetto pubblico, determina il venir meno della disponibilità discrezionale dell’esito dell’attività in capo al difensore, sussistente, invece, in tutte le ipotesi in cui egli sia autore esclusivo dell’atto investigativo.
Si è ritenuto, infine, di qualificare la richiesta dell’atto di indagine proveniente dal difensore della persona sottoposta alle indagini prevedendo che essa debba indicare i requisiti di pertinenza e di rilevanza dell’atto richiesto.
La disposizione ha l’evidente finalità di scongiurare l’attivazione del giudice nella ricerca di prove inconferenti con il procedimento in corso: d’altra parte, l’aver circoscritto al sindacato dei soli parametri di pertinenza e di rilevanza dell’atto rispetto all’indagine in corso, è scelta che corrisponde all’esigenza di evitare la configurazione in capo al giudice di doveri e poteri istruttori, del tutto incompatibili con il modello del processo accusatorio cui pure la presente legge delega è informata. In termini speculari e coerenti con l’impianto del processo di parti, si è ritenuto che analoghe richieste di compimento di atti di indagine provenienti dal difensore della persona offesa debbano essere rivolte al pubblico ministero (direttiva 63.4).
Tale scelta non soltanto è apparsa congruente con le finalità di ricerca degli elementi di prova a sostegno dell’accusa che accomunano l’attività della parte pubblica e della parte offesa privata, ma anche corrispondente ad un obiettivo di migliore efficienza del sistema, considerato che le richieste della persona offesa sarebbero meglio e più prontamente valutate e soddisfatte dal soggetto titolare e autore dell’indagine.
Ulteriore innovazione alla disciplina attualmente vigente è l’esclusione dell’attività di indagine preventiva se non per il difensore della persona offesa, dettata dalla chiara formula della direttiva 63.4.
La scelta è stata determinata dalla considerazione che la finalità precipua cui è diretta l’attuale previsione dell’investigazione compiuta “per l’eventualità che si instauri un procedimento penale”, ovvero quella di assicurare la migliore tempestività alla costruzione dell’impianto probatorio difensivo, potrà essere soddisfatta dalla previsione di una più tempestiva conoscenza della pendenza del procedimento penale, realizzata dall’anticipazione, rispetto a quanto attualmente previsto dall’art. 369 c.p.p., dell’informazione di garanzia entro un tempo “predeterminato e congruo” dall’avvio dell’indagine.
In tal modo si è inteso, altresì, superare una previsione che, sia pure di rara attuazione pratica, presenta rischi seri di potenzialità invasiva della vita privata del cittadino anche a prescindere dal riferimento ad un fatto oggetto di indagine e, non ultimo, di censure di attività di inquinamento probatorio la cui ipotizzabilità anche astratta finisce per minare la solidità complessiva del modello che riconosce al difensore la legittimazione al compimento di indagini a favore del proprio assistito.
Si è ritenuto, invece, di mantenere ferma la facoltà di investigazioni preventive per il difensore della persona offesa, eccettuati gli atti che richiedono l’intervento o l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria, considerando che l’obiettivo cui esse sono dirette, ovvero la ricerca di elementi di prova a sostegno di un’ipotesi d’accusa che si intende rappresentare all’autorità giudiziaria, oltre a rendersi frequentemente necessario per assicurare il dovuto fondamento all’atto di denuncia, si rende comunque immediatamente oggetto della valutazione critica del pubblico ministero che può scongiurare i rischi altrimenti paventati nello svolgimento di indagini private avulse dalla pendenza di un procedimento penale.

17. (Segue): il coordinamento investigativo

La necessità di specifiche direttive in materia di coordinamento investigativo è stata riconosciuta dalla Commissione in ragione dell’obiettiva esigenza di razionale completamento di un processo di costruzione normativa avviato soltanto dopo la codificazione del 1988, sul presupposto che l’introduzione di regole processuali deputate ad assicurare il proficuo raccordo informativo ed operativo degli uffici del pubblico ministero corrisponda ad un bisogno reale di razionalizzazione dell’agire giudiziario, in ciò traducendosi praticamente la più generale domanda collettiva volta ad evitare conflitti e contraddizioni dell’azione dei pubblici poteri.
Come noto, in materia di coordinamento investigativo, le scelte originarie del legislatore del 1988 furono altre, accogliendosi l’idea di un sistema di disciplina dell’azione degli uffici dei pubblici ministeri titolari di indagini collegate complessivamente ancorato al presupposto della spontaneità della collaborazione degli organi d’indagine e dall’assenza di sanzioni processuali per l’ipotesi di crisi di effettività del suo funzionamento.
Il primo tentativo di correzione fu costituito dall’introduzione dell’art. 118-bis delle norme di attuazione del codice di procedura penale, operata dall’art. 9 del d.lgs. 14 gennaio 1991 n. 12. Con tale norma si affidava al procuratore generale presso la corte d’appello – da solo o d’intesa con altri procuratori generali in caso di collegamenti interdistrettuali - il compito di promuovere il coordinamento delle indagini relative ai delitti più gravi, a tal fine prevedendosi un obbligo di informativa dei procuratori della Repubblica circa l’apertura di procedimenti relativi ai delitti di cui all’art. 407 cpv. lett. a) c.p.p.
Nel volgere di pochi mesi, seguirono altre e rilevanti modifiche legislative. Dapprima, attraverso l’introduzione del primo comma-bis dell’art. 372 c.p.p. realizzata dall’art. 3 del d.l. 292/1991 convertito con modificazioni nella l. 356 dell’8 novembre 1991; quindi, in materia di criminalità organizzata mafiosa, con l’affermarsi della più radicale scelta di andare apertamente verso la concentrazione delle indagini in capo soltanto a taluni uffici, con contestuale introduzione, nella medesima materia, di articolate funzioni eteronome di impulso e coordinamento delle indagini collegate (d.l. 20 novembre 1991 n.367, convertito con modificazioni nella legge 20 gennaio 1992 n.8).
Le indagini relative ai reati ricompresi nel novero di quelli di cui al vigente art. 51 comma 3-bis c.p.p. vennero così poste al centro di un articolato sistema di coordinamento, all’interno del quale le funzioni di impulso e coordinamento della direzione nazionale antimafia assumevano rilievo assolutamente innovativo.
La materia di possibile coordinamento delle indagini collegate definita dall’art. 371 c.p.p. veniva così, di fatto, a scomporsi definitivamente, dando origine a tre sottosistemi.
Le indagini in materia di reati di mafia (e legalmente assimilati) ne costituiscono il primo e più compiuto livello di articolazione funzionale.
La materia di collegamento investigativo non attratta nella sfera di attribuzione delle d.d.a. e della d.n.a. veniva così a comporsi in due ulteriori sottosistemi, l’area dei quali risultando rispettivamente definita:
a) dai reati corrispondenti alle previsioni residue dell’art. 407 cpv. lett. a), in relazione ai quali l’effettività del coordinamento era (ed è) affidata agli strumenti dell’art. 118-bis disp. att. e 372 comma 1-bis c.p.p.;
b) dai casi individuati in via assolutamente residuale, nei quali il coordinamento continuava (e tuttora continua) a reggersi sulla disponibilità degli uffici inquirenti interessati.
Soprattutto, appare interessante sottolineare come la forza decrescente degli strumenti di coordinamento utilizzabili con riferimento a ciascuno dei tre sottosistemi appena enunciati ha costituito nella più recente legislazione (in materia di associazioni criminose finalizzate al contrabbando di tabacchi lavorati esteri così come per i delitti in materia di tratta di persone introdotti con la l. n. 228 dell’11 agosto 2003) il fondamentale argomento per giustificare l’estensione delle attribuzioni delle direzioni distrettuali antimafia e della Direzione nazionale antimafia, derivando dalla progressiva dilatazione dell’orbita applicativa dell’art. 51, comma 3-bis, c.p.p., l’applicabilità, oltre che del più incisivo regime di ricerca della prova tipico delle indagini relative ai delitti di mafia, soprattutto, dei meccanismi di concentrazione della legittimazione inquirente e di più serrato coordinamento tipici dei delitti già attratti nella sfera di attribuzioni delle procure distrettuali antimafia.
Nell’uno e nell’altro caso, ancora incidentalmente, si può osservare che a giustificare quelle scelte di politica criminale ha concorso anche la considerazione obiettiva che un efficace coordinamento investigativo è tanto più necessario nelle materie criminologiche segnate dalla dimensione transnazionale dei fenomeni illeciti e dalle correlative esigenze di cooperazione internazionale.
Parallelamente, intanto, il sistema si è arricchito di previsioni normative finalizzate al contemperamento delle istanze di duttilità ed efficacia delle indagini preliminari con quelle di garanzia delle ragioni difensive coinvolte nell’azione investigativa, come dimostra la vicenda dell’introduzione dell’art. 54-quater c.p.p.
Questa faticosa opera di assestamento normativo, avviatasi nel volgere di pochi anni dall’entrata in vigore del codice di rito penale del 1988, è ben lungi dal potersi dire conclusa, perché residuano significativi margini di razionalizzazione del sistema, obiettivamente riconoscibili con riguardo, soprattutto, da un lato, alla perdurante assenza di un centro unitario di imputazione delle funzioni di coordinamento investigativo in materia di indagini relative a delitti con finalità di terrorismo, e, dall’altro lato, al residuare di ambiti investigativi, sovente anche assai rilevanti, sottratti all’azione di coordinamento del procuratore generale presso la corte d’appello.
Sul primo versante, come noto, alla riconosciuta (per effetto del decreto legge 18 ottobre 2001, n. 374, convertito con modificazioni con la legge n. 438 del 15 dicembre 2001) necessità di procedere alla concentrazione della legittimazione investigativa in capo soltanto agli uffici distrettuali del pubblico ministero, corrispose la scelta di lasciare invariata la disciplina del coordinamento delle indagini collegate.
Tale situazione appare bisognosa di superamento, poiché priva il coordinamento tra le procure distrettuali della chiave razionale offerta dall’esistenza di una struttura centrale in grado di raccogliere, analizzare ed elaborare i dati e le informazioni provenienti dai singoli ambiti di iniziativa giudiziaria e così innervare funzioni di coordinamento, ma altresì perché viene a mancare la possibilità di coniugare la specificità dell’intervento giudiziario necessario in materia di terrorismo con l’esigenza di una visione complessiva dei fenomeni criminali più gravi in grado di cogliere le multiformi connessioni operative fra l’azione di gruppi terroristici e quella della criminalità organizzata e di porsi come premessa di un razionale impiego delle conoscenze accumulate e delle risorse disponibili.
La necessità di ciò è, del resto, particolarmente visibile nella prospettiva della cooperazione internazionale, che chiama i singoli stati a dotarsi, anche nella materia in esame, di strumenti di azione preventiva e repressiva in grado di interagire secondo regole di semplicità, rapidità ed efficienza, ciò che appare incompatibile con il frazionamento territoriale delle funzioni di coordinamento interno che caratterizza le indagini in tema di delitti con finalità di terrorismo e con le obiettive istanze di semplificazione della cooperazione possibile tra Stati.
Su questo terreno, in particolare, le difficoltà di agire coordinato nel singolo ambito nazionale si esaltano, dal momento che non è ragionevole pensare di potere credibilmente agire nello scenario della cooperazione internazionale caricando i già complessi problemi della collaborazione fra autorità di Paesi diversi del peso aggiuntivo della difficoltà di un coordinamento interno anche soltanto potenzialmente sofferto ed incerto.
Sul presupposto di ciò, si è scelto (in ciò registrandosi all’interno della Commissione una sostanziale identità di visioni) di prevedere l’assegnazione delle funzioni di coordinamento delle indagini in materia di reati con finalità di terrorismo all’ufficio del procuratore nazionale antimafia (ciò che potrebbe giustificare anche il mutamento di tale ultima denominazione).
L’opzione astrattamente alternativa di prevedere l’istituzione di un nuovo ufficio giudiziario è stata esclusa riconoscendosi le difficoltà e le obiettive diseconomie di un sistema che scegliesse di dotarsi di distinti centri di esercizio delle funzioni di coordinamento in ambito nazionale delle indagini in tema di criminalità organizzata e di terrorismo.
La duplicazione delle funzioni comporterebbe, infatti, inevitabilmente il pericolo di una loro sovrapposizione o persino contraddizione ogni qual volta le indagini rivelassero, come l’esperienza ha già dimostrato, la concretezza delle connessioni fenomenologiche fra la criminalità dell’una e dell’altra specie.
In ogni caso, sul piano pratico, ben difficilmente il nuovo ufficio potrebbe assicurare immediatamente operatività adeguata alla complessità delle funzioni da attribuirgli e all’urgenza delle sfide criminali, senza considerare l’aggravio burocratico e le difficoltà del raccordo delle procure distrettuali con due distinti organi di coordinamento nazionale.
L’ipotesi di unitaria organizzazione delle funzioni di coordinamento delle indagini in tema di reati di criminalità organizzata e con finalità di terrorismo consentirebbe di raggiungere ulteriori, non secondari vantaggi, sul piano:
a) dell’immediata operatività di strutture ormai da tempo efficaci, secondo modelli di riconosciuta funzionalità e sperimentata compatibilità con le autonome prerogative degli uffici territoriali;
b) della immediata disponibilità di risorse e strutture già disponibili (si pensi al complesso sistema informatico che collega tutte le procure distrettuali alla Direzione nazionale antimafia al fine del loro coordinamento), in luogo di quelle da apprestarsi attraverso la costituzione di nuove strutture;
c) della maggiore facilità della collaborazione giudiziaria internazionale (individuandosi un unico centro di contatto a fini di scambio informativo, oltre che per le finalità proprie della Rete Giudiziaria Europea e delle funzioni di corrispondente nazionale del membro nazionale di Eurojust);
d) della possibilità di lettura globale di dinamiche criminali sovente insuscettive di letture frazionate;
e) della semplicità del raccordo fra la funzione di coordinamento investigativo e quelle assegnate agli organi centrali di polizia giudiziaria.
Quanto all’ampiezza semantica della formula delitti di criminalità organizzata, essa non può che definirsi, in conformità alle indicazioni della giurisprudenza di legittimità e di parte della dottrina, che in rapporto ai fini per i quali la nozione viene in rilievo.
Ne consegue che nella prospettiva dell’attuazione delle direttive in parola la nozione suddetta dovrà intendersi riferita non già al mero agire delittuoso attraverso stabili strutture organizzate, ma alle manifestazioni delittuose della criminalità organizzata di tipo mafioso nonché a quelle ulteriori, specifiche tipologie delittuose che appaia al legislatore necessario assimilare alla delinquenza mafiosa.
Sul secondo versante, ha trovato unanime accoglimento l’idea di estendere l’area delle funzioni di coordinamento del procuratore generale presso la corte d’appello al complesso delle materie di indagine, diverse da quelle ricondotte alla sfera di attribuzione del procuratore nazionale, suscettive di rivelare profili di collegamento e, dunque, esigenze di razionale governo delle possibili difficoltà del raccordo operativo tra uffici diversi.
La necessità di perseguire obiettivi di completezza, tempestività e imparzialità delle investigazioni già attraverso la disciplina delle attività del pubblico ministero è alla base della previsione dell’attribuzione agli organi titolari di funzioni di coordinamento, nell’ambito della rispettive sfere di attribuzioni, di poteri tipici delle relazioni di sovraordinazione funzionale e, fra questi, di avocazione delle indagini in casi, da prevedersi tassativamente dal legislatore, di gravi inerzie ed ingiustificate violazioni dei doveri di coordinamento.
In generale, spetterà al legislatore delegato l’individuazione dei casi e dei modi del coordinamento investigativo delle indagini collegate, sul presupposto, ormai permeante il sistema, che, salva la facoltà del legislatore di tipizzare i casi nei quali le ragioni dell’unità dei procedimenti prevalgono in modo così netto da incidere direttamente sul tema dell’individuazione del giudice competente quelle che comunque possono giustificare la trattazione unitaria di procedimenti distinti, nella specifica dimensione della conduzione delle indagini preliminari, il legislatore, senza pronunciarsi sul problema della concentrazione delle attività dinanzi alla medesima autorità, può e deve riconoscere che tra procedimenti possono esservi legami di reciproca influenza tali da imporre ovvero comunque consentire il coordinamento delle attività d’indagine condotte da più uffici.
All’interno di tale sistema così delineato, la connessione opera già nella fase delle indagini preliminari, ma in modo assai meno rigido, trattandosi di contemperare le esigenze di trattazione unitaria dei procedimenti connessi, con le ragioni di duttilità e proficuità proprie della fase procedimentale deputata alla ricerca delle fonti di prova, ciò che è appunto assicurato dalla funzione di collegamento, legalmente descritta guardando al piano fattuale e senza distinzione alcuna tra possibilità di cognizione unitaria o disgiunta, come la dottrina assolutamente prevalente riconosce allorquando afferma che ambito e finalità del coordinamento investigativo riguardano direttamente ed immediatamente anche l’intera materia della connessione, indipendentemente dall’idoneità della natura del legame tra i procedimenti a giustificare la loro trattazione unitaria, potendo, quando procedono per reati connessi, i pubblici ministeri optare per la concentrazione dei procedimenti (d’intesa fra loro ovvero promuovendo un contrasto positivo) ovvero per valorizzare innanzitutto il coordinamento delle rispettive attività.
La discrezionalità delle valutazioni del p.m. è, naturalmente, suscettiva di temperamenti legali in riferimento a specifiche ragioni (è il caso, oltre che della procedura di controllo attualmente disciplinata dall’art. 54-quater c.p.p., della norma introdotta dalla legge di conversione del d.l. 341/2000 che estende tendenzialmente alla fase investigativa la regola della separazione d’urgenza che obbligatoriamente governa le valutazioni processuali del rischio di scarcerazione degli imputati per i quali non esistano altri titoli di detenzione), ma, in generale, non suscettiva di vincoli incompatibili con l’esigenza di consentire l’orientamento delle scelte dell’organo inquirente sulla base di elementi variegati e complessi, generalmente connessi alla considerazione dello stato e delle modalità delle attività d’indagine in svolgimento.
La considerazione di quanto sinora esposto rende obiettivamente evidente la necessità di una coerente disciplina dei contrasti, positivi e negativi, tra uffici del pubblico ministero e, in particolare, l’esigenza di privilegiare nella regolazione delle procedure di designazione dell’organo requirente obiettivi di semplicità e rapidità e, nel contempo, di piena valorizzazione degli esiti indiziari già acquisiti.

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