La rassegna di dottrina e giurisprudenza del Corso nazionale di formazione specialistica dell'avvocato penalista organizzato dall'Unione delle Camere penali italiane in collaborazione con il Centro per la formazione e l'aggiornamento professionale degli avvocati del Consiglio Nazionale Forense.

3 settembre 2007

Corte d’Appello di Venezia - Prima Sezione Penale- Ord. 22.2.07 - Pres. Est. Dodero - Questione di legittimità costituzionale .

Corte d’Appello di Venezia - Prima Sezione Penale- Ord. 22.2.07 - Pres. Est. Dodero - Imp. XY

Inappellabilità avverso le sentenze di proscioglimento pronunciate in sede di giudizio abbreviato - Questione di legittimità costituzionale - Rilevanza e non manifesta infondatezza - Ragioni.
(Art. 443 comma 1 c.p.p.; art. 2, 10 L. 46706; art. 3, 111 Cost.)

Deve dichiararsi rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 443 comma 1 c.p.p., come modificato dalla L. 46/06, nella parte in cui esclude l’appello del PM avverso le sentenze di proscioglimento pronunciate nel rito abbreviato, per contrasto con gli artt. 3, 111 Cost. Tale limitazione, infatti, determina in capo all’organo di accusa, a fronte di una sentenza di primo grado pronunciata con il rito abbreviato, una condizione di paralisi praticamente totale, essendo la sua possibilità di proporre appello limitata alla sola ipotesi, assolutamente marginale, di sentenza di condanna in cui sia stato modificato il titolo del reato. Si tratta quindi di sperequazione radicale tra le parti del processo che supera di gran lunga i limiti della ragionevolezza, non potendo trovare giustificazione neppure nelle particolari esigenze di celerità proprie del giudizio abbreviato.
Ne deriva altresì l’illegittimità costituzionale della norma transitoria di cui all’art. 10 della L. 46/06.

L’ordinanza così motiva:
(Omissis). - La norma di cui viene eccepita l’incostituzionalità è quella di all’art. 443, 1° comma codice di procedura penale quale risulta dalla modifica apportata dall’art. 2 della legge 46\06.
Nella sua originaria formulazione tale norma escludeva la possibilità per il P.M. e per l’imputato di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento nel giudizio abbreviato quando l’appello tendeva ad ottenere una formula diversa.
Con l’entrata in vigore della legge sopraindicata il regime dell’appello nel giudizio abbreviato è stato profondamente modificato, nel senso che, avendo l’art. 2 eliminato le parole “quando l’appello tende ad ottenere una diversa formula”, è esclusa la possibilità per il P.M. e l’imputato di appellare qualsiasi sentenza di proscioglimento quale che sia il contenuto del gravame.
Tale norma non è stata toccata dalla recente sentenza della Corte Costituzionale n. 26 del 2007 la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale soltanto degli artt. 1 e 10 della legge.
Ritiene, peraltro, questa Corte d’Appello che dai principi enunciati nella sentenza sopraindicata emerga la contrarietà alla Costituzione anche dell’art. 2 della legge 46\06.
Ha affermato la Corte Costituzionale:
il secondo comma dell’art. 111 Cost., inserito dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 (Inserimento dei principi del giusto processo l’articolo 111 della Costituzione) - nello stabilire che “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità” - ha conferito veste autonoma ad un principio, quello di parità delle parti, “pacificamente insito nel pregresso sistema dei valori costituzionali” (ordinanze n. 110 del 2003, n. 347 del 2002 e n. 421 del 2001).
Le diverse condizioni di operatività ed i differenti interessi di cui il P.M. e l’imputato sono portatori (il primo organo pubblico che agisce nell’esercizio in potere e a tutela di interessi collettivi, il secondo un soggetto privato che difende i propri diritti fondamentali) non impongono di ritenere che tale principio debba necessariamente tradursi in un’assoluta simmetria di poteri e facoltà in ogni fase processuale.
Alterazioni di tale simmetria - tanto nell’una che nell’altra direzione (ossia o a vantaggio della parte pubblica che di quella privata) - sono, peraltro, incompatibili con il principio di parità, ad una duplice condizione e, cioè, che per un verso, trovino un’adeguata ratio giustificatrice nel ruolo istituzionale del pubblico ministero, ovvero in esigenze di funzionale e diretta esplicazione della giustizia penale, anche in vista del completo gruppo di finalità esse pure costituzionalmente rilevanti; e, per un altro verso, risultino comunque contenute - anche in un’ottica di complessivo equilibrio dei poteri, avuto riguardo alle disparità di segno opposto riscontrabili in fasi del procedimento distinte da quelle in cui s’innesta la singola norma discriminatrice avuta di mira (si v. la sentenza n. 98 del 1994) - entro i limiti della ragionevolezza.
Tale vaglio di ragionevolezza va evidentemente condotto sulla base del rapporto comparativo fra la ratio che ispira, nel singolo caso, la norma generatrice della disparità e l’ampiezza dello “scalino” da essa creato tra le discriminazioni delle parti, mirando segnatamente a verificare l’adeguatezza della disparità e la proporzionalità dell’ampiezza di tale “scalino” rispetto a quest’ultima.
(Omissis).-
Anche la disciplina delle impugnazioni, quale capitolo della complessiva regolamentazione del processo, si colloca entro l’ambito applicativo del principio di parità delle parti.
- Conseguentemente, se pur il potere di impugnazione nel merito della sentenza di primo grado da parte del pubblico ministero presenta margini di “cedevolezza” più ampi rispetto a quelli che connotano il simmetrico potere dell’imputato, la norma di cui all’art. 1 racchiude una disimmetria radicale in quanto, a differenza dell’imputato, il pubblico ministero viene privato del potere di proporre doglianze di merito avverso la sentenza che lo veda totalmente soccombente negando integralmente la realizzazione della pretesa punitiva fatta valere con l’azione intrapresa, in rapporto a qualsiasi categoria di reati. Ed il fatto che l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento sia sancita anche per l’imputato non incide sulla citata sperequazione per cui una sola delle parti, e non l’altra, è ammessa a chiedere la revisione nel merito della sentenza a sé completamente sfavorevole.
- L’eliminazione del potere di appello del pubblico ministero non può ritenersi compensata dall’ampliamento dei motivi del ricorso per Cassazione non solo perché tale ampliamento è sancito a favore di entrambe le parti ma soprattutto perché il rimedio non attinge comunque alla pienezza del riesame del merito consentito dall’appello.
- In sostanza mentre il pubblico ministero totalmente soccombente in primo grado resta privo del potere di proporre appello, detto potere viene invece conservato dall’organo dell’accusa nel caso di soccombenza solo parziale vuoi in senso qualitativo (sentenza di condanna con mutamento del titolo del reato o con esclusione di circostanza aggravanti) vuoi in senso quantitativo (sentenza di condanna a pena ritenuta non congrua).
- Pertanto, che la menomazione recata dalla disciplina impugnata ai poteri della parte pubblica, nel confronto con quelli speculari dell’imputato, eccede il limite di tollerabilità costituzionale, in quanto non sorretta da una ratio adeguata in rapporto al carattere radicale, generale e “unilaterale” della menomazione stessa: oltre a risultare - per quanto dianzi osservato - intrinsecamente contraddittoria rispetto al mantenimento del potere di appello del pubblico ministero contro le sentenze di condanna.
Ritiene questa Corte d’Appello che tali argomentazioni debbano trovare applicazione anche per quanto concerne la disposizione di cui all’art. 2 della legge 46/02 che priva il PM., totalmente soccombente in primo grado, del potere di proporre appello nel giudizio abbreviato, determinando in capo all’ organo dell’accusa di fronte ad una sentenza di primo grado pronunciata col rito abbreviato, una condizione di paralisi praticamente totale, essendo la sua possibilità di proporre appello limitata alla sola ipotesi, assolutamente marginale, di sentenza di condanna in cui sia stato modificato il titolo del reato.
Né, come ha già rilevato la Corte Costituzionale, il fatto che l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento sia sancita anche per l’imputato incide sulla citata sperequazione per cui una sola delle parti, e non l’altra, è ammessa a chiedere la revisione nel merito della sentenza a sé completamente sfavorevole.
Si tratta di una sperequazione radicale tra le parti del processo che, a giudizio di questa Corte d’Appello, supera di gran lunga i limiti della ragionevolezza non potendo trovare giustificazione neppure nelle particolari esigenze di celerità proprie del giudizio abbreviato e che sono state ritenute dalla Corte Costituzionale, in precedenti, decisioni tali da giustificare la limitazione del potere di appello del P.M. sulle sentenze di condanna pronunciate nel giudizio abbreviato.
Ragionevolezza che era stata affermata anche sotto il profilo che si trattava pur sempre di sentenze in cui, comunque, la pretesa punitiva fatta valere dall’organo dell’accusa aveva trovato soddisfazione.
Nel caso che qui interessa, invece, le pur legittime esigenze di celerità proprie del giudizio abbreviato non possono assumere una rilevanza talmente preponderante da giustificare l’eliminazione generalizzata ed unilaterale dell’appellabilità da parte del PM di tutte le sentenze di proscioglimento, eliminazione che comporta per tale organo l’impossibilità di adempiere, in una fase fondamentale del processo, alla sua funzione istituzionale dell’esercizio di un potere a tutela degli interessi collettivi, alla quale è pacificamente riconosciuta rilevanza costituzionale.
Nella sostanza si deve ritenere che anche nel giudizio abbreviato la menomazione recata dalla disciplina impugnata ai poteri della parte pubblica, nel confronto con quelli speculari dell’imputato, ecceda il limite di tollerabilità costituzionale, in quanto non sorretta da una ratio adeguata in rapporto al carattere radicale, generale e “unilaterale” della menomazione stessa e che,conseguentemente, la norma si ponga in contrasto con gli artt. 3 e 111 della Costituzione.
La rilevanza della questione nel presente processo è di tutta evidenza posto che dal suo accoglimento dipende l’ammissibilità dell’appello proposto dal P.G. e, quindi, la possibilità per questa Corte di celebrare il giudizio di appello.
Alla questione come sopra sollevata risulta legata quella dell’illegittimità costituzionale della norma transitoria di cui all’art. 10 della legge che la Corte Costituzionale con la sentenza sopra ricordata ha già riconosciuto” nella parte in cui prevede che l’appello proposto contro una sentenza di proscioglimento dal pubblico ministero prima della data di entrata in vigore della medesima legge è dichiarata inammissibile “.
Ora poiché tale illegittimità è stata dichiarata come conseguenza di quella dell’art. 1 ritiene questa Corte d’ Appello che la pronuncia debba essere intesa come riferentesi esclusivamente agli appelli disciplinati da tale norma con la conseguenza che la norma transitoria sarebbe tuttora valida per quanto concerne gli appelli indicati nell’art. 2 della legge.
E’ poiché l’illegittimità costituzionale della norma transitoria costituisce diretta conseguenza di quella del citato art. 2 la questione deve essere sollevata. (omissis)

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