La rassegna di dottrina e giurisprudenza del Corso nazionale di formazione specialistica dell'avvocato penalista organizzato dall'Unione delle Camere penali italiane in collaborazione con il Centro per la formazione e l'aggiornamento professionale degli avvocati del Consiglio Nazionale Forense.

28 settembre 2007

Cassazione penale Sentenza, Sez. VI, 14/09/2007, n. 34878:Concorso di persone nel reato, confisca e sequestro preventivo

Cassazione penale Sentenza, Sez. VI, 14/09/2007, n. 34878

Concorso di persone nel reato, confisca e sequestro preventivo

"In caso di pluralità di indagati quali concorrenti in un medesimo reato compreso tra quelli per i quali può disporsi la confisca "per equivalente" di beni corrispondenti al prezzo o al profitto del reato, il sequestro preventivo funzionale alla futura adozione della confisca non può eccedere, per ciascuno dei concorrenti, la misura del prezzo o del profitto a lui attribuibile." Da Leggi d'Italia, Quotidiano giuridico.

Svolgimento del processo

1. P.S. ricorre per cassazione avverso la ordinanza in data 27.4.2007 del Tribunale di Genova che ha rigettato la richiesta di riesame presentata contro il decreto di sequestro preventivo emesso dal GIP presso il Tribunale di Genova il 6.3.2007 per l'importo di Euro 110.329,16 in funzione della potenziale confisca ex art. 322 ter c.p. relativamente alla imputazione di corruzione continuata, in concorso, in atti giudiziari ex art. 81 cpv c.p., artt. 110, 319, 319 ter, 321 c.p..

2. Il provvedimento impugnato dinanzi a questa Corte è stato emesso nell'ambito del procedimento nei confronti di P.S., F.L., F.G. e L.R. per l'ipotesi del reato di corruzione in atti giudiziali perchè il P., giudice delegato al concordato preventivo Sky Hotels Srl, agendo in concorso con la propria convivente F.L., accettava da F.G. - che si avvaleva della collaborazione di L.R. - la promessa di affidare alla F.L. incarichi poi effettivamente a lei affidati, con conseguenti relativi compensi, a fronte del compimento di atti contrari ai suoi doveri di ufficio finalizzati a favorire il F.G..

3. Con il primo motivo di ricorso si deduce la mancanza di motivazione in ordine alla sussistenza del fumus commissi delicti.

Rilevato che l'atto contrario ai doveri di ufficio, oggetto del dolo specifico della corruzione sarebbe ravvisabile secondo il GUP nell'aggiudicazione dei beni del concordato Sky hotels srl ad un prezzo largamente inferiore al valore di mercato e, meglio ancora, nella fissazione di una vendita senza incanto dell'Hotel Sheraton ad un prezzo base largamente inferiore a quello risultante dalla perizia L., la difesa del P. sostiene che l'affermazione non trova riscontro negli atti di indagine e nel capo di imputazione, dal momento che il valore di L. 21.172.228.380, estrapolato dalla valutazione estimativa dell'ing. L., si riferisce all'intero patrimonio della Sky Hotels srl e non al solo Hotel Sheraton. Sotto altro profilo si ricorda che nel capo di imputazione si individua come altro polo di disvalore il provvedimento di concessione da parte della procedura fallimentare di un tasso di sconto per l'estinzione anticipata del debito della società aggiudicataria del bene immobile superiore al dovuto, con conseguente ingiustificato risparmio di spesa che risulta adottato da altro magistrato, il dott. R..

Al riguardo la difesa osserva che il Tribunale ha errato nel ritenere un post factum ininfluente e meramente formale la firme del provvedimento da parte del dott. R. (ritenendo che la condotta del reato fosse ravvisabile nelle pressioni esercitate dal P. affichè "passasse" la scelta di un tasso di sconto consono agli interessi del F.G.).

Aggiunge poi che, in un siffatto contesto, si è verificata la contestazione di una corruzione in atti giudiziali nonostante la mancanza di un intraneus la cui induzione in errore non è nemmeno ipotizzata in contestazione.

4. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta la violazione di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) (mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione) e comunque erronea o falsa applicazione dell'art. 319 ter c.p.p. in relazione alla individuazione del tempus commissi delicti.

Dopo aver riportato il ragionamento svolto nella ordinanza sul momento consumativo del reato di corruzione ( momento rilevante ai fini che interessano in quanto l'operatività della speciale forma di sequestro per equivalente prevista dall'art. 321 c.p., comma 2 bis, è ancorata alla commissione del fatto dopo il (OMISSIS)) la difesa osserva che le argomentazioni svolte dal Tribunale costituiscono una patente deroga ai principi generali e sottolinea l'esistenza di una alternativa bloccata: o si valorizza il momento della promessa ed allora la confisca dei valori ex art. 322 ter c.p. è fuori gioco perchè la gran parte dei delitti prezzolati è antecedente al (OMISSIS) o si ritiene rilevante l'approfondimento dell'offesa tipica (e con esso il momento della dazione) e vi saranno tanto fatti corruttivi quante siano state le dazioni, con la conseguenza che la confisca per equivalente sarà limitata al tantundem delle dazioni successive al (OMISSIS).

5. Nel terzo motivo di ricorso ci si duole della violazione dell'art. 322 ter c.p., art. 321 c.p.p. in relazione all'art. 321 c.p. con riferimento al quantum da sottoporre a sequestro.

La tesi del Tribunale secondo cui è possibile sequestrare (anche se non confiscare) a ciascun concorrente nel reato somme corrispondenti all'intero importo del prezzo del reato ha l'effetto di conferire al sequestro preventivo uno spiccato carattere punitivo consentendo il sequestro di somme di gran lunga maggiori di quelle che potranno poi essere confiscate ed ignora che, in caso di pluralità di concorrenti, è possibile il prelievo dell'intero in capo ad uno qualsiasi dei concorrenti salvo il regresso nei confronti degli altri.

In sostanza anche nella fase del sequestro esiste il limite invalicabile del quantum confiscabile.

Le finalità preventive del sequestro in questione possono comunque essere assicurate attraverso il prelievo dell'intero in capo ad uno qualsiasi dei concorrenti mentre, in caso di pluralità di concorrenti, occorre distinguere tra il caso in cui il giudizio sia unitario e relativo ai concorrenti necessari (che non pone problemi atteso che la sentenza avrà lo stesso tenore, assolutorio o di condanna, per i concorrenti ) ed il caso di concorrenti ex art. 110 c.p. e di procedimenti separati nel quale è astrattamente ipotizzabile una diversa definizione dei relativi giudizi ( caso nel quale l'autorità giudiziaria potrà attingere dal patrimonio dei residui coimputati connessi o correi in modo da contemperare le finalità preventive della misura cautelare reale ed il diritto di proprietà dell'indagato o imputato).

Su questa base si chiede l'annullamento del provvedimento impugnato.

Motivi della decisione

1. In ordine al primo motivo di ricorso il collegio ricorda in premessa che l'ordinanza impugnata è stata emessa ai sensi dell'art. 324 c.p.p. e che pertanto contro di essa può essere proposto ricorso per cassazione solo per violazione di legge.

Sulla base della chiara lettera della legge processuale (art. 325 c.p.p., comma 1) le Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza n. 5876 del 28.1.2004 hanno poi affermato che in tema di riesame delle misure cautelari reali, nella nozione di "violazione di legge" rientrano la mancanza assoluta di motivazione o la presenza di motivazione meramente apparente, in quanto correlate all'inosservanza di precise norme processuali, ma non l'illogicità manifesta, la quale può denunciarsi nel giudizio di legittimità soltanto tramite lo specifico e autonomo motivo di ricorso di cui all'art. 606 c.p.p., lett. e).

Consapevole di questo limite, la difesa di P.S. sostiene che l'ordinanza impugnata è priva di motivazione in ordine alla sussistenza del fumus commissi delicti.

La doglianza non coglie nel segno perchè il Tribunale, con motivazione effettiva, che appare peraltro esente da vizi logici e da interne contraddizioni, ha rappresentato la sussistenza - alla luce delle complessive prospettazioni del pubblico ministero - dell'esercizio da parte del giudice P. nella gestione della procedura di concordato preventivo di un potere discrezionale non libero ma orientato dagli accordi corruttivi, mettendo in evidenza la coincidenza più che sospetta tra l'offerta formulata nell'interesse del F.G. ed il prezzo base fissato per lo svolgimento dell'asta, l'indifferenza del P. per le conclusioni del perito U. in ordine al maggior valore dei beni della procedura, nonchè le pressioni esercitate sul liquidatore giudiziale C. per indurlo ad accettare una proposta di estinzione anticipata del debito della srl Aurora favorevole a quest'ultima e non agli interessi della procedura stessa.

A fronte di siffatta "effettiva" motivazione - che ha dimostrato la configurabilità in astratto del reato di corruzione in atti giudiziali - il tentativo della difesa del P. di instaurare una sorta di anticipato giudizio sul merito (cioè sulla regolarità e correttezza sostanziale della procedura di aggiudicazione) incontra un duplice limite: quello derivante dalla proponibilità del ricorso per cassazione avverso il provvedimento impugnato solo per il vizio di violazione di legge e quello proprio di un controllo destinato a restare circoscritto alla astratta configurabilità del reato ipotizzato dall'accusa.

Ne consegue che le censure svolte nel primo motivo di ricorso sono da ritenere inammissibili in ragione del loro carattere di censure in fatto o di rilievi sulla tenuta logica della motivazione che non possono trovare ingresso in questa sede.

Il ragionamento sin qui svolto vale inoltre a far ritenere inammissibili anche i rilievi svolti sulla firma da parte di un altro giudice e non da parte del P., in quel momento in ferie, della autorizzazione del versamento anticipato del prezzo di acquisto, atteso che nella articolata impostazione accusatoria la procedura in questione risulta interamente governata ed influenzata dal P., a nulla rilevando la firma dell'atto finale da parte di un altro magistrato che lo ha sostituito per un singolo adempimento.

Il motivo di ricorso è perciò da considerare inammissibile.

2. E' poi da ritenere infondato il secondo motivo di ricorso imperniato sulla tesi della erronea o falsa applicazione dell'art. 319 ter c.p.p. in relazione alla individuazione del tempus commissi delicti.

Questa Corte ha più volte avuto modo di chiarire che il delitto di corruzione si configura come reato a duplice schema, principale e sussidiario. Secondo quello principale il reato viene commesso con due essenziali attività, strettamente legate fra loro e l'una funzionale all'altra: l'accettazione della promessa ed il ricevimento dell'utilità con il quale finisce per coincidere il momento consumativo, versandosi in un'ipotesi assimilabile a quella del reato progressivo. Secondo lo schema sussidiario, che si realizza quando la promessa non viene mantenuta, il reato si perfeziona con la sola accettazione della promessa (in questi termini, Cass. 6^, n. 5312 del 7.2.1996; vedi anche sulla stessa linea di pensiero Cass, 6^, n. 4300 del 19.3.1997; cfr., anche Cass. 6^, n. 2894 del 5.2.1998 secondo cui il reato di corruzione si consuma nel momento in cui viene raggiunto l'accordo, ma quando a questo segua la dazione effettiva del denaro e dell'utilità, il momento consumativo si sposta in avanti per coincidere con la dazione medesima). Sulla base di questo indirizzo interpretativo, il momento consumativo del reato ipotizzato a carico del P. e della F.L. deve essere individuato nel momento di percezione degli ultimi compensi, che nell'ordinanza impugnata viene collocato nell'anno 2003.

Ne deriva che è priva di fondamento la premessa posta a base del motivo di ricorso in esame e che perde di validità la conclusione che da quella premessa si pretendeva di trarre e cioè che al reato di corruzione ipotizzato non sarebbe applicabile la confisca per equivalente introdotta dalla L. n. 300 del 2000. 3. Del pari infondata è la doglianza svolta nel terzo motivo di ricorso con riferimento al quantum da sottoporre a sequestro.

Al riguardo il collegio ritiene di dover ribadire in premessa l'orientamento secondo cui, in caso di pluralità di indagati quali concorrenti in un medesimo reato compreso tra quelli per i quali, ai sensi dell'art. 322 ter c.p., può disporsi la confisca "per equivalente" di beni corrispondenti al prezzo o al profitto del reato, il sequestro preventivo funzionale alla futura adozione della confisca non può eccedere per ciascuno dei concorrenti la misura della quota di prezzo o profitto a lui attribuibile (Cass., 6^, n. 25877 del 23.6.2006).

E'evidente però che nei casi in cui - in ragione dei rapporti personali od economici esistenti tra i concorrenti o della natura della fattispecie concreta - la quota di prezzo (o di profitto) attribuibile a ciascun concorrente non sia immediatamente individuata o individuabile a priori ma sia destinata ad essere accertata solo in fase di giudizio, le regole applicabili alla confisca ed al sequestro preventivo possono divergere.

Da un lato, infatti, la confisca per equivalente, adottata all'esito del giudizio e dell'accertamento delle responsabilità, dovrà comunque riguardare la quota di prezzo (o di profitto) effettivamente attribuibile al singolo concorrente o, nell'impossibilità di una esatta quantificazione, essere applicata per l'intero prezzo (o profitto) ma nel rispetto dei canoni della solidarietà interna tra i concorrenti (e cioè senza moltiplicare l'importo per il numero dei concorrenti). Dall'altro lato, anche il sequestro preventivo funzionale alla futura adozione della confisca potrà e dovrà essere circoscritto alla quota di prezzo (o di profitto) attribuibile al singolo concorrente qualora nella impostazione accusatoria tale quota sia già individuata o risulti chiaramente individuabile.

Solo laddove ciò non sia possibile (lo si ripete: in ragione dei rapporti personali od economici esistenti tra i concorrenti o della natura della fattispecie concreta) il sequestro preventivo proprio per restare "funzionale" alla futura confisca potrà essere adottato per l'intero importo del prezzo (o del profitto) nei confronti di ciascuno dei concorrenti in ragione del fatto che non risultano prevedibili nè la capienza economica dei diversi coimputati nè l'esito assolutorio o di condanna del giudizio nei loro confronti.

Nel caso in esame si versa appunto in quest'ultima ipotesi.

I rapporti personali di convivenza tra i concorrenti P. e F.L.; la individuazione della F.L. "come una sorta di adiecta solutionis causa" individuata dal pubblico ufficiale come destinataria delle utilità pattuite con l'asserito corruttore; le singolari modalità della corresponsione dei cospicui pagamenti in parte effettuati, in tesi accusatoria, per mano del coindagato L.R. ed in favore del P. che avrebbe poi girato il danaro alla F.L. sono altrettanti elementi che attestano l'impossibilità di individuare a priori la quota del prezzo della ipotizzata corruzione in atti giudiziari attribuibile a ciascuno di loro e giustificano l'adozione di provvedimenti di sequestro per l'intero importo del prezzo nei confronti di ciascuno di essi in vista della eventuale futura confisca del prezzo, destinata ad avvenire o in termini differenziati tra i concorrenti o in solido (e quindi senza duplicazione dell'importo da confiscare).

E' quindi corretta l'impostazione seguita nell'ordinanza impugnata che - dopo aver distinto il regime della confisca per equivalente e quello del sequestro preventivo ad essa finalizzata - ha giustificato il sequestro del prezzo della corruzione tanto nei confronti del P. quanto nei confronti della F.L..

4. Il ricorso va pertanto respinto ed il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 11 luglio 2007.

Depositato in Cancelleria il 14 settembre 2007

24 settembre 2007

Cassazione, sez. IV, 24 luglio 2007, n. 30001: Udienza preliminare e sentenza di non luogo a procedere.








Il giudice dell'udienza preliminare ha il potere di pronunziare la sentenza di non luogo a procedere non quando effettui un giudizio prognostico in esito al quale pervenga ad una valutazione di innocenza dell'imputato ma in tutti quei casi nei quali non esista una prevedibile possibilità che il dibattimento possa invece pervenire ad una diversa soluzione.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE IV PENALE

Sentenza, 24 luglio 2007, n. 30001

1) Il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Torre Annunziata, con sentenza in data 26 settembre 2006, ha dichiarato non luogo a procedere nei confronti di T.D. in ordine al delitto di omicidio colposo in danno di P. P. deceduto in (OMISSIS) a seguito di un incidente stradale.

Il giudice di merito ha ricostruito l'incidente pervenendo alla conclusione che l'imputato, un cittadino albanese che si trovava alla guida di un autoarticolato, fosse esente da responsabilità in merito al verificarsi dell'incidente. Secondo la sentenza impugnata il veicolo condotto dall'imputato si era violentemente scontrato con l'autovettura condotta da P. perchè questi, per cause non conosciute, aveva perso il controllo del veicolo ed aveva invaso la corsia opposta percorsa da T. provocando un urto dalle gravissime conseguenze.

Nella vicenda si erano inserite poi iniziative "anomale" perchè T. - dopo avere inizialmente riferito alla polizia giudiziaria che egli si trovava alla guida dell'autoarticolato al momento dell'incidente e che ne aveva perso il controllo a seguito dell'urto con un oggetto di grosse dimensioni finito contro il parabrezza - aveva poi cambiato versione sostenendo che alla guida del veicolo si trovava un suo connazionale (A.K.) che aveva confermato questa versione.

Il Giudice non ha ritenuto credibile questa seconda versione e l'ha ricollegata alla circostanza che mentre A. aveva all'epoca il permesso di soggiorno T. ne era privo. E ha ritenuto che la ricostruzione dell'incidente fosse quella già in precedenza sintetizzata perchè confermata dalla presenza di tracce di frenatura dell'autoarticolato che si trovavano all'interno della corsia da questo mezzo percorsa.

2) Contro questa sentenza hanno proposto ricorso sia le parti civili (L.L., P.S., P.F., PA. F. e P.G.) che il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d'Appello di Napoli.

Le parti civili, con il primo motivo di ricorso, denunziano la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione perchè la sentenza impugnata avrebbe affermato in maniera apodittica che il violento urto era avvenuto nella corsia percorsa dall'autocarro; le fotografie scattate dalla polizia stradale dimostrerebbero invece che l'incidente si è verificato proprio secondo la primitiva ricostruzione di T. perchè le tracce lasciate sull'asfalto provano che il veicolo che le ha lasciate stava deviando verso sinistra e quindi verso la corsia dell'opposto senso di marcia. Il giudice sarebbe dunque incorso in un palese travisamento del fatto, vizio che i ricorrenti affermano essere deducibile in sede di legittimità.

Parimenti illogica e contraddittoria sarebbe l'affermazione del giudice di merito secondo cui la presenza di entrambi veicoli - dopo che avevano assunto la posizione di quiete - nella corsia percorsa dall'autovettura sarebbe giustificata da un effetto di "trascinamento" perchè questa ricostruzione si pone in contrasto con la totale assenza di segni di scarrocciamento o altro sul manto stradale. Quanto alla velocità (non potuta accertare con precisione per la "sparizione" del disco registratore) non poteva certamente essere moderata e rispettosa dei limiti tenuto conto delle devastanti conseguenze dell'incidente.

Con il secondo motivo di ricorso si deducono il vizio di motivazione e quello di violazione di legge perchè il pubblico ministero - la cui richiesta di archiviazione era stata respinta dal Gip - avrebbe omesso di compiere uno degli atti che il giudice aveva indicato, il confronto tra T. e A., peraltro inammissibilmente assistiti, nell'interrogatorio, dallo stesso difensore e senza che il giudice dell'udienza preliminare ritenesse di ovviare a questa lacuna istruttoria.

3) Il Procuratore generale, con il ricorso da lui proposto, deduce anzitutto il vizio di mancanza di motivazione perchè la sentenza impugnata avrebbe fondato la sua ricostruzione sulla presenza dei solchi nella sede stradale senza spiegare le ragioni idonee a confermare che questi solchi erano riconducibili al sinistro in esame, quale ne fosse stata la causa e senza accertare il punto di impatto tra i due veicoli.

Con il secondo motivo si deduce la manifesta illogicità della motivazione perchè la sentenza impugnata avrebbe ritenuto per una parte attendibili le prime dichiarazioni dell'imputato (sulla circostanza che egli si trovava alla guida) per poi ritenere inattendibili le medesime sulle modalità dell'incidente.

Infine, con il terzo motivo di ricorso, si deduce la mancata assunzione di una prova decisiva (una "consulenza tecnica") che avrebbe consentito una ricostruzione più attendibile dell'incidente e di accertare la riferibilità al medesimo delle tracce sull'asfalto, il punto d'urto e la velocità dell'autoarticolato.

4) Prima di affrontare le ragioni poste a fondamento delle impugnazione proposte è necessario svolgere alcune considerazioni sulla natura e sull'inquadramento sistematico della sentenza di non luogo a procedere pronunziata all'esito dell'udienza preliminare.

E' nota l'evoluzione legislativa verificatasi su questo tema negli anni successivi all'approvazione del nuovo codice di procedura penale.

L'udienza preliminare nasce con funzione di filtro per evitare i dibattimenti inutili ma le maglie di questo filtro erano talmente larghe che in realtà nella versione originaria del codice - con la previsione che la sentenza di non luogo a procedere doveva essere pronunziata "quando risulta evidente che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso" ecc. - questa funzione non poteva essere convenientemente svolta; con la singolare anomalia che la sentenza di n.l.p. doveva ritenersi preclusa quando era invece ammessa l'archiviazione. Insomma questa sentenza era consentita solo quando evidente era l'innocenza dell'imputato.

La situazione cambia con l'approvazione della L. 8 aprile 1993, n. 105 il cui art. 1 elimina l'aggettivo "evidente" con ciò introducendo una diversa regola di giudizio che rende maggiormente efficace la funzione di filtro che, dopo la modifica, non rimane ancorata a quel vincolo così rigido consentendo la conclusione in questione dell'udienza preliminare anche nel caso in cui non esista quell'evidenza dell'innocenza richiesta dalla precedente normativa.

Pur in un profondo mutamento della struttura e della disciplina dell'udienza preliminare (soprattutto con l'ampliamento dei poteri istruttori del giudice: si veda in particolare la modifica dell'art. 422) la L. 16 dicembre 1999, n. 479, all'art. 23 comma 1, che modifica l'art. 425 c.p.p. , non muta sostanzialmente la regola di giudizio finale dell'udienza preliminare; la sentenza di non luogo a procedere deve essere pronunziata, in buona sostanza, in presenza dei medesimi presupposti previsti dopo l'entrata in vigore della L. n. 105 del 1993 . 5) All'esito di queste profonde modificazioni non può peraltro ritenersi - pur essendo mutata la regola di giudizio - che l'udienza preliminare abbia subito una modifica della sua originaria natura che era e resta (prevalentemente) di natura processuale e non di merito.

E' vero che le modifiche riassuntivamente riportate hanno conferito all'udienza preliminare aspetti più significativi relativi al merito dell'azione penale - in particolare per l'ampliamento dei poteri officiosi relativi alla prova (il vecchio testo della rubrica dell'art. 422 c.p.p. parlava di sommarie informazioni; adesso di integrazione probatoria) - ma è altrettanto vero che identico è rimasto lo scopo cui l'udienza preliminare è preordinata: evitare i dibattimenti inutili, non accertare se l'imputato è colpevole o innocente.

Non è ovviamente irrilevante se, all'udienza preliminare, emergono prove che, in dibattimento, potrebbero ragionevolmente condurre all'assoluzione dell'imputato ma il proscioglimento deve essere, dal giudice dell'udienza preliminare, pronunziato solo se ed in quanto questa situazione di innocenza sia ritenuta non superabile in dibattimento dall'acquisizione di nuove prove o da una diversa e possibile rivalutazione degli elementi di prova già acquisiti.

Insomma il quadro probatorio e valutativo delineatosi all'udienza preliminare deve essere ragionevolmente ritenuto immutabile: in questo senso va intesa la qualificazione della sentenza di n.l.p. come sentenza di natura processuale.

Il giudice dell'udienza preliminare dunque ha il potere di pronunziare la sentenza di non luogo a procedere non quando effettui un giudizio prognostico in esito al quale pervenga ad una valutazione di innocenza dell'imputato ma in tutti quei casi nei quali non esista una prevedibile possibilità che il dibattimento possa invece pervenire ad una diversa soluzione.

Non contrasta con questa ricostruzione il tenore del nuovo terzo comma dell'art. 425 c.p.p. che prevede la pronunzia della sentenza di n.l.p. "anche quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contradditori o comunque non idonei a sostenere l'accusa in giudizio". La norma - che riecheggia la regola di giudizio prevista dall'art. 530 c.p.p. - conferma infatti quanto si è in precedenza espresso: il parametro non è l'innocenza ma l'impossibilità di sostenere l'accusa in giudizio. L'insufficienza e la contraddittorietà degli elementi devono quindi avere caratteristiche tali da non poter essere ragionevolmente considerate superabili nel giudizio. Insomma la situazione non deve poter essere considerata suscettibile di chiarimenti o sviluppi nel giudizio.

Questo giudizio prognostico vale sia per l'ipotesi dell'insufficienza che per quella della contraddittorietà: queste caratteristiche legittimeranno la pronunzia della sentenza di n.l.p. solo se appariranno non superabili nel giudizio.

In conclusione, a meno che ci si trovi in presenza di elementi palesemente insufficienti per sostenere l'accusa in giudizio per l'esistenza di prove positive di innocenza o per la manifesta inconsistenza di quelle di colpevolezza, la sentenza di non luogo a procedere non è consentita quando l'insufficienza o contraddittorietà degli elementi acquisiti siano superabili in dibattimento. Come è stato affermato in dottrina "sfuggono all'epilogo risolutivo i casi nei quali, pur rilevando incertezze, la parziale consistenza del panorama d'accusa è suscettibile di essere migliorata al dibattimento".

Quello indicato è del resto l'orientamento della giurisprudenza di legittimità che, dopo la riforma del 1999, ha ribadito i principi indicati (si vedano in questo senso Cass., sez. 6^, 16 novembre 2001 n. 42275, Acampora, rv. 221303; 6 aprile 2000 n. 1662, Pacifico, rv.

220751) del resto, in precedenza, fatti propri anche dalla Corte costituzionale (v. sentenza 15 marzo 1996 n. 71 che così si esprime su questo punto: "l'apprezzamento del merito che il giudice è chiamato a compiere all'esito della udienza preliminare non si sviluppa, infatti, secondo un canone, sia pur prognostico, di colpevolezza o di innocenza, ma si incentra sulla ben diversa prospettiva di delibare se, nel caso di specie, risulti o meno necessario dare ingresso alla successiva fase del dibattimento: la sentenza di non luogo a procedere, dunque, era e resta, anche dopo le modifiche subite dall'art. 425 c.p.p., una sentenza di tipo processuale, destinata null'altro che a paralizzare la domanda di giudizio formulata dal pubblico ministero". 6) L'esame della sentenza impugnata dimostra che il giudice di merito non si è attenuto ai principi indicati.

Il giudice dell'udienza preliminare - a fronte di diverse opzioni sia sulla identificazione del conducente che sulle modalità di verificazione del sinistro - poteva infatti ricostruire l'incidente secondo le modalità già descritte ma per poter pronunziare la sentenza di non luogo a procedere avrebbe dovuto formulare una motivata valutazione prognostica sull'impossibilità che, nel dibattimento, si pervenisse ad una diversa ricostruzione dell'incidente nella quale fosse possibile individuare una condotta colposa dell'imputato con influenza causale sul verificarsi dell'evento.

Quest'obbligo derivava in particolare dalla circostanza che l'imputato aveva in un primo momento, subito dopo l'incidente, fornito una ricostruzione del medesimo non incompatibile con la versione delle parti civili avendo riferito alla polizia stradale di aver perso il controllo dell'autoarticolato da lui condotto dopo che un oggetto di grandi dimensioni aveva colpito il parabrezza del veicolo. Mentre la ricostruzione poi accolta dalla sentenza impugnata fa riferimento a dichiarazioni rese da un terzo che non solo il giudice ritiene aver mentito sulla circostanza di essersi trovato alla guida del grosso veicolo ma che neppure è certo si trovasse a bordo del medesimo.

E' vero poi che la ricostruzione accolta dal giudice per le indagini preliminari è quella ritenuta attendibile, in un secondo tempo, dalla polizia stradale ma è altrettanto vero che questa ricostruzione è avvenuta - stando al testo della sentenza impugnata - tenendo esclusivo conto delle tracce rinvenute sull'asfalto che, al di là della censura di equivocità denunziata dalla parte civile (censura inammissibile in questa sede perchè attinente al merito del processo) sicuramente non risulta corroborata da un'indagine appropriata sulla riferibilità delle tracce di frenata al veicolo condotto dall'imputato e all'incidente di cui trattasi.

Si aggiunga che le caratteristiche di gravità e complessità dell'incidente ben avrebbero potuto far ritenere al giudice del dibattimento che fosse necessario disporre un accertamento peritaleidoneo a meglio chiarire la dinamica dell'incidente conclusosi - quanto alla posizione finale statica dei veicoli - con la presenza dell'autoarticolato condotto dall'imputato nella corsia di percorrenza dell'autovettura.

7) In questa situazione la valutazione prognostica effettuata dal giudice nella sentenza impugnata su un'asserita insufficienza delle prove acquisite a sostenere l'accusa in dibattimento appare immotivata e nella sostanza costituisce una clausola di stile che non spiega adeguatamente - pur trattandosi di soluzione plausibile - le ragioni per cui il quadro probatorio sarebbe immodificabile in dibattimento.

I ricorsi devono dunque essere accolti con l'annullamento della sentenza impugnata e il rinvio al Tribunale di Torre Annunziata per l'ulteriore corso.

P.Q.M.

la Corte Suprema di Cassazione, Sezione 4 penale, annulla la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Torre Annunziata.

Cassazione, sez. V, 29 agosto 2007, n. 33624 : esclusa la rilevanza penale del mobbing.







Se i comportamenti che integrano il mobbing non sono sussumibili in una precisa fattispecie di reato è esclusa la rilevanza penale dei medesimi.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE V PENALE

Sentenza 29 agosto 2007, n. 33624

sul ricorso presentato dalla Parte Civile I.C. e dal Pubblico Ministero di Santa Maria Capua Vetere

avverso

la sentenza di non luogo a procedere resa dal Giudice dell'Udienza preliminare presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere in data 3.11.2006 nei confronti di G.D.N. nato il ...omissis... Sentita la Relazione svolta dal Cons. Gian Giacomo Sandrelli

sentita

la Requisitoria del Procuratore Generale nella persona del Cons. Giuseppe Febbraro che ha concluso per il rigetto dei ricorsi

IN FATTO

Ricorrono avverso la sentenza di non luogo a procedere resa dal GUP presso il Tribunale di S. Maria Capua Vetere nel proc. a carico di G.D.N. sia il PM. sia la Parte Civile I.C., lamentando entrambi sia la erronea applicazione della legge penale sia la carenza di motivazione. La vicenda attiene ad una annosa querelle tra la prof. I.C., insegnante di sostegno presso l'Istituto d'arte di S.L., ed il preside della scuola, G.D.N., sfociata in contenzioso amministrativo e, di poi, penale. L'accusa dedotta nell'attualeprocedimento è di lesioni personali volontarie gravi in ragione dell'indebolimento permanente dell'organo della funzione psichica, in sostanza un comportamento riconducibile, come si esprimono le parti, nella condotta di mobbing. Il giudice ha reso sentenza liberatoria sostanzialmente ritenendo "insostenibile" la tesi (espressa da CT.) della riconducibilità alla nozione di lesione della mera alterazione del tono dell'umore attesa la natura transeunte ed assai comune e la difficoltà di individuare un atto a cui collegare eziologicamente la malattia.

IN DIRITTO

1) Sia le parti private sia il giudicante invocano, per l'attuale vicenda, la condotta di mobbing.

Con la nozione (delineatasi nella esperienza giudiziale gius/lavoristica) di mobbing si individua la fattispecie relativa ad una condotta che si protragga nel tempo con le caratteristiche della persecuzione, finalizzata all'emarginazione del lavoratore, onde configurare una vera e propria condotta persecutoria posta in essere dal preposto sul luogo di lavoro. La difficoltà di inquadrare la fattispecie in una precisa figura incriminatrice, mancando in seno al codice penale questa tipicizzazione, deriva - nel caso di specie - dalla erronea contestazione del reato da parte del P.M. Infatti, l'atto di incolpazione è assolutamente incapace di descrivere i tratti dell'azione censurata. La condotta di mobbing suppone non tanto un singolo atto lesivo, ma una mirata reiterazione di una pluralità di atteggiamenti, anche se non singolarmente connotati da rilevanza penale, convergenti sia nell'esprimere l'ostilità del soggetto attivo verso la vittima sia nell'efficace capacità di mortificare ed isolare il dipendente nell'ambiente di lavoro. Pertanto la prova della relativa responsabilità "deve essere verificata, procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi... che può essere dimostrata per la sistematicità e durata dell'azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa..." (cfr. Cass. civ., Sez. L, 6.2006, Meneghello/Unicredit Spa, CED Cass. 587359).

2) È approdo giurisprudenziale di questa Corte che la figura di reato maggiormente prossima ai connotati caratterizzanti il cd. mobbing è quella descritta dall'art. 572 c. p., commessa da persona dotata di autorità per l'esercizio di una professione: si richiama, in tal senso, per una situazione di fatto giuridicamente paragonabile - in linea astratta - alla presente Cass., sez. VI, 22.1.2001, Erba, CED Cass. 218201. Ove si accolga siffatta lettura, risulta evidente che, soltanto per l'ipotesi dell'aggravante specifica della citata disposizione, si richieda la individuazione della conseguenza patologica riconducibile agli atti illeciti.

3) Se questa è la premessa di diritto (richiamata dalle parti processuali nei loro ricorsi e dal giudice nella decisione impugnata), non è dato vedere - nella contestazione formulata dalla pubblica accusa verso il D.N. - quale azione possa ritenersi illecita e causativa della malattia della C. Non risulta - pertanto - illogica l'osservazione del giudice che lamenta la mancata individuazione degli atti lesivi, ciascuno dei quali difficilmente in grado di rapportarsi alla patologia evidenziata (malattia, a sua volta, non connotata da esiti allocabili cronologicamente - con sicurezza - quanto al suo insorgere, così da evidenziare l'autore del fatto illecito e le circostanze modali dell'azione lesiva). D'altra parte, in carenza financo di una prospettazione espressamente continuativa (la condotta è, tuttavia, contestata "sino all'aprile 2003" senza richiamo all'art. 81 cpv. c.p.), è ben ardua la ravvisabilità del rapporto di cui all'art. 40 c. p. di una singola ingiuria o di una sola propalazione diffamatoria o intimidativa (i cui contorni restano oscuri, non essendo assolutamente specificati nell'addebito di accusa). Gli stessi atti di impugnazione richiamano la pluralità di gesti ostili, senza che - peraltro - degli stessi vi sia indicazione (se non indebitamente generica) nella formale incolpazione. Non è, conseguentemente data la ravvisabilità dei parametri di frequenza e di durata nel tempo delle azioni ostili poste in essere dal soggetto attivo delle lesioni personali, onde valutare il loro complessivo carattere persecutorio e discriminatorio.

4) Trascurando quanto attiene alla già resa valutazione della prova, incompatibile con il giudizio di legittimità, le censure addotte sono infondate poiché pretendono dal GIP di considerare una "reiterazione" di condotte, non compiutamente contestata; inoltre riferita ad azioni in sé prive di potenzialità direttamente lesiva dell'integrità della vittima (come ingiurie, diffamazioni, ecc.), o prive di riscontri di esiti obiettivamente dimostrabili. Per questa ragione, non si rileva né carenza né illogicità della motivazione, attesa la radicale insufficienza della contestazione a contenere possibili sviluppi dibattimentali dell'accusa (ben avendo potuto, già in sede di udienza preliminare, il PM. procedere a più confacente contestazione) ed a sviluppare un possibile compendio probatorio ex art. 422 c.p.p., onere che grava principalmente sull'organo di accusa. I ricorsi vengono rigettati: da tanto consegue la condanna della parte civile al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna la parte Civile al pagamento delle spese del procedimento.



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20 settembre 2007

Corte di Cassazione, V Sezione, sentenza n. 32307. Misure cautelari reali e bancarotta.

Dal sito della Suprema Corte

SENTENZA N. 32307 UD.19/06/2007 - DEPOSITO DEL 08/08/2007

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MISURE CAUTELARI - REALI - BANCAROTTA - DEBITI DELLA SOCIETA’ FALLITA – PAGAMENTO CON BENI NON DEL FALLIMENTO – SEQUESTRO PREVENTIVO –ILLEGITTIMITA’

Il sequestro preventivo degli immobili in proprietà del soggetto indagato in relazione al fallimento della società calcistica s.p.a. di cui era presidente, motivato col fatto che era in corso un progetto di vendita di detti immobili per la parziale estinzione delle pendenze debitorie della società fallita, è privo di giustificazione logico–giuridica, e pertanto se ne impone l’annullamento con rinvio, perché non è illecita la condotta volta al soddisfacimento –totale o parziale- di un singolo creditore fallimentare con mezzi di pagamento provenienti da un patrimonio diverso da quello del fallito, che non comporta alcun depauperamento dell’attivo fallimentare e non reca nocumento alcuna alla massa, la quale anzi si avvale della corrispondente riduzione delle passività. (La Corte ha, a tale ultimo proposito, precisato che la liceità del pagamento dei creditori fallimentari è condizionata al fatto che il solvens non sia a sua volta titolare di un’azione di surrogazione o di regresso nei confronti del patrimonio fallimentare).
Testo Completo: Sentenza n. 32307 del 19 giugno 2007 - depositata l'8 agosto 2007

(Sezione Quinta Penale, Presidente L. R. Calabrese, Relatore P. Oldi)
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19 settembre 2007

Corte di Cassazione , VI Sezione, 23 marzo-12 luglio 2007, n. 27350. Istanza di restituzione del termine e difensore.

(Fonte: Altalex Massimario 14/2007)



SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE V PENALE

Sentenza 23 marzo – 12 luglio 2007, n. 27350

(Presidente Pizzuti – Relatore Scalera)

Osserva

M. R., cittadino albanese, ricorre tramite il suo difensore avverso l’ordinanza con cui la Corte di Appello di Torino, in data 20.2.2006, aveva dichiarato inammissibile, perché formulata da difensore sprovvisto di procura speciale, la richiesta, proposta ai sensi dell’art. 175 secondo comma c.p.p., di restituzione nei termini per impugnare la sentenza pronunciata a suo carico in sua contumacia dal Tribunale di Tortona il 10 marzo 2004.

Rilevava la corte territoriale che il decreto legge 21.2.2005 n. 17 (poi convertito con L. 22.4.2005 n. 60) aveva modificato il secondo comma dell’art. 175 c.p.p. introducendo nel testo l’espressione “a sua richiesta”, di modo che ne è risultato il dettato attuale della norma, secondo il quale «Se è stata pronunciata sentenza contumaciale o decreto di condanna, l’imputato è restituito, a sua richiesta, nel termine per proporre impugnazione od opposizione, salvo che lo stesso abbia avuto effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento o abbia volontariamente rinunciato a comparire ovvero a proporre impugnazione od opposizione. A tale fine l’autorità giudiziaria compie ogni necessaria verifica».

La Corte di Torino, premesso che il testo novellato della norma ha costituito «uno speciale diritto di attivare la procedura di restituzione in termini» attiene alla sfera soggettiva dell’imputato, aggiungeva poi che il suo esercizio sarebbe riservato esclusivamente e personalmente a lui e non anche al difensore privo di procura speciale.

Deduce il ricorrente tre motivi di impugnazione:

1) inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, attesa l’interpretazione fatta dalla corte territoriale dell’art. 175;

2) manifesta illogicità della motivazione, che non aveva considerato come il cittadino straniero giudicato in contumacia, che di regola non conosce le norme processuali italiane, non può che far ricorso ad un difensore, affidandogli senza altra formalità all’infuori di una nomina fiduciaria, l’esercizio di ogni facoltà processuale;

3) manifesta erroneità della declaratoria di inammissibilità, indifferente al favore che la legge a suo avviso accorda alla parte ricorrente, che invoca il beneficio sostanziale di poter impugnare una sentenza di cui non aveva avuto notizia.

Il ricorso è fondato.

Infatti l’ordinanza impugnata incorre in contraddizione, quando per un verso correttamente riconosce che il secondo comma dell’art. 175 c.p.p., come novellato, delinea ipotesi autonoma rispetto a quella prevista dal primo comma, ed è intesa a porre riparo a tutti i casi di mancata effettiva conoscenza – salve le ipotesi di dolo – da parte dell’imputato, della sentenza pronunciata in sua contumacia, costituendo così il diritto dell’imputato condannato in contumacia a conseguire la restituzione nei termini per impugnare (Cass. Sez. I 7.12.06 n. 41711; Sez. V 13.4.05 n. 19363; Sez. V 10.5.06 n. 2031), diritto fondato su una presunzione di non conoscenza della sentenza, che può essere vinta dall’Autorità Giudiziaria, cui è stato posto l’onere di compiere “ogni necessaria verifica” (Cass. Sez. I 12.7.06 n. 32678); per l’altro frappone all’effettività della tutela ostacoli di carattere formale, desunti da inadeguata interpretazione della norma, che rendono arduo o quanto meno poco agevole l’esercizio del diritto giungendo a dichiarare l’inammissibilità della richiesta, senza delibarne il merito.

È necessario allora verificare se l’interpretazione del secondo comma dell’art. 175 c.p.p. proposta dalla corte di Torino può essere condivisa.

Così non è.

Infatti il solo inserimento nel testo della norma dell’espressione “a sua richiesta” non è sufficiente ad imporre l’implicazione che la corte territoriale ha tratto, innanzitutto per la considerazione che la suddetta espressione testuale non costituisce una novità rispetto al testo previgente, che a sua volta prevedeva che la restituzione nel termine per proporre impugnazione potesse essere chiesta anche dall’imputato «che provi di non aver avuto effettiva conoscenza...»; è evidente che laddove la norma prevedeva che la restituzione in termini poteva essere chiesta dall’imputato, esprimeva esattamente lo stesso concetto che esprime il nuovo testo, che parla invece di “a sua (dell’imputato cioè) richiesta”.

Va poi considerato che il nuovo dettato della norma del postulare, come il vecchio testo, che la remissione in termini debba essere espressamente richiesta dall’imputato, intende solo chiarire che non si può ritenere implicitamente avanzata la richiesta di remissione in termini con la mera proposizione di una impugnazione tardiva.

Pertanto già dall’espressione testuale “a sua richiesta” non si può trarre la prescrizione dell’obbligo per l’imputato di proporre l’istanza personalmente o tramite procuratore speciale, opinandosi così che il mero difensore non sarebbe legittimato.

Deve peraltro aggiungersi che tutte le volte in cui delle attività processuali debbano essere poste in essere direttamente dall’interessato o da un procuratore speciale, la norma processuale ciò prescrive espressamente, come può rilevarsi dal dettato degli artt. 46, 76, 82, 84, 85, 122, 141, 333, 336, 419 co. 5°, 446, 571 co. 1° (ma si veda anche il comma 3°), 589 co. 2° 633, 645 etc..

Infine, dal combinato disposto degli artt. 96 e 99 c.p.p. si evince che la nomina del difensore di fiducia non è soggetta a forme vincolate e che al predetto competono le facoltà ed i diritti che la legge riconosce all’imputato, «a meno che essi siano riservati personalmente a quest’ultimo» (art. 99/1 c.p.p.).

Deve allora concludersi che la regola generale del sistema prevede che le facoltà ed i diritti riconosciuti all’imputato possono essere esercitate dal difensore di fiducia, salvo che il loro esercizio non sia specificamente ed espressamente riservato all’imputato.

Del resto il secondo comma dell’art. 999 c.p.p. contiene la norma di chiusura del sistema, prevedendo che l’imputato possa sempre togliere effetto all’atto compiuto dal difensore, prima che il giudice abbia deciso.

Può allora concludersi che il secondo comma dell’art. 175 c.p.p. non dispone che l’istanza di restituzione in termini per proporre l’impugnazione della sentenza contumaciale di condanna debba essere formulata personalmente dall’imputato, né tantomeno da suo procuratore speciale.

Deve pertanto affermarsi il principio che la richiesta di restituzione nel termine per proporre l’impugnazione, regolata dal secondo comma dell’art. 175 c.p.p., può essere effettuata dal difensore di fiducia, ancorché sprovvisto di procura speciale.

L’ordinanza impugnata deve essere quindi annullata con rinvio alla Corte di Appello di Torino, che provvederà all’esame del merito.

P.Q.M.

La Corte annulla l’ordinanza impugnata con rinvio alla Corte di Appello di Torino per nuovo esame.




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3 settembre 2007

Tribunale Ordinario di Venezia - Ufficio del giudice monocratico Penale - Ord. 8.5.2007 - Est. Trentanovi .

Tribunale Ordinario di Venezia - Ufficio del giudice monocratico Penale - Ord. 8.5.2007 - Est. Trentanovi .

Elezione di domicilio - Mancata identificazione della persona presso cui si intende eleggere domicilio - Difensore d’ufficio - Nullità relativa - Ragioni.
(Artt. 161 e 162 c.p.p. e Art.62 Disp. Att. c.p.p)

L’elezione di domicilio è istituto peculiare all’interno del nostro ordinamento giuridico che, proprio per il ruolo che ricopre, necessita del rispetto di alcune formalità. Per tal motivo, nel momento in cui tale atto viene dall’indagato e/o imputato redatto, non si può prescindere dalla previsione contenuta nell’art. 62 disp. Att. c.p.p., ovvero dall’esplicita richiesta che l’atto contenga l’indicazione delle “generalità del domiciliatario”. Ne deriva che deve ritenersi affetto da vizio di nullità l’elezione in capo ad un difensore d’ufficio non ancora nominato, in quanto non identificabile. Né vale a sanare la nullità il fatto che la persona sia successivamente identificata in quanto l’elezione di domicilio è “atto formale, a contenuto necessariamente completo e non completabile sulla base di indicazioni successive”. Di conseguenza, deve altresì correttamente ritenersi nullo il decreto di citazione a giudizio “per nullità dell’art. 415 bis c.p.p. conseguente a nullità dell’elezione di domicilio”.

L’ordinanza così motiva:
(Omissis). - Il Giudice, sentite le parti, dato atto dell’opposizione del pubblico ministero, dichiara la nullità del decreto di citazione a giudizio per nullità dell’ 415 bis conseguente a nullità dell’elezione di domicilio effettuata in modo del tutto generico ed in incertam personam a favore dell’avvocato che sarebbe stato nominato difensore d’ufficio ma ancora non era stato indicato, in violazione tra l’altro specifica oltre che dei principi circa l’elezione di domicilio atto di volontà in base al quale, e soltanto in base al quale, viene individuata la persona fisica che riceverà gli atti successivi in luogo della persona imputata o interessata, e in luogo diverso da quello della sua abitazione e comunque in deroga ad ogni corrispondenza fra la reperibilità del domicilio, dimora residenza del soggetto e il luogo ove la notifica presso la persona nominata avviene, atto formale, a contenuto necessariamente completo e non completabile sulla base di indicazioni successive, come nel caso di specie avvenuto, successivamente indicandosi il nominativo di difensore d’ufficio non precedentemente nominato, con conseguente nullità di ordine generale concernente l’intervento dell’imputato, rilevabile anche d’ufficio prima della sentenza di primo grado, tra l’altro in assoluta violazione dell’articolo 52 delle disposizioni di attuazione che specificamente prevede che nell’eleggere il domicilio a norma dell’articolo 152 del codice l’imputato è tenuto a indicare anche le generalità del domiciliatario il che evidenza come ogni altra elezione sia inidonea ad essere elezione di domicilio. (omissis)

Corte d’Appello di Venezia - Prima Sezione Penale- Ord. 22.2.07 - Pres. Est. Dodero - Questione di legittimità costituzionale .

Corte d’Appello di Venezia - Prima Sezione Penale- Ord. 22.2.07 - Pres. Est. Dodero - Imp. XY

Inappellabilità avverso le sentenze di proscioglimento pronunciate in sede di giudizio abbreviato - Questione di legittimità costituzionale - Rilevanza e non manifesta infondatezza - Ragioni.
(Art. 443 comma 1 c.p.p.; art. 2, 10 L. 46706; art. 3, 111 Cost.)

Deve dichiararsi rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 443 comma 1 c.p.p., come modificato dalla L. 46/06, nella parte in cui esclude l’appello del PM avverso le sentenze di proscioglimento pronunciate nel rito abbreviato, per contrasto con gli artt. 3, 111 Cost. Tale limitazione, infatti, determina in capo all’organo di accusa, a fronte di una sentenza di primo grado pronunciata con il rito abbreviato, una condizione di paralisi praticamente totale, essendo la sua possibilità di proporre appello limitata alla sola ipotesi, assolutamente marginale, di sentenza di condanna in cui sia stato modificato il titolo del reato. Si tratta quindi di sperequazione radicale tra le parti del processo che supera di gran lunga i limiti della ragionevolezza, non potendo trovare giustificazione neppure nelle particolari esigenze di celerità proprie del giudizio abbreviato.
Ne deriva altresì l’illegittimità costituzionale della norma transitoria di cui all’art. 10 della L. 46/06.

L’ordinanza così motiva:
(Omissis). - La norma di cui viene eccepita l’incostituzionalità è quella di all’art. 443, 1° comma codice di procedura penale quale risulta dalla modifica apportata dall’art. 2 della legge 46\06.
Nella sua originaria formulazione tale norma escludeva la possibilità per il P.M. e per l’imputato di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento nel giudizio abbreviato quando l’appello tendeva ad ottenere una formula diversa.
Con l’entrata in vigore della legge sopraindicata il regime dell’appello nel giudizio abbreviato è stato profondamente modificato, nel senso che, avendo l’art. 2 eliminato le parole “quando l’appello tende ad ottenere una diversa formula”, è esclusa la possibilità per il P.M. e l’imputato di appellare qualsiasi sentenza di proscioglimento quale che sia il contenuto del gravame.
Tale norma non è stata toccata dalla recente sentenza della Corte Costituzionale n. 26 del 2007 la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale soltanto degli artt. 1 e 10 della legge.
Ritiene, peraltro, questa Corte d’Appello che dai principi enunciati nella sentenza sopraindicata emerga la contrarietà alla Costituzione anche dell’art. 2 della legge 46\06.
Ha affermato la Corte Costituzionale:
il secondo comma dell’art. 111 Cost., inserito dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 (Inserimento dei principi del giusto processo l’articolo 111 della Costituzione) - nello stabilire che “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità” - ha conferito veste autonoma ad un principio, quello di parità delle parti, “pacificamente insito nel pregresso sistema dei valori costituzionali” (ordinanze n. 110 del 2003, n. 347 del 2002 e n. 421 del 2001).
Le diverse condizioni di operatività ed i differenti interessi di cui il P.M. e l’imputato sono portatori (il primo organo pubblico che agisce nell’esercizio in potere e a tutela di interessi collettivi, il secondo un soggetto privato che difende i propri diritti fondamentali) non impongono di ritenere che tale principio debba necessariamente tradursi in un’assoluta simmetria di poteri e facoltà in ogni fase processuale.
Alterazioni di tale simmetria - tanto nell’una che nell’altra direzione (ossia o a vantaggio della parte pubblica che di quella privata) - sono, peraltro, incompatibili con il principio di parità, ad una duplice condizione e, cioè, che per un verso, trovino un’adeguata ratio giustificatrice nel ruolo istituzionale del pubblico ministero, ovvero in esigenze di funzionale e diretta esplicazione della giustizia penale, anche in vista del completo gruppo di finalità esse pure costituzionalmente rilevanti; e, per un altro verso, risultino comunque contenute - anche in un’ottica di complessivo equilibrio dei poteri, avuto riguardo alle disparità di segno opposto riscontrabili in fasi del procedimento distinte da quelle in cui s’innesta la singola norma discriminatrice avuta di mira (si v. la sentenza n. 98 del 1994) - entro i limiti della ragionevolezza.
Tale vaglio di ragionevolezza va evidentemente condotto sulla base del rapporto comparativo fra la ratio che ispira, nel singolo caso, la norma generatrice della disparità e l’ampiezza dello “scalino” da essa creato tra le discriminazioni delle parti, mirando segnatamente a verificare l’adeguatezza della disparità e la proporzionalità dell’ampiezza di tale “scalino” rispetto a quest’ultima.
(Omissis).-
Anche la disciplina delle impugnazioni, quale capitolo della complessiva regolamentazione del processo, si colloca entro l’ambito applicativo del principio di parità delle parti.
- Conseguentemente, se pur il potere di impugnazione nel merito della sentenza di primo grado da parte del pubblico ministero presenta margini di “cedevolezza” più ampi rispetto a quelli che connotano il simmetrico potere dell’imputato, la norma di cui all’art. 1 racchiude una disimmetria radicale in quanto, a differenza dell’imputato, il pubblico ministero viene privato del potere di proporre doglianze di merito avverso la sentenza che lo veda totalmente soccombente negando integralmente la realizzazione della pretesa punitiva fatta valere con l’azione intrapresa, in rapporto a qualsiasi categoria di reati. Ed il fatto che l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento sia sancita anche per l’imputato non incide sulla citata sperequazione per cui una sola delle parti, e non l’altra, è ammessa a chiedere la revisione nel merito della sentenza a sé completamente sfavorevole.
- L’eliminazione del potere di appello del pubblico ministero non può ritenersi compensata dall’ampliamento dei motivi del ricorso per Cassazione non solo perché tale ampliamento è sancito a favore di entrambe le parti ma soprattutto perché il rimedio non attinge comunque alla pienezza del riesame del merito consentito dall’appello.
- In sostanza mentre il pubblico ministero totalmente soccombente in primo grado resta privo del potere di proporre appello, detto potere viene invece conservato dall’organo dell’accusa nel caso di soccombenza solo parziale vuoi in senso qualitativo (sentenza di condanna con mutamento del titolo del reato o con esclusione di circostanza aggravanti) vuoi in senso quantitativo (sentenza di condanna a pena ritenuta non congrua).
- Pertanto, che la menomazione recata dalla disciplina impugnata ai poteri della parte pubblica, nel confronto con quelli speculari dell’imputato, eccede il limite di tollerabilità costituzionale, in quanto non sorretta da una ratio adeguata in rapporto al carattere radicale, generale e “unilaterale” della menomazione stessa: oltre a risultare - per quanto dianzi osservato - intrinsecamente contraddittoria rispetto al mantenimento del potere di appello del pubblico ministero contro le sentenze di condanna.
Ritiene questa Corte d’Appello che tali argomentazioni debbano trovare applicazione anche per quanto concerne la disposizione di cui all’art. 2 della legge 46/02 che priva il PM., totalmente soccombente in primo grado, del potere di proporre appello nel giudizio abbreviato, determinando in capo all’ organo dell’accusa di fronte ad una sentenza di primo grado pronunciata col rito abbreviato, una condizione di paralisi praticamente totale, essendo la sua possibilità di proporre appello limitata alla sola ipotesi, assolutamente marginale, di sentenza di condanna in cui sia stato modificato il titolo del reato.
Né, come ha già rilevato la Corte Costituzionale, il fatto che l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento sia sancita anche per l’imputato incide sulla citata sperequazione per cui una sola delle parti, e non l’altra, è ammessa a chiedere la revisione nel merito della sentenza a sé completamente sfavorevole.
Si tratta di una sperequazione radicale tra le parti del processo che, a giudizio di questa Corte d’Appello, supera di gran lunga i limiti della ragionevolezza non potendo trovare giustificazione neppure nelle particolari esigenze di celerità proprie del giudizio abbreviato e che sono state ritenute dalla Corte Costituzionale, in precedenti, decisioni tali da giustificare la limitazione del potere di appello del P.M. sulle sentenze di condanna pronunciate nel giudizio abbreviato.
Ragionevolezza che era stata affermata anche sotto il profilo che si trattava pur sempre di sentenze in cui, comunque, la pretesa punitiva fatta valere dall’organo dell’accusa aveva trovato soddisfazione.
Nel caso che qui interessa, invece, le pur legittime esigenze di celerità proprie del giudizio abbreviato non possono assumere una rilevanza talmente preponderante da giustificare l’eliminazione generalizzata ed unilaterale dell’appellabilità da parte del PM di tutte le sentenze di proscioglimento, eliminazione che comporta per tale organo l’impossibilità di adempiere, in una fase fondamentale del processo, alla sua funzione istituzionale dell’esercizio di un potere a tutela degli interessi collettivi, alla quale è pacificamente riconosciuta rilevanza costituzionale.
Nella sostanza si deve ritenere che anche nel giudizio abbreviato la menomazione recata dalla disciplina impugnata ai poteri della parte pubblica, nel confronto con quelli speculari dell’imputato, ecceda il limite di tollerabilità costituzionale, in quanto non sorretta da una ratio adeguata in rapporto al carattere radicale, generale e “unilaterale” della menomazione stessa e che,conseguentemente, la norma si ponga in contrasto con gli artt. 3 e 111 della Costituzione.
La rilevanza della questione nel presente processo è di tutta evidenza posto che dal suo accoglimento dipende l’ammissibilità dell’appello proposto dal P.G. e, quindi, la possibilità per questa Corte di celebrare il giudizio di appello.
Alla questione come sopra sollevata risulta legata quella dell’illegittimità costituzionale della norma transitoria di cui all’art. 10 della legge che la Corte Costituzionale con la sentenza sopra ricordata ha già riconosciuto” nella parte in cui prevede che l’appello proposto contro una sentenza di proscioglimento dal pubblico ministero prima della data di entrata in vigore della medesima legge è dichiarata inammissibile “.
Ora poiché tale illegittimità è stata dichiarata come conseguenza di quella dell’art. 1 ritiene questa Corte d’ Appello che la pronuncia debba essere intesa come riferentesi esclusivamente agli appelli disciplinati da tale norma con la conseguenza che la norma transitoria sarebbe tuttora valida per quanto concerne gli appelli indicati nell’art. 2 della legge.
E’ poiché l’illegittimità costituzionale della norma transitoria costituisce diretta conseguenza di quella del citato art. 2 la questione deve essere sollevata. (omissis)

Appello della Parte Civile; Procura speciale; Legittimazione ad impugnare; Inammissibilità .

Corte di Assise di Appello di Venezia - Sezione Prima - Sent. 14.3.2007 - Pres. Est. Zampetti .

Appello della Parte Civile - Procura speciale - Legittimazione ad impugnare -Inammissibilità -Effetti sulla conversione del ricorso per Cassazione del Procuratore Generale - Ragioni.
(Artt. 100, 576, 580 c.p.p.)

Non può legittimamente proporre appello il difensore della parte Civile laddove tale potere non sia conferito dalla parte stessa nella procura speciale.
Ove il ricorso per Cassazione del Procuratore Generale sia stato convertito in appello in forza dell’appello della Parte Civile e quest’ultimo sia stato dichiarato inammissibile, la conversione non dovrà più operare con conseguente trasmissione degli atti alla Corte di Cassazione.

La sentenza così motiva:
(Omissis). - Nella notte tra il 22 ed il 23 settembre 1986 XY, allora 29enne, veniva ucciso, attinto da due colpi d’arma da fuoco, presumibilmente una pistola a tamburo. L’uomo era stato atteso al suo rientro a casa, una villetta in Campolongo Maggiore (VE), ed il suo cadavere veniva invero rinvenuto, il mattino successivo, riverso sui gradini esterni del giardino.
La vittima era notoriamente inserita nella malavita del piovese (articolazione della cd. “Mala del Brenta”) capeggiata dal noto XX. Le indagini si muovevano quindi in tale direzione, peraltro senza risultati apprezzabili.
Solo successivamente le amplissime collaborazioni del capo indiscusso della Mala del Brenta, XX, e quelle dell’attuale imputato YY, cugino del precedente, hanno consentito di chiarire le responsabilità su tale delitto. Ed invero è risultato in modo pacifico, per concordanza di ammissioni, che l’omicidio del XY fu eseguito da YY, su istigazione del cugino XY, mediante colpi sparati con un revolver calibro 38, in esito ad apposito agguato.
Si procedeva dunque a carico di YY (essendo stato XY giudicato a parte per questi fatti) in ordine ai reati di:
a) concorso in omicidio volontario;
b) concorso in detenzione e porto illegale di arma comune da sparo.
I prossimi congiunti della vittima si costituivano parte civile: X, madre, Y, figlio, Q e Z fratelli.
L’imputato chiedeva ed otteneva rito abbreviato.
Con sentenza 19.06.2006 il GUP del Tribunale di Venezia:
a) dichiarava estinto per prescrizione il reato in materia di armi di cui al capo b);
b) dichiarava l’anzidetto imputato colpevole del reato di omicidio volontario di cui sub A) e, in concorso di circostanze attenuanti generiche e della speciale diminuante della collaborazione, operata la riduzione per il rito prescelto, lo condannava alla pena finale di anni 5 e mesi 4 di reclusione;
c) applicava nei suoi confronti la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici;
d) condannava lo stesso imputato al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separato giudizio, in favore delle parti civili costituite, più spese di lite;
e) assegnava una provvisionale di € 8.000 - ciascuno in favore delle parti civili X e Y.
In ordine alla ritenuta responsabilità il primo giudice, premesso un quadro storico della Mala del Brenta ed un esame delle precedenti infruttuose indagini, la basava sulle conformi dichiarazioni confessorie dell’attuale imputato e del cugino XX.
Il movente era ritenuto quello, confessato, di punire il XY per essere stato costui l’autore del duplice omicidio di XXX e YYY, esecuzione avvenuta senza previa autorizzazione e così eliminando un fedelissimo di XX.
In ordine alla commisurazione sanzionatoria il Gup determinava la pena sulla base di anni 21 di reclusione, pena ridotta del massimo consentito, e quindi alla metà, ad anni 10 e mesi 6, per l’attenuante della collaborazione, quindi ridotta ancora per le generiche ad anni 8, infine abbattuta di un terzo ex art. 442 cpp, così da definirsi l’anzidetta pena finale e concreta.
Avverso l’anzidetta sentenza proponevano impugnazione il Procuratore generale e le parti civili.
Si gravavano con atto d’appello le parti civili costituite che proponevano i seguenti motivi di gravame:
a) avere ingiustamente il primo giudice omesso la liquidazione diretta dei danni, trattandosi, come richiesto, di soli danni morali;
b) avere ingiustamente il primo giudice omesso di pronunciare l’immediata esecutività per tutte le parti civili;
c) avere ingiustamente il primo giudice omesso di disporre provvisionale anche per le parti civili Q e Z;
d) avere il primo giudice disposto provvisionale per cifra ingiustamente esigua.
Si gravava con ricorso in cassazione, convertito in appello, il Procuratore Generale presso questa Corte che chiedeva annullamento della sentenza per mancanza di motivazione sia sulla determinazione della pena base che per il riconoscimento delle generiche.
Premesso che si tratta di un omicidio su commissione, eseguito senza scrupoli, inserito in ambiente malavitoso per questioni di predominio, lamenta la parte pubblica che non sia stata contestata l’evidente premeditazione (rivelata dal mandato e dall’agguato) e che in modo immotivato il primo giudice abbia indicato la pena base minima (anni 21 di reclusione) ed abbia riconosciuto attenuanti generiche senza alcuna particolare indicazione giustificativa. Chiede dunque il P.G. volersi assumere le conseguenti determinazioni.
All’odierna udienza camerale di questa Corte, assente per rinuncia l’appellato imputato, preliminarmente il difensore ed il Procuratore Generale svolgevano eccezioni di carattere processuale sulle quali erano sentite tutte le parti. La Corte quindi, giudicando insuperabile la prima questione proposta dalla difesa, prendeva la decisione nel senso di cui alla seguente motivazione.
Trattandosi di una decisione presa su base strettamente processuale. appare opportuno ricordare lo schema nel quale ci si trova: la sentenza di primo grado è stata resa in rito abbreviato; contro la stessa è stato proposto appello dalle parti civili e ricorso in cassazione, convertito in appello, dal Procuratore Generale.
Orbene, tanto premesso, all’odierna udienza sono state proposte in via preliminare le seguenti questioni:
a) dalla difesa dell’imputato:
1. inammissibilità dell’appello per difetto di procura speciale nell’appellante;
2. problematica. allo stato della legislazione (in forza della normativa cd. “Pecorella”) e della giurisprudenza (ordinanza n. 32/07 della Corte Costituzionale, attesa di decisione interpretativa delle SS. UU della Corte di Cassazione). in ordine all’appellabilità in capo alla parte civile;
b) dal Procuratore Generale:
1. non operatività della regola della conversione del proprio ricorso in appello per mancanza di elementi di connessione tra i motivi di esso e quelli dell’appello della parte civile.
E’ di tutta evidenza l’assoluta pregiudizialità di tali questioni che, ove accolte, imporrebbero soluzione impeditiva della valutazione di merito.
Orbene, il primo profilo dell’eccezione della difesa (sopra indicato sub a.1) è insuperabile.
E’ pacifico, invero, che l’impugnazione della parte civile debba essere proposta o direttamente dalla parte o da persona munita di procura speciale. Nel caso in esame l’appello è stato proposto dal difensore della parte civile senza, al momento, una specifica procura. In tale situazione occorre indagare allora se la procura iniziale, conferita dalle parti al difensore per la costituzione in giudizio, contenesse comunque il potere di proporre impugnazione. Tale indagine non può non essere fatta che alla stregua dei criteri autorevolmente indicati dalla sentenza delle SS. UU. Della Cassazione 27.10.2004 n. 44712, imp. Tizio.
Può così riscontrarsi in modo diretto quanto preciso che la formula usata nella procura conferita dai danneggiati del reato al difensore perché si costituisse parte civile nel presente processo corrisponde pienamente a quella che, esaminata nella citata sentenza, è stata giudicata non essere idonea ad essere letta quale procura speciale valida anche per la proposizione dell’impugnazione. Vi è invero investitura per la costituzione e per la rappresentanza, ma nulla che faccia riferimento a gradi successivi del giudizio. In definitiva, seguendo l’anzidetto orientamento interpretativo, pur in un quadro potenzialmente aperto, non vi sono frasi (ancorché di stile) che consentano di ritenere conferito anche il mandato di proporre impugnazione.
Un tanto, del resto, non è sfuggito alla stessa parte civile che, invero - peraltro nella sua ottica solo per maggiore garanzia -, si era fatta rilasciare espressa e specifica procura speciale che, però, non risulta versata in atti ed è stata offerta alla Corte solo all’ odierna udienza.
Tale procura speciale, della cui autenticità non è lecito dubitare (è sottoscritta per autentica dal difensore), e che dunque denuncia la volontà sostanziale delle parti di conferire al difensore il mandato ad appellare, non può però essere presa in considerazione ai fini della formale legittimazione che qui si vaglia, per essere versata in actis solo in data odierna, e risultando dunque tardiva rispetto al momento, cui solo deve farsi riferimento, della proposta impugnazione.
Va dunque dichiarata l’inammissibilità dell’appello della parte civile per difetto di legittimazione a proporlo.
Consegue, ex art. 591 e 592 cpp, che tali parti civili appellanti debbano essere condannate al pagamento delle spese processuali del presente grado di giudizio.
Ciò posto. è inevitabile ritenere che, venuta così meno la ragione della conversione del ricorso del P.G., questo debba essere rimesso alla sede sua propria, e, cioè, la Corte di Cassazione.
Ed invero la ragione della conversione, stabilita dall’art. 580 cpp, è quella della necessità di garantire il simultaneus processus (per economia processuale ed altresì per evitare possibili difformità di giudizi). Quando però la dichiarata inammissibilità dell’appello rende non più sussistente tale ragione, e di conseguenza che la conversione non debba più operare, di tal che l’impugnazione dell’altra parte riacquista la sua valenza originaria di ricorso. In tal senso cfr. Cass. Pen. Sez. 4, 13.09.1994, n. 9835, imp. QQ: “La finalità della conversione del ricorso per cassazione in appello, di cui all’art. 580 cpp. è quella di rendere possibile la trattazione in un unico contesto processuale di tutti i mezzi dì impugnazione proposti da tutte le parti contro la stessa sentenza. Ne consegue che non deve procedersi a conversione quando l’appello è inammissibile per suoi vizi originari”. E poichè il difetto di legittimazione nell’appellante deve ritenersi vizio originario, non resta che dare convinta applicazione a tale massima giurisprudenziale. (omissis)

NOTA
1. Su appello della Parte Civile, la Corte d’Assise d’Appello di Venezia era stata investita del giudizio in ordine ad un omicidio commesso nell’oramai lontano anno 1986. Nel corso del giudizio di primo grado, tenutosi avanti il G.u.p. presso il Tribunale di Venezia nelle forme del giudizio abbreviato, l’imputato era stato giudicato colpevole e condannato alla pena ritenuta di giustizia, oltre che al risarcimento del danno subito dalle parti civili costituite: per la sua esatta liquidazione le stesse erano state rimesse avanti al giudice civile, disponendosi in loro favore il riconoscimento di una provvisionale, unitamente alla liquidazione delle spese giudiziali sostenute. Avverso il capo relativo alle statuizioni civili, proponeva appello il difensore delle parti civili.
Il Procuratore Generale presso la Corte d'appello di Venezia proponeva avverso la medesima sentenza, a propria volta, ricorso per cassazione in punto pena, essendogli preclusa la possibilità di proporre appello ex art. 443, co. III c.p.p.
All’esito dell’udienza del 14.03.2007, ed a seguito delle eccezioni proposte dalla difesa dell’imputato, la Corte d’Assise d’Appello pronunciava sentenza, con la quale dichiarava inammissibile, per difetto di legittimazione, l’appello proposto dalla parte civile e, ritenendo altresì non operante la conversione del ricorso in appello di cui all'art. 580 c.p.p., disponeva la trasmissione del fascicolo alla Corte di Cassazione in relazione al ricorso proposto dal P.G. di Venezia.
2. La prima questione che appare opportuno evidenziare in relazione alla sentenza in commento, è quella concernente la legittimazione del difensore della parte civile costituita a proporre appello avverso la sentenza di I grado, e - più specificamente - l’individuazione delle forme attraverso le quali si manifesta l’effettiva attribuzione di tale potere al difensore medesimo.
Occorre anzitutto premettere come il difensore di parte civile, a differenza del difensore dell’imputato, non sia titolare di un autonomo potere di impugnazione della sentenza: l’art. 571, co. III c.p.p. prevede infatti che “può inoltre proporre impugnazione il difensore dell’imputato al momento del deposito del provvedimento ovvero il difensore, nominato a tal fine”; a fronte di ciò l’art. 576, trattando del potere di impugnazione della parte civile, parla esclusivamente di quest’ultima, e non del suo difensore. In concreto ciò sta a significare che il difensore di parte civile, per proporre appello in nome e per conto dei propri assistiti, dovrà a ciò essere espressamente legittimato da un atto che gliene conferisca il relativo potere1.
Si impone invero un breve chiarimento: la parte civile sta in giudizio col necessario patrocinio di un difensore “munito di procura speciale conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata dal difensore o da altra persona abilitata. […] La procura speciale si presume conferita soltanto per un determinato grado del processo, quando nell’atto non è espressa una volontà diversa” (art. 100, co. I e III c.p.p.). Tale procura deve intendersi come procura ad litem, ovvero come conferimento del mandato defensionale al difensore, il quale sarà perciò legittimato a stare in giudizio in nome e per conto della parte civile, potendo quindi “compiere e ricevere, nell’interesse della parte rappresentata, tutti gli atti del procedimento che dalla legge non sono alla stessa espressamente riservati. In ogni caso non può compiere atti che importino disposizione del diritto in contesa se non ne ha ricevuto espressamente il potere” (art. 100, co. IV c.p.p.). Il compimento di atti di disposizione del diritto in contesa, quali ad esempio la rinuncia all’azione, richiede pertanto uno specifico conferimento del relativo potere in capo al difensore di parte civile, ovverosia una procura ad causam, individuata dall’art. 122 c.p.p. Specifica fra l’altro questa norma che “la procura deve, a pena di inammissibilità, essere rilasciata per atto pubblico o scrittura privata autenticata […]” aggiungendo che “la sottoscrizione può essere autenticata dal difensore medesimo”. Tale distinta procura è perciò atto totalmente diverso da quello di cui all’art. 100 c.p.p.: questo infatti concerne il conferimento del mandato defensionale, il primo invece conferisce il potere di compiere in nome e per conto del rappresentato uno specifico atto a lui normalmente riservato2. La distinzione, netta nella teoria, è però nella pratica poco agevole, stante l’identità di forme (per ambedue è prevista la forma della scrittura privata autenticata, con sottoscrizione autenticabile dal medesimo difensore/procuratore ivi nominato) e la possibilità, ex art. 37 disp. att. c.p.p., di rilasciare la procura ex art. 122 c.p.p. anche preventivamente: è perciò usuale la prassi di conferire indistintamente nel medesimo atto sia la procura ex art. 100 c.p.p. - con ciò nominando il proprio difensore di parte civile - sia la procura ex art. 122 c.p.p. - conferendo così al suddetto difensore il potere di compiere specifici atti, quale, tipicamente, la costituzione di parte civile ex art. 76 c.p.p.
Nel caso di specie, l’impugnazione avverso la sentenza di I grado era stata proposta dal Difensore della Parte Civile: si imponeva pertanto una verifica in ordine alla legittimazione di quest’ultimo al compimento di tale atto, ovverosia si trattava di ricercare una valida ed idonea procura ex art. 122 c.p.p., rilasciata in suo favore dalla Parte Civile (la quale sola ha, ex art. 576 c.p.p., il potere di proporre impugnazione). In atti era presente unicamente un “Atto di nomina a difensore e contestuale conferimento di procura speciale”, rilasciato in calce all’atto di costituzione di parte civile in I grado, il cui tenore letterale di seguito si riporta (grassetti originali): “La sottoscritta …, nata a…, il giorno …, residente in … via…, nomina l’avvocato …, del Foro di …, ivi con studio in via… , proprio difensore di fiducia, quale costituenda parte civile, nel procedimento penale n. … R.G.N.R….a carico di…, conferendo al medesimo avvocato procura speciale sia al fine di costituirsi parte civile nel sopraindicato procedimento penale, sia ai sensi e per gli effetti dell’art. 100, commi 1 e 2 c.p.p., conferendogli ogni facoltà di legge, comprese espressamente quelle di conciliare, transigere e farsi sostituire, nonché fare ed accettare la rinuncia agli atti ed all’azione, accettare pagamenti, quietanzare, eleggere domicilio e nominare procuratori, domiciliatari e sostituti. In …, il giorno… (seguono sottoscrizione della parte e, per autentica, del difensore)”.
Nella pratica, si è posto al giudice d’appello il problema di verificare se tale atto contenesse valida procura ex art. 122 c.p.p, idonea a legittimare il difensore di parte civile a proporre appello.
3. Ebbene, sul punto le Sezioni Unite della Suprema Corte, con pronuncia del 27 ottobre 2004 (dep. 18 novembre 2004), n. 44712, Mazzarella (in Cass. Pen. 2005, p. 383, con nota di VESSICHELLI), hanno chiarito come non sia necessario un espresso e palese richiamo al suddetto potere, ovverosia l’utilizzo nella procura di formule c.d. ‘sacramentali’, perché vi possa essere valida attribuzione potestativa: è invero necessario e sufficiente che la relativa volontà della parte sia stata anche solo implicitamente manifestata nell’atto, dovendosi pertanto avere riguardo al tenore dello stesso ed al suo complessivo significato. Potrebbe dirsi che questa sentenza si sia limitata ad affermare la necessità di un’analisi in concreto del mandato, confermando la possibilità che la procura risulti validamente conferita anche solo per implicito, e non expressis verbis. È però nella risoluzione del caso ad esse in quell’occasione demandato che le Sezioni Unite hanno reso la decisione più precisamente rilevante per la vicenda di cui alla sentenza in commento. Il tenore letterale della procura di cui al procedimento Manzella, oggetto di intervento delle Sezioni Unite, era infatti il seguente: “Sig. avv. … vi nominiamo e costituiamo quale Ns difensore, nonché procuratore speciale ai fini della costituzione di parte civile nel procedimento penale n. …, a carico di …, conferendovi ogni più ampia facoltà di legge ed approvando sin d’ora il vostro operato” (subito si evidenzia la coincidenza, quasi letterale, di questa formula con quella, sopra riportata, utilizzata dalla Parte Civile nel procedimento di cui alla sentenza in commento).
Le Sezioni Unite hanno quindi ritenuto che il suddetto mandato contenesse inconfutabilmente sia la procura alle liti (“vi nominiamo e costituiamo quale Ns difensore”) sia il conferimento di un personale potere processuale, ex art. 76 e 122 c.p.p. (“nonché procuratore speciale ai fini della costituzione di parte civile”), Senonchè l’impiego delle movenze terminologiche “nel procedimento penale n. …”,”con ogni più ampia facoltà di legge”, “approvando sin da ora il vostro operato”, afferisce esclusivamente - com’è altrettanto evidente - al mandato per la costituzione di parte civile. Non è infatti, ricollegabile in alcun modo […] al conferimento della procura alle liti3, che risulta invece rilasciata puramente e semplicemente, senza alcuna ulteriore manifestazione di volontà”.
Continuano poi le stesse Ss. Uu., a riguardo della clausola di approvazione preventiva dell’operato del difensore, affermando che: “Tale manifestazione di volontà, risolventesi in una mera clausola di stile, attiene, come detto, soltanto alla costituzione di parte civile”. La conclusione cui la Suprema Corte, nella sua più autorevole composizione, giunge, è pertanto inevitabile: “l’impossibilità di interpretare l’atto nel senso di comprendere anche il potere del difensore di proporre appello è innegabile”. Ciò d'altronde appare in linea con quanto prevede lo stesso art. 122 c.p.p., dove è previsto che la procura rilasciata per il compimento di uno specifico atto, normalmente riservato alla parte, debba “contenere, oltre alle indicazioni richieste specificamente dalla legge, la determinazione dell'oggetto per cui è conferita e dei fatti ai quali si riferisce”: tale formulazione impone un minimum di determinatezza quanto all'oggetto ed al contenuto della procura ad hoc 4, che non può chiaramente soddisfarsi con espressioni troppo ampie e generiche, le quali, per voler dire e contenere tutto, finiscono invece per non dire nulla.
La Corte d’Assise d’Appello di Venezia pertanto, richiamata questa pronuncia e rilevata la pressoché letterale coincidenza delle due procure, non ha potuto fare altro che procedere alla luce dell’interpretazione fatta propria dalla Suprema Corte nel caso identico ora visto, così affermando: “seguendo l’anzidetto orientamento interpretativo, pur in un quadro potenzialmente aperto, non vi sono frasi (ancorché di stile) che consentano di ritenere conferito anche il mandato di proporre impugnazione”.
Invero solo all’udienza il Difensore di Parte Civile produceva nuova procura speciale ex art. 122 c.p.p., la quale espressamente contemplava il potere di proporre appello avverso la sentenza di I grado: la Corte Distrettuale però, non solo ha tratto da ciò un’ulteriore conferma in ordine all’interpretazione data della prima procura (“un tanto, del resto, non è sfuggito alla stessa parte civile che, invero [...] si era fatta rilasciare espressa e specifica procura speciale, che però, non risulta versata in atti ed è stata offerta alla Corte solo all'odierna udienza”), ma ha altresì ritenuto che tale produzione fosse ineludibilmente tardiva “rispetto al momento, cui solo deve farsi riferimento, della proposta impugnazione”. Per tale ragione questa seconda procura non è valsa a sanare il vizio riconosciuto dal giudice, con la conseguente decisione nel senso dell’inammissibilità dell’impugnazione per difetto di legittimazione in capo al Difensore che la propose.
4. Conclusivamente, può allora confermarsi la regola secondo la quale al difensore di parte civile non sia riconosciuto autonomo potere di impugnazione, essendo necessario, a tal fine, che egli sia munito di apposita procura (ex art. 122 c.p.p.). Il contenuto della procura non deve necessariamente contenere formule espresse ed esplicite di conferimento del potere in parola, essendo sufficiente (ma indispensabile) che la relativa volontà di conferirlo sia desumibile con certezza dal complessivo tenore dell’atto. Ed in particolare, l’uso di espressioni estremamente generiche e che rasentino la natura meramente ‘di stile’, quali quelle su esposte, non può considerarsi sufficiente ai fini della legittimazione del difensore, dovendosi richiedere un’indicazione più puntuale e precisa dell'oggetto e dei fatti in relazione ai quali la procura è conferita e non potendo a tal fine bastare l'indicazione del numero del procedimento e lo 'stilistico' conferimento di ‘ogni facoltà di legge.
Infine, ma la questione sarà oggetto di ulteriore giudizio in sede di legittimità, l’atto di legittimazione ad impugnare dovrà essere prodotto al più tardi al momento della proposizione dell'impugnazione, a nulla valendo la sua esibizione in sede di giudizio, per di più dopo che la relativa eccezione è stata sollevata dal difensore di altra parte.
5. Altro profilo trattato dalla pronuncia in commento, concerne la conversione in appello del ricorso per cassazione proposto dal P.G., ai sensi dell'art. 580 c.p.p.5. Finalità della regola di cui all'art. 580 c.p.p. è, infatti, quella di evitare che a seguito della proposizione di molteplici e diverse impugnazioni nei confronti della medesima sentenza vengano ad instaurarsi più procedimenti distinti, con conseguenze inaccettabili sotto il profilo della frammentazione di un unico processo e del rischio di futuri contrasti di decisioni su medesime vicende6.
Con la L. n. 46 del 2006 si è modificato l'art. 580 c.p.p., prevedendo che la regola della conversione operi “nel caso in cui sussista la connessione di cui all'articolo 12: sarebbe però assurdo che la conversione non operasse nel caso di distinte impugnazioni su diversi capi e punti della medesima sentenza concernente un unico reato ed un unico imputato, ipotesi in cui connessione non può ovviamente esservi7. È la suesposta ratio della norma che lo impone: invero soprattutto in un caso del genere la frammentazione del processo sarebbe ingiustificata ed altresì l'eventualità di contrasti decisionali assolutamente inaccettabile.
Di immediata evidenza sono allora le ragioni che hanno posto il problema della conversione alla Corte di Assise di Venezia: per la medesima sentenza vi erano un unico imputato ed un unico reato, ed avverso la stessa era stato proposto appello di Parte Civile e ricorso per cassazione del Procuratore Generale, il primo in ordine alle statuizioni civili ed il secondo in punto pena.
Invero, si trattava di capire se, dichiarato inammissibile l'appello della Parte Civile, operasse o meno la conversione, determinando quindi la prosecuzione o la cessazione del giudizio avanti la Corte d'Assise d'Appello: è infatti chiaro che, concludendosi per l'operatività della conversione, il giudice distrettuale sarebbe stato investito del giudizio in ordine all'impugnazione del Pubblico Ministero, nonostante la già dichiarata inammissibilità dell'impugnazione di merito della Parte Civile.
6. Il primo argomento che fonda la decisione della Corte veneta, attiene alla considerazione del fondamento e della funzione dell'istituto di cui all'art. 580 c.p.p..
Ed invero, come detto, la ratio della regola della conversione è riconducibile ai rischi ed agli inconvenienti derivanti dalla frammentazione del medesimo processo: sdoppiamento di giudizi e possibile contrasto di decisioni sugli stessi fatti o su fatti connessi.
Nel caso nostro quindi era venuto meno lo stesso presupposto di operatività della regola: invero l'appello è stato ritenuto inammissibile ex art. 591 c.p.p., perciò la frammentazione del processo non poteva in concreto verificarsi. Significativo precedente giurisprudenziale è dato dalla sentenza Cass., sez. IV, 24 febbraio 1992, Vignoli (in Cass. Pen. 1993, 354, con nota di SPANGHER): in tale sede infatti fu ritenuto inammissibile l'appello (dell'imputato), per cui tale impugnazione non poteva produrre alcuno degli effetti suoi propri, in particolare quello della conversione.
Con riferimento a questa decisione, autorevole dottrina ha precisato che non solo l'atto di gravame, essendo invalido, non può produrre alcun effetto che gli sarebbe proprio, ma altresì che “un giudizio unitario [...] non ha ragione di sussistere, difettando il suo presupposto”, così dovendosi concludere per l'inoperatività dell'istituto di cui all'art. 580 c.p.p.8. In accordo con questa interpretazione, la Corte distrettuale ha ritenuto che non essendoci (valido) appello, non sussistessero i presupposti giustificativi della conversione del ricorso del P.G., così spogliandosi del giudizio in favore della Corte di Cassazione.
7. In giurisprudenza e dottrina non sono mancate voci e pronunce che sostenevano la tesi della conversione anche in caso di inammissibilità dell'appello9, per lo più sulla base del rilievo che il giudice d'appello, dovendo dichiarare l'inammissibilità della stessa impugnazione di merito, veniva comunque investito del giudizio. A questo orientamento la Corte di Assise di Appello di Venezia ha però preferito quello opposto, concludendo nel senso della non operatività della conversione, dovuta alla presenza di vizi originari dell'appello: soluzione invero preferibile alla luce anche della recente giurisprudenza delle Sezioni Unite della Suprema Corte. La composizione più autorevole della Corte di legittimità propone infatti una ricostruzione dell'inammissibilità - quale vizio originario dell'impugnazione - dagli effetti assai radicali10: le Sezioni Unite hanno prima chiarito, riferendosi alle ipotesi di inammissibilità originaria dell'impugnazione, che essa “si caratterizza per l'inidoneità dell'atto di parte a mantenere in vita il rapporto processuale” Cass., sez. un., 3 novembre 1998, n. 11493, in Arch. nuova proc. pen. 1998, 827), ed infine affermato che l'inammissibilità dell'impugnazione (nella specie ricorso per cassazione) preclude ogni possibilità sia di far valere sia di rilevare di ufficio, ai sensi dell'art. 129 c.p.p., l'estinzione del reato per intervenuta prescrizione (Cass., sez. un., 22 Marzo 2005, n. 23428, in Cass. pen. 2005, 2910). La presenza di un vizio di inammissibilità dell'impugnazione ha perciò conseguenze di notevole importanza: si preclude addirittura la possibilità di rilevare l'intervenuta prescrizione, in quanto il rapporto processuale non è stato validamente prolungato; il giudicato si formerà pertanto sulla prima sentenza, alla data della sua ‘naturale’ irrevocabilità, da individuarsi alla stregua dell'art. 585 c.p.p., valendo per l'impugnazione inammissibile la regola del 'tamquam non esset'. Coerentemente con queste premesse, non si può non concludere nel senso che la portata dell'inammissibilità dell'impugnazione è tale da impedire anche l'operare della conversione ex art. 580 c.p.p.11: se l'appello non ha tenuto in vita il rapporto processuale (con riferimento ai capi oggetto di questo gravame), il giudice d'appello non può venire investito della vicenda (tanto è vero che nemmeno può prosciogliere l'imputato rilevando l'intervenuta prescrizione), tantomeno per effetto di una impugnazione diversa ed a lui non originariamente diretta, quale il ricorso per cassazione proposto da altra parte processuale.
8. Come detto, la decisione in commento si fonda su ambo i profili ora visti. La Corte d'Assise d'Appello di Venezia ha infatti motivato la sua decisione prima riferendosi alla ratio dell'art. 580 c.p.p., affermando:”la ragione della conversione,stabilita dall'art. 580 Cpp, è quella della necessità di garantire il simultaneus processus (per economia processuale ed altresì per evitare possibili difformità di giudizi). Quando però la dichiarata inammissibilità dell'appello rende non più sussistente tale ragione, è di conseguenza che la conversione non debba più operare, di tal che l'impugnazione dell'altra parte riacquista la sua valenza originaria di ricorso”. Infine, quasi a confermare la validità di questa interpretazione, la Corte veneta, richiamando Cass., sez. IV, 13 settembre 1994, Zuliani, e agevolmente collocandosi nel filone interpretativo su visto in tema di vizi originari dell'impugnazione, così prosegue: “poiché il difetto di legittimazione nell'appellante deve ritenersi vizio originario, non resta che dare convinta applicazione a tale massima giurisprudenziale”, ovvero ritenere inoperante la conversione quale conseguenza del vizio originario dell'appello, che preclude in radice il coinvolgimento di questo giudice, disponendo perciò la trasmissione degli atti avanti la Corte di Cassazione, per il fisiologico seguito del ricorso proposto dal Procuratore Generale. [Giovanni Lamonica, Andrea Toninello]


Note

1 VESSICHELLI, nota a Cass. S.U., 27 ottobre 2004, Mazzarella, in Cass. Pen. 2005, p. 383. Precisa l’A. che non è nemmeno previsto il potere di impugnazione personale della parte civile, dovendo essa infatti munirsi necessariamente di difensore officiato con procura speciale, posto che l’attribuzione di analogo potere personalmente all’imputato è norma derogatoria eccezionale, giustificata dal fatto che l’imputato è il soggetto più bisognevole di garanzie e strumenti di difesa nel procedimento penale. Così anche BRONZO, in LATTANZI, LUPO, Codice di procedura penale commentato - Rassegna di giurisprudenza e dottrina, I, Milano, Giuffrè, 2003, 1186.


2 Si veda BRONZO, in LATTANZI, LUPO, cit., 1184.

3 Sulla riconducibilità del potere di proporre impugnazione in capo al mandato ad litem o ad una procura ad hoc, la sentenza delle S.U. citata non appare molto precisa, pur conservando il suo insegnamento pieno valore: v. VESSICHELLI, nota a Cass., S.U, 27 ottobre 2004, Manzella, cit., 402.

4 In tal senso si veda anche MENDOZA, in LATTANZI, LUPO, Codice di procedura penale - Rassegna di giurisprudenza e dottrina, II, Milano, Giuffrè, 2003, 111: “Il potere rappresentativo deve risultare in modo inequivoco dal contenuto dell'atto [...] nulla vieta che il mandato sia rilasciato per il conferimento di poteri inerenti a tutto il corso di una procedura, sempre che siano osservate le prescrizioni per la necessaria determinazione dell'oggetto e dei fatti cui il mandato si riferisce”.

5 Si ricordi che è pacifico in giurisprudenza il principio in base al quale la conversione del ricorso del P.M. in appello, in caso di appello dell'imputato, operi anche con riguardo alle sentenze di condanna rese a seguito di giudizio abbreviato, sebbene esse siano di regola inappellabili dalla parte pubblica, ex art. 443, co. III c.p.p.: DE ROBERTO, in LATTANZI, LUPO, cit., 371.

6 Così ad es. DE ROBERTO, in LATTANZI, LUPO, Codice di procedura penale - Rassegna di giurisprudenza e dottrina, VIII, Milano, Giuffrè, 2003, 367.

7 NAPPI, Guida al codice di procedura penale, Milano, Giuffrè, 2007, 893.

8 Così SPANGHER, nota a Cass., sez. IV, 24 febbraio 1992, Vignoli, in Cass. Pen. 1993, 358.


9 Per le quali si rinvia a DE ROBERTO, in LATTANZI, LUPO, cit., 367-371.


10 Si veda sul punto UFFICIO DEL MASSIMARIO DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, La giurisprudenza delle Sezioni Unite penali - anno 2005, Milano, Giuffrè, 2006, 71.


11 Concorde sul punto anche NAPPI, Guida, cit. 894.
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  • Avv. Vincenzo Comi

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