La rassegna di dottrina e giurisprudenza del Corso nazionale di formazione specialistica dell'avvocato penalista organizzato dall'Unione delle Camere penali italiane in collaborazione con il Centro per la formazione e l'aggiornamento professionale degli avvocati del Consiglio Nazionale Forense.

26 giugno 2007

Corte costituzionale – sentenza 4-14 giugno 2007, n. 192, in tema di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi .

Corte costituzionale – sentenza 4-14 giugno 2007, n. 192

Presidente Bile – Relatore Flick

Ritenuto in fatto

1. Il Tribunale di Ravenna, con tre ordinanze di analogo tenore emesse il 12 gennaio 2006 (r.o. n. 102 e n. 103 del 2006) e il 24 gennaio 2006 (r.o. n. 104 del 2006), ed il Tribunale di Cagliari, con ordinanza emessa l’8 marzo 2006 (r.o. n. 295 del 2006), hanno sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’articolo 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui, nel disciplinare il concorso di circostanze eterogenee, vieta al giudice di ritenere le circostanze attenuanti prevalenti sull’aggravante della recidiva reiterata, prevista dall’articolo 99, quarto comma, Cp

I giudici a quibus – investiti dei processi nei confronti di persone imputate dei reati di estorsione in concorso (ordinanza r.o. n. 102 del 2006); di detenzione e vendita illecite di sostanze stupefacenti (ordinanze r.o. n. 103 e n. 295 del 2006); e di rapina aggravata, violenza sessuale aggravata e porto abusivo di arma (ordinanza r.o. n. 104 del 2006) – riferiscono che in ciascuno dei casi sottoposti al loro esame sarebbero configurabili a favore degli imputati (la cui responsabilità risulterebbe comprovata dalle acquisizioni processuali) determinate circostanze attenuanti: rispettivamente, quella del contributo di minima importanza alla commissione del reato, di cui all’articolo 114 Cp; quella del fatto di lieve entità, di cui all’articolo 73, comma 5, del Dpr 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza); e quelle del danno patrimoniale di speciale tenuità e dell’avvenuta riparazione del danno, di cui all’articolo 62, numeri 4) e 6), Cp

Agli imputati – soggiungono i rimettenti – è stata tuttavia contestata la recidiva reiterata, di cui all’articolo 99, quarto comma, Cp, avendo essi riportato in precedenza due o più condanne per delitti dolosi di vario genere.

Ciò premesso, i giudici a quibus osservano come le disposizioni regolative del cosiddetto giudizio di comparazione fra circostanze eterogenee trovino applicazione, in virtù dell’articolo 69, quarto comma, Cp, anche quando si tratti di circostanze inerenti alla persona del colpevole, qual è la recidiva. A seguito, tuttavia, della modifica operata dall’articolo 3 della legge 251/05 – entrata in vigore prima della commissione dei fatti oggetto dei giudizi a quibus – restano esclusi «i casi previsti dall’articolo 99, quarto comma, nonché dagli articoli 111 e 112, primo comma, numero 4)», Cp, per i quali «vi è divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulle ritenute circostanze aggravanti». Di conseguenza, le circostanze attenuanti configurabili nei casi di specie a favore degli imputati – le quali, anteriormente alla novella, avrebbero dovuto essere ritenute senz’altro prevalenti sulla recidiva reiterata, tenuto conto delle modalità dei fatti e dell’entità dei precedenti penali dei giudicabili – alla luce dell’attuale formulazione della norma censurata potrebbero essere considerate, al più, solo equivalenti ad essa.

A parere dei rimettenti, peraltro, la neointrodotta regola limitativa degli esiti del giudizio di comparazione tra circostanze si porrebbe in contrasto sia «con il principio di ragionevolezza quale accezione particolare del principio di uguaglianza» (articolo 3, primo comma, Costituzione), il quale funge da limite alla discrezionalità legislativa nella determinazione della qualità e quantità delle sanzioni penali; sia con il principio della funzione rieducativa della pena (articolo 27, terzo comma, Costituzione).

Il giudizio di bilanciamento tra circostanze costituirebbe, difatti, uno strumento per consentire al giudice il perfetto adeguamento della pena al caso concreto, tramite la valorizzazione degli elementi positivi o negativi più significativi ai fini della qualificazione del fatto e del suo autore. Precludendo in assoluto la dichiarazione di prevalenza delle attenuanti sulla recidiva reiterata, la norma censurata determinerebbe, viceversa, un «appiattimento» del trattamento sanzionatorio, in rapporto a situazioni che potrebbero risultare assai diverse; e rischierebbe, al tempo stesso, di imporre l’applicazione di pene manifestamente sproporzionate all’entità del fatto, la cui espiazione non consentirebbe la rieducazione del condannato.

Tale evenienza ricorrerebbe puntualmente nei casi di specie: giacché, una volta ritenute le attenuanti solo equivalenti alla recidiva reiterata, le pene minime irrogabili agli imputati (prima della diminuzione prevista per il rito abbreviato, da essi richiesto) – vale a dire: cinque anni di reclusione ed euro 516 di multa, nei casi di cui alle ordinanze r.o. n. 102 e n. 104 del 2006; due anni di reclusione ed euro 5.164 di multa, nei casi di cui alle ordinanze r.o. n. 103 e n. 295 del 2006 – si rivelerebbero palesemente eccessive rispetto ai fatti per cui si procede.

L’ordinanza r.o. n. 104 del 2006 soggiunge, altresì, che l’irragionevolezza denunciata risulterebbe esaltata dal fatto che la preclusione del giudizio di prevalenza delle attenuanti è stata sancita a carico del recidivo reiterato indipendentemente dalla gravità dei delitti commessi, dalla data della loro commissione e dall’entità delle pene irrogate: mentre ad una diversa conclusione si sarebbe potuti pervenire qualora la preclusione in parola fosse stata limitata ai soli recidivi reiterati condannati per reati di una certa gravità, analogamente a quanto lo stesso legislatore della legge n. 251 del 2005 ha stabilito nel novellare l’articolo 62-bis Cp, in tema di concessione delle attenuanti generiche.

2. Analoga questione di legittimità costituzionale è stata sollevata dal Tribunale di Livorno, con ordinanza emessa il 14 marzo 2006 (r.o. n. 405 del 2006), nell’ambito di un processo penale nei confronti di persona imputata del reato di cessione e detenzione illecite di sostanza stupefacente, di cui all’articolo 73, commi 1 e 1-bis, del Dpr n. 309 del 1990 (come modificato dall’articolo 4-bis del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272, convertito, con modificazioni, nella legge 21 febbraio 2006, n. 49), con l’aggravante della recidiva reiterata, specifica e infraquinquennale.

Sulla premessa della configurabilità, nel caso di specie, dell’attenuante del fatto di lieve entità, di cui al comma 5 del citato articolo 73, anche tale giudice rimettente assume che l’articolo 69, quarto comma, Cp – impedendo, nell’attuale formulazione, di ritenere le circostanze attenuanti prevalenti sulla recidiva reiterata – contrasti tanto con il principio di ragionevolezza (articolo 3 Costituzione), stante il radicale divario, a fronte della commissione del medesimo fatto, tra la pena che può essere inflitta al recidivo reiterato e quella irrogabile al soggetto che non lo è; quanto con la funzione rieducativa della pena (articolo 27, terzo comma, Costituzione), considerata l’assoluta sproporzione del trattamento sanzionatorio rispetto alla effettiva gravità dell’illecito, che in casi quale quello oggetto del giudizio a quo la norma censurata finirebbe per determinare.

3. Con quattro ordinanze, di analogo tenore, emesse il 3 marzo 2006 (r.o. n. 223 del 2006), il 28 febbraio 2006 (r.o. n. 235 del 2006), l’8 aprile 2006 (r.o. n. 297 del 2006) e l’11 marzo 2006 (r.o. n. 404 del 2006), il Tribunale di Cagliari ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27, primo e terzo comma, Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 69, quarto comma, Cp, come modificato dall’articolo 3 della legge 251/05, nella parte in cui stabilisce il «divieto di prevalenza» delle circostanze attenuanti sulle circostanze aggravanti, nell’ipotesi prevista dall’articolo 99, quarto comma, Cp

Il Tribunale rimettente – chiamato a giudicare persone imputate del reato di detenzione o cessione illecita di sostanze stupefacenti, di cui all’articolo 73 del Dpr n. 309 del 1990, con l’aggravante della recidiva reiterata – premette che, in ognuno dei casi, tenuto conto della modesta quantità di stupefacente detenuta o ceduta dagli imputati e delle altre modalità dell’azione, il fatto andrebbe ritenuto di lieve entità, ai fini dell’applicazione del comma 5 dello stesso articolo 73: disposizione, quest’ultima, che – secondo la costante giurisprudenza di legittimità – contempla non già una fattispecie autonoma di reato, ma una circostanza attenuante ad effetto speciale, la quale, nel caso di concorso con eventuali aggravanti, resta dunque obbligatoriamente soggetta al giudizio di comparazione previsto dall’articolo 69 Cp

Tale attenuante comporta, d’altra parte, una sensibilissima mitigazione della risposta punitiva ai reati di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope, tanto nell’assetto anteriore che in quello successivo alle modifiche apportate dal decreto-legge n. 272 del 2005, convertito, con modificazioni, nella legge n. 49 del 2006: in particolare, dopo tale novella, la pena della reclusione da sei a venti anni e della multa da euro 26.000 a euro 260.000, comminata dal comma 1 dell’articolo 73 del Dpr n. 309 del 1990, viene sostituita, ove ricorra l’attenuante in questione, da quella della reclusione da uno a sei anni e della multa da euro 3.000 a euro 26.000. Nella specie, tuttavia, tale drastica riduzione del trattamento sanzionatorio resterebbe irrimediabilmente vanificata, stante l’impossibilità di ritenere l’attenuante in parola – per il divieto posto dalla norma censurata – prevalente sulla contestata recidiva reiterata, come pure le caratteristiche del fatto e la personalità degli imputati richiederebbero.

Siffatta soluzione normativa si rivelerebbe contraria ai principi di ragionevolezza e di eguaglianza: giacché, per un verso, imporrebbe di punire allo stesso modo fatti di diversa gravità concreta (nella specie, l’illecita detenzione o lo spaccio di stupefacenti di lieve entità verrebbero puniti con la medesima pena prevista i fatti non lievi); e, per un altro verso, farebbe sì che vengano puniti in modo del tutto diverso fatti oggettivamente identici o analoghi (quali, nella specie, l’illecita detenzione o lo spaccio di stupefacenti di lieve entità), sulla base del solo elemento differenziale rappresentato dalla qualità di recidivo reiterato dell’autore.

Tramite la norma censurata, il legislatore avrebbe introdotto, in sostanza, un «automatismo sanzionatorio» atto a determinare una «indiscriminata omologazione» dei recidivi reiterati, sulla base di una presunzione assoluta di pericolosità che – prescindendo dalla natura dei delitti cui si riferiscono le precedenti condanne, dall’epoca della loro commissione e dalla identità della loro indole rispetto a quella del nuovo reato – non troverebbe fondamento nell’«id quod plerumque accidit». La recidiva reiterata, difatti, potrebbe non essere indicativa di una effettiva pericolosità, segnatamente allorché vengano in considerazione condanne risalenti nel tempo e relative a delitti di scarsa gravità, o comunque non significativi sul piano criminale in rapporto al nuovo delitto per cui si procede.

Tale «automatismo sanzionatorio», ancorato alla sola personalità del colpevole ed alla sua pericolosità presunta, lederebbe anche l’articolo 25, secondo comma, Costituzione, il quale sancisce un legame indissolubile tra la sanzione penale e la commissione di un «fatto»: impedendo, quindi, che si punisca la mera pericolosità sociale o l’«atteggiamento interiore» del reo.

La norma censurata si porrebbe in contrasto, altresì, con i principi stabiliti dall’articolo 27, primo e terzo comma, Costituzione Al riguardo, verrebbero in rilievo tanto il principio di personalità della responsabilità penale, a fronte del quale la pena non potrebbe essere aggravata solo per soddisfare esigenze di prevenzione generale e di difesa sociale; quanto il principio di proporzionalità della pena, insito nella funzione retributiva, il quale impone la congruità della pena irrogata in concreto rispetto alla gravità del fatto ed alle condizioni personali dell’agente; quanto, infine, il principio della finalità rieducativa della pena: finalità che – secondo la giurisprudenza di questa Corte – deve essere associata alla funzione retributiva in termini di necessaria coesistenza. Da tale complesso di precetti costituzionali emergerebbe dunque l’esigenza dell’individualizzazione della pena, giacché solo mediante l’adeguamento della risposta punitiva alle caratteristiche del singolo caso – adeguamento che costituisce l’obiettivo del giudizio di comparazione tra circostanze eterogenee – sarebbe possibile assicurare un’effettiva eguaglianza di fronte alle pene, rendendo realmente «personale» la responsabilità penale e facendo sì che il trattamento sanzionatorio assolva ad una funzione rieducativa.

Il novellato articolo 69, quarto comma, Cp – con l’escludere il giudizio di prevalenza delle attenuanti rispetto alla recidiva reiterata – impedirebbe viceversa il suddetto adeguamento, imponendo l’irrogazione di pene che possono rivelarsi, come nei casi di specie, del tutto sproporzionate rispetto all’effettiva entità dei fatti e dunque inidonee, proprio perché percepite come ingiuste ed abnormi, ad agevolare la risocializzazione del reo.

4. Il Tribunale di Cagliari ha sollevato questione di legittimità costituzionale della medesima norma, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27, primo e terzo comma, Costituzione, con due ulteriori ordinanze, emesse il 3 aprile 2006 (r.o. n. 307 del 2006) ed il 23 giugno 2006 (r.o. n. 559 del 2006), che svolgono censure in parte differenziate.

Anche in tali occasioni, il rimettente – investito di processi penali nei confronti di persone imputate dei reati di cessione e detenzione illecite di sostanze stupefacenti, di cui all’articolo 73, commi 1 e 1bis, del Dpr 309/1990, con l’aggravante della recidiva reiterata – ritiene che i fatti oggetto di giudizio vadano qualificati di lieve entità, ai fini dell’applicazione dell’attenuante di cui al comma 5 del citato articolo 73; e che tale attenuante – ove non lo impedisse la norma censurata – dovrebbe essere considerata prevalente rispetto alla recidiva reiterata.

Ciò posto, il giudice a quo osserva come, alla luce delle indicazioni di questa Corte, l’adeguamento della pena al caso concreto da parte del giudice – sulla base dei parametri forniti dall’articolo 133 Cp – rappresenti attuazione e sviluppo dei principi costituzionali di eguaglianza, di personalità della responsabilità penale e di finalizzazione della pena alla rieducazione; e come, al tempo stesso, la pena abbia un carattere «polifunzionale» – rispondendo sia a fini di prevenzione generale e difesa sociale, sia a fini di prevenzione speciale e di rieducazione del reo – senza che fra tali finalità sia possibile stabilire una «gerarchia statica»: così che il legislatore, nei limiti della ragionevolezza, può far prevalere, di volta in volta, l’una o l’altra di esse, a patto, però, che nessuna risulti obliterata.

Ai sensi dell’articolo 133 Cp, d’altro canto, la «pena giusta» deve essere determinata combinando in maniera sintetica, ma razionale, il giudizio in ordine alla gravità del reato e quello concernente la capacità a delinquere, desunta, fra l’altro, dai precedenti penali e giudiziari. Tale ultimo criterio – quello, cioè, della capacità a delinquere – potrebbe essere letto o come espressivo della finalità specialpreventiva della pena, cioé quale indice, «proiettato nel futuro», della pericolosità sociale del reo; ovvero come «ancorato al momento del fatto», nel senso che esso rappresenterebbe null’altro che una componente del giudizio relativo alla colpevolezza, in un’ottica retributiva. Anche a voler privilegiare, peraltro, l’aspetto specialpreventivo e rieducativo della pena, tali funzioni non potrebbero comunque prescindere – alla luce dei ricordati dicta di questa Corte – dall’applicazione di una pena «giusta», ossia proporzionata alla gravità complessiva della responsabilità dell’autore. Nel contesto dell’articolo 133, secondo comma, Cp, inoltre, l’indice rappresentato dai precedenti penali e dalla complessiva condotta di vita dell’imputato sarebbe «del tutto indipendente dalla valutazione del fatto»: con la conseguenza che, quanto è maggiore la rilevanza accordata a tale elemento, tanto più la sanzione – «a causa dell’efficacia determinante svolta dal “tipo d’autore”» – acquisterebbe caratteri di «esemplarità», incompatibili non soltanto con il principio della finalità rieducativa della pena, ma anche con il principio di offensività desumibile dall’articolo 25, secondo comma, Costituzione

Il giudizio di comparazione delle circostanze, di cui all’articolo 69 Cp – prosegue il rimettente – attiene anch’esso alla valutazione del reato nel suo complesso, e deve essere operato dal giudice alla stregua dei criteri di cui all’articolo 133 Cp e nel rispetto dei limiti fissati discrezionalmente dal legislatore, in base a scelte di politica criminale: scelte che non debbono tuttavia varcare il confine della ragionevolezza, né creare disparità di trattamento prive di giustificazione, rimanendone altrimenti lesi il principio di eguaglianza, di cui all’articolo 3 Costituzione, e, di riflesso, quelli di personalità della responsabilità penale e della funzione rieducativa della pena.

Tali limiti non risulterebbero osservati, per contro, dal nuovo disposto dell’articolo 69, quarto comma, Cp, nella parte in cui vieta di ritenere le circostanze attenuanti prevalenti sulla recidiva reiterata.

Con l’impedire che elementi di segno contrario possano travolgere l’indice negativo rappresentato dalla reiterazione del reato, il legislatore avrebbe infatti introdotto una sorta di presunzione legale di pericolosità sociale, o quantomeno di spiccata tendenza a delinquere del recidivo reiterato. La razionalità di una simile previsione risulterebbe peraltro dubbia: e ciò anzitutto alla luce del carattere «perpetuo» della recidiva, la quale si configura – fatta eccezione per la recidiva infraquinquennale – a prescindere dal lasso di tempo trascorso dalla commissione dell’ultimo reato, e dunque anche in casi in cui, essendosi al cospetto di precedenti penali remoti, l’indicata presunzione di pericolosità non trovi in concreto giustificazione.

Per altro verso, poi, il divieto di «subvalenza» della recidiva reiterata è stato sancito in rapporto a tutte le circostanze attenuanti, indipendentemente dal fatto che esse abbiano carattere soggettivo od oggettivo, o che si tratti di attenuanti ad effetto comune o ad effetto speciale.

Sotto il primo profilo, tuttavia, la non omogeneità degli elementi considerati nel giudizio di bilanciamento renderebbe irrazionale la preclusione: giacché, se la disposizione mira a rendere indefettibile la valutazione della recidiva nel giudizio relativo alla personalità dell’imputato, detto divieto sarebbe «forse» giustificabile in rapporto alle attenuanti che hanno fondamento nella tendenza a delinquere del reo; ma risulterebbe comunque illogico rispetto alle attenuanti a carattere oggettivo, le quali riflettono esclusivamente il minor disvalore del fatto.

Sotto il secondo profilo, alle attenuanti ad effetto speciale risulta sovente sottesa una valutazione legislativa «del tutto diversa della gravità del fatto e quindi del bisogno sociale di repressione»: il che avverrebbe puntualmente per l’attenuante di cui all’articolo 73, comma 5, del Dpr 309/90, stante la «siderale distanza» intercorrente fra gli episodi di piccolo spaccio, spesso commessi da tossicodipendenti che in cambio della loro attività ricevono dal fornitore la sostanza necessaria al loro consumo; e gli episodi di vero e proprio traffico, volti a rifornire il mercato degli stupefacenti e a procurare ingenti guadagni.

Di conseguenza, l’elisione degli effetti dell’attenuante in parola, a fronte dei limiti al bilanciamento con la recidiva reiterata, imporrebbe di applicare agli imputati nei giudizi a quibus, per fatti di «spaccio minuto», la stessa pena prevista per il trafficante, ossia una pena iniqua perché non proporzionata alla gravità della loro responsabilità penale.

5. – Con tre ordinanze di analogo tenore, emesse il 25 marzo 2006 (r.o. n. 308 del 2006), il 6 aprile 2006 (r.o. n. 408 del 2006) e il 20 maggio 2006 (r.o. n. 615 del 2006), nell’ambito di procedimenti penali nei confronti di persone imputate dei reati di detenzione e cessione illecite di sostanze stupefacenti, con l’aggravante della recidiva reiterata, il Tribunale di Perugia ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 27, terzo comma, Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 69, quarto comma, Cp, come modificato dall’articolo 3 della legge 251/2005, nella parte in cui esclude che possa ritenersi prevalente sulla recidiva reiterata la circostanza attenuante ad effetto speciale di cui all’articolo 73, comma 5, del Dpr 309/90: circostanza che il giudice a quo reputa configurabile nei casi di specie.

Il Tribunale rimettente muove anch’esso dal rilievo che, per affermazione di questa Corte, l’adeguamento della pena ai casi concreti – cui il giudizio di bilanciamento fra circostanze di segno opposto è preordinato – costituisce espressione dei principi di personalità della responsabilità penale e della finalità rieducativa della pena, nonché, al tempo stesso, strumento di attuazione dell’eguaglianza di fronte alla sanzione penale.

Su tale premessa, il giudice a quo osserva che è ben vero che anche nel caso in cui sia preclusa la formulazione di un giudizio di prevalenza delle attenuanti sulle aggravanti – come avviene attualmente per la recidiva reiterata, in forza dall’articolo 69, quarto comma, Cp – permane un residuo margine di graduabilità della pena; ma che tale graduabilità residua deve risultare comunque idonea ad assicurare la ricordata finalità rieducativa, oltre che connotata da razionalità e proporzionalità.

Ciò non avverrebbe, per contro, nell’ipotesi in cui – per valutazioni attinenti alla concreta offensività del reato di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti – detto reato possa considerarsi di lieve entità: apparendo del tutto incongruo che, in tale ipotesi, venga preclusa la formulazione di un giudizio di prevalenza dell’attenuante di cui al comma 5 del citato articolo 73 rispetto alla recidiva reiterata. In questo modo, infatti, sulla base di una mera presunzione, svincolata dall’apprezzamento del fatto concreto e della effettiva pericolosità del reo – il quale potrebbe risultare gravato da precedenti assai tenui e di diversa indole – si imporrebbe l’irrogazione di una pena corrispondente a quella, di gran lunga superiore, che il legislatore ha stabilito in rapporto al «disvalore oggettivo del reato nella sua dimensione ordinaria».

6. Con ordinanza emessa il 24 febbraio 2006 (r.o. n. 406 del 2006) il Tribunale di Firenze ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 25, secondo comma, 27, terzo comma, 101, secondo comma, e 111, primo e sesto comma, Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 69, quarto comma, Cp, come modificato dall’articolo 3 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui stabilisce il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulle circostanze aggravanti inerenti alla persona del colpevole, nel caso previsto dall’articolo 99, quarto comma, Cp

Il giudice a quo – premesso di essere chiamato a giudicare una persona tratta in arresto nella flagranza della cessione a terzi di una modestissima quantità di eroina: fatto da ritenere di lieve entità ai sensi dell’articolo 73, comma 5, del Dpr n. 309 del 1990 – rileva come la circostanza attenuante prevista da tale disposizione abbia, per costante giurisprudenza di legittimità, carattere prettamente oggettivo, essendo volta a mitigare le severe pene stabilite per le violazioni in materia di stupefacenti allorché la condotta presenti una ridotta offensività; così da rendere il sistema sanzionatorio stabilito dal citato Dpr n. 309 del 1990 complessivamente conforme al dettato costituzionale. La pena inflitta in concreto dovrebbe risultare, infatti, sempre adeguata alla effettiva offensività della singola condotta criminosa, in base al disposto dell’articolo 25, secondo comma, Costituzione; e conforme, altresì, alla finalità rieducativa della sanzione penale, prevista dall’articolo 27, terzo comma, Costituzione

Alla realizzazione di tali principi costituzionali era preordinata anche la previsione dell’articolo 69 Cp – nel testo anteriore alla novella – in tema di giudizio di comparazione tra circostanze eterogenee, la quale consentiva al giudice di adeguare discrezionalmente la pena alla concreta offensività del fatto sottoposto al suo giudizio. Per contro, la nuova formulazione della norma – vietando il giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti, anche ad effetto speciale, rispetto alla recidiva reiterata (giudizio che si imporrebbe nel caso di specie) – precluderebbe il conseguimento del suddetto obiettivo in presenza di determinate condizioni personali dell’imputato: ponendosi così in contrasto, non soltanto con i precetti, già ricordati, degli artt. 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Costituzione; ma anche con quelli degli artt. 101, secondo comma, e 111, primo e sesto comma, Costituzione, stante l’impossibilità, per il giudice, «di adempiere, nel processo, all’obbligo di legge di adeguare la sanzione al caso concreto ed irrogare una sanzione che abbia finalità rieducative».

Ad avviso del giudice rimettente, sarebbe violato anche l’articolo 3, primo comma, Costituzione, giacché, per effetto della norma denunciata, a condotte estremamente diverse sotto il profilo della offensività conseguirebbe una identica sanzione.

7. In tutti i giudizi di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che le questioni siano dichiarate non fondate.

La difesa erariale osserva, in via preliminare, come la modifica apportata all’articolo 69 Cp dall’articolo 3 della legge n. 251 del 2005 si collochi nell’alveo di un indirizzo legislativo – già precedentemente manifestatosi tramite norme che hanno escluso o limitato il giudizio di equivalenza o di prevalenza rispetto a determinate circostanze aggravanti – volto a ridimensionare il potere discrezionale del giudice, in sede di bilanciamento delle circostanze eterogenee: potere che, a seguito della riforma operata dal decreto-legge 11 aprile 1974, n. 99 (Provvedimenti urgenti sulla giustizia penale), convertito, con modificazioni, nella legge 7 giugno 1974, n. 220, ha finito per assumere una latitudine eccessiva.

La scelta discrezionale del legislatore sottesa alla norma denunciata non confliggerebbe, peraltro, con il principio di ragionevolezza, essendo diretta ad attuare – unitamente alla riforma della disciplina della recidiva, di cui all’articolo 99 Cp, introdotta dall’articolo 4 della stessa legge 251/05 – una forma di prevenzione speciale della recidiva reiterata, inasprendone il trattamento sanzionatorio.

La norma censurata non contrasterebbe neppure con la funzione rieducativa della pena, dovendosi escludere che essa comporti l’applicazione di pene sproporzionate, in quanto indirizzata nei confronti di soggetti che hanno commesso un altro reato essendo già recidivi ed hanno così dimostrato un alto e persistente grado di «antisocialità»: l’irrigidimento della risposta punitiva resterebbe ancorato, quindi, ad un fatto che obiettivamente attesta la particolare pericolosità del colpevole, onde non potrebbe essere considerato arbitrario.

D’altro canto, il nuovo testo dell’articolo 99 Cp, pur rendendo (in parte) fissi gli aumenti di pena previsti per le varie ipotesi di recidiva, avrebbe conservato il carattere facoltativo della relativa applicazione (introdotto dalla riforma del 1974), salvo che per i reati di cui all’articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale. Rimarrebbe pertanto integro il potere del giudice di escludere l’applicazione della circostanza aggravante – quantomeno agli effetti della commisurazione della pena – allorché ritenga che la ricaduta nel reato non sia indice di insensibilità etico-sociale del colpevole, o sia comunque irrilevante dal punto di vista della tutela sociale, in considerazione del lungo tempo trascorso dal precedente reato. Con la conseguenza che, anche nelle ipotesi di recidiva reiterata, il giudice sarebbe tuttora in grado di adeguare il trattamento sanzionatorio alla effettiva gravità del fatto ed alla reale necessità di rieducazione del colpevole.

Considerato in diritto

1.1. Il Tribunale di Ravenna, con tre distinte ordinanze (r.o. n. 102, n. 103 e n. 104 del 2006) ed il Tribunale di Cagliari, con una ulteriore ordinanza (r.o. n. 295 del 2006), dubitano della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, dell’articolo 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’articolo 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251, nella parte in cui, nel disciplinare il concorso di circostanze eterogenee, stabilisce il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata, prevista dall’articolo 99, quarto comma, Cp

Ad avviso dei rimettenti, la neointrodotta regola limitativa degli esiti del giudizio di comparazione tra circostanze – giudizio che mira a permettere al giudice il perfetto adeguamento della pena al caso concreto – si porrebbe in contrasto con il principio di ragionevolezza e con la funzione rieducativa della pena, determinando, per un verso, un livellamento del trattamento sanzionatorio di situazioni assai diverse; e imponendo, per un altro verso, l’applicazione di pene che possono risultare manifestamente sproporzionate all’entità del fatto, la cui espiazione non consentirebbe la rieducazione del condannato.

1.2. Analogo dubbio di costituzionalità è sollevato dal Tribunale di Livorno (ordinanza r.o. n. 405 del 2006), a cui parere il nuovo articolo 69, quarto comma, Cp, violerebbe, in parte qua, tanto l’articolo 3, primo comma, Costituzione, stante il radicale divario – a fronte del medesimo fatto – tra la pena che, per effetto della norma censurata, può essere inflitta al recidivo reiterato e quella irrogabile a chi non lo è; quanto l’articolo 27, terzo comma, Costituzione, attesa la sproporzione della risposta punitiva alla effettiva gravità dell’illecito commesso, che la norma stessa sarebbe idonea a determinare.

1.3. Il Tribunale di Cagliari, con quattro ordinanze (r.o. n. 223, n. 235, n. 297 e n. 404 del 2006), sottopone a scrutinio di costituzionalità l’articolo 69, quarto comma, Cp, nella medesima articolazione precettiva, con riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27, primo e terzo comma, Costituzione

Avendo di mira, in particolare, le conseguenze che la norma denunciata determinerebbe sul trattamento sanzionatorio dei delitti di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti – in termini di ineluttabile “neutralizzazione”, rispetto al recidivo reiterato, della sensibilissima mitigazione della risposta punitiva prefigurata per l’attenuante del fatto «di lieve entità», di cui all’articolo 73, comma 5, del Dpr 9 ottobre 1990, n. 309 – il giudice rimettente ritiene compromessi, anzitutto, i principi di ragionevolezza e di eguaglianza. Con l’escludere, infatti, che le attenuanti possano essere ritenute prevalenti sulla recidiva reiterata, il nuovo articolo 69, quarto comma, Cp, da un lato, imporrebbe di punire allo stesso modo fatti di diversa gravità concreta (in specie, l’illecita detenzione o lo spaccio di stupefacenti di lieve entità verrebbero puniti con la medesima pena prevista i fatti non lievi); dall’altro lato, farebbe sì che vengano puniti in modo del tutto diverso fatti oggettivamente identici o analoghi (quali, in specie, l’illecita detenzione o lo spaccio di stupefacenti di lieve entità), sulla base del solo elemento differenziale rappresentato dalla qualità di recidivo reiterato dell’autore.

Il legislatore avrebbe introdotto, in sostanza, tramite la previsione normativa denunciata, un «automatismo sanzionatorio» atto a determinare una «indiscriminata omologazione» dei recidivi reiterati: «omologazione» da reputare peraltro irrazionale, in quanto basata su una presunzione assoluta di pericolosità che – prescindendo dalla natura dei delitti cui si riferiscono le precedenti condanne, dall’epoca della loro commissione e dalla identità della loro indole rispetto a quella del nuovo reato – non troverebbe fondamento nell’«id quod plerumque accidit».

Ne risulterebbe quindi leso anche l’articolo 25, secondo comma, Costituzione, il quale sancisce un legame indissolubile tra la sanzione penale e la commissione di un «fatto»: impedendo, così, che si punisca la mera pericolosità sociale presunta o l’«atteggiamento interiore» del reo.

Da ultimo, la disposizione impugnata si porrebbe in contrasto con l’articolo 27, primo e terzo comma, Costituzione, avuto riguardo sia al principio di personalità della responsabilità penale, il quale esclude che la pena possa essere aggravata solo per soddisfare esigenze di prevenzione generale o di difesa sociale, indipendentemente dalla valutazione della personalità del condannato; sia al principio di proporzionalità della pena – insito nella funzione retributiva – il quale postula la congruità della risposta punitiva rispetto alla gravità concreta del fatto; sia alla finalità rieducativa della pena, che verrebbe frustrata dalla irrogazione di pene eccessivamente severe in rapporto all’effettiva entità del reato commesso.

1.4. Lo stesso Tribunale di Cagliari ha sollevato questione di legittimità costituzionale della medesima norma, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27, primo e terzo comma, Costituzione, con due ulteriori ordinanze (r.o. n. 307 e n. 559 del 2006), che svolgono censure in parte differenziate.

Il Tribunale rimettente ritiene nell’occasione leso l’articolo 3 Costituzione, in rapporto al principio di ragionevolezza, sotto un duplice profilo. In primo luogo, perché la norma censurata introdurrebbe una presunzione legale di pericolosità sociale del recidivo priva di fondamento razionale, stante il carattere «perpetuo» della recidiva, la quale si configura – fatta eccezione per la recidiva infraquinquennale – indipendentemente dal lasso di tempo trascorso dalla commissione dell’ultimo reato. In secondo luogo, perché il divieto di «subvalenza» della recidiva reiterata risulta sancito – in assunto, altrettanto irrazionalmente – in rapporto a tutte le attenuanti: e dunque anche a quelle a carattere oggettivo (non omogenee rispetto alla recidiva, in quanto non riferite alla personalità dell’autore, ma espressive del minor disvalore del fatto) e a quelle ad effetto speciale, cui è sovente sottesa una valutazione legislativa del tutto diversa in ordine alla gravità del fatto medesimo.

Gli artt. 25, secondo comma, e 27, primo e terzo comma, Costituzione sarebbero d’altro canto vulnerati in quanto l’«efficacia determinante» attribuita – ai fini della commisurazione del trattamento sanzionatorio – ai precedenti penali del reo, e dunque al «tipo d’autore», farebbe sì che la pena acquisti caratteri di «esemplarità», incompatibili con i principi di offensività del reato e della finalità rieducativa della pena.

1.5. Con tre ordinanze di analogo tenore (r.o. n. 308, n. 408 e n. 615 del 2006), il Tribunale di Perugia dubita, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, Costituzione, della legittimità costituzionale dell’articolo 69, quarto comma, Cp, come modificato dall’articolo 3 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui esclude che possa ritenersi prevalente sulla recidiva reiterata la circostanza attenuante ad effetto speciale del fatto di lieve entità, prevista dall’articolo 73, comma 5, del Dpr n. 309 del 1990 in rapporto ai delitti di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti e psicotrope.

A parere di tale giudice rimettente, i parametri costituzionali evocati risulterebbero compromessi a fronte della impossibilità di giustificare – in presenza di un reato in materia di stupefacenti, qualificabile come di lieve entità – l’enorme divario tra la pena minima di un anno di reclusione, oltre la multa, applicabile in presenza dell’attenuante de qua; e quella di sei anni di reclusione, oltre la multa, che dovrebbe essere invece inflitta ove l’attenuante stessa non possa essere ritenuta prevalente, ma, al più, solo equivalente rispetto alla concorrente aggravante della recidiva reiterata: donde la lesione del principio di eguaglianza e della finalità rieducativa della pena.

1.6. Il Tribunale di Firenze ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 25, secondo comma, 27, terzo comma, 101, secondo comma, e 111, primo e sesto comma, Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 69, quarto comma, Cp, come modificato dall’articolo 3 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui stabilisce il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulle circostanze aggravanti inerenti alla persona del colpevole, nel caso previsto dall’articolo 99, quarto comma, Cp (ordinanza r.o. n. 406 del 2006).

Secondo il giudice a quo, la norma impugnata violerebbe gli artt. 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Costituzione, in quanto – prevedendo una indefettibile elisione delle attenuanti concorrenti nei confronti del recidivo reiterato – non consentirebbe al giudice di infliggere una pena adeguata alla effettiva offensività della singola condotta criminosa e conforme alla finalità rieducativa della sanzione penale.

Verrebbero di conseguenza compromessi anche gli artt. 101, secondo comma, e 111, primo e secondo comma, Costituzione, stante l’impossibilità, per il giudice, «di adempiere, nel processo, all’obbligo di legge di adeguare la sanzione al caso concreto» e di «irrogare una sanzione che abbia finalità rieducativa».

La disposizione denunciata lederebbe, infine, l’articolo 3 Costituzione, facendo sì che a condotte estremamente diverse, sotto il profilo della offensività, consegua una identica sanzione.

2. Le ordinanze di rimessione sollevano questioni di costituzionalità inerenti alla medesima norma, svolgendo altresì censure in larga parte identiche o analoghe, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione.

3. Le questioni sono inammissibili.

3.1. I giudici a quibus dubitano, in riferimento a plurimi parametri costituzionali, della conformità a Costituzione dell’articolo 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’articolo 3 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui – nel disciplinare il concorso di circostanze eterogenee – vieta al giudice di ritenere le circostanze attenuanti prevalenti sull’aggravante della recidiva reiterata, prevista dall’articolo 99, quarto comma, Cp La maggioranza dei rimettenti sottopone a scrutinio tale divieto nella sua globalità; mentre il solo Tribunale di Perugia si duole, in modo specifico, del fatto che la preclusione del giudizio di prevalenza sia stata sancita anche in rapporto alla circostanza attenuante ad effetto speciale del fatto di lieve entità, prevista dall’articolo 73, comma 5, del Dpr n. 309 del 1990, relativamente ai delitti di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope.

Le censure formulate dai giudici a quibus trovano, in ogni caso, la loro comune premessa fondante nell’assunto per cui la norma denunciata avrebbe introdotto una indebita limitazione del potere-dovere del giudice di adeguamento della pena al caso concreto – adeguamento funzionale alla realizzazione dei principi di eguaglianza, di necessaria offensività del reato, di personalità della responsabilità penale e della funzione rieducativa della pena – introducendo un «automatismo sanzionatorio», correlato ad una presunzione iuris et de iure di pericolosità sociale del recidivo reiterato. Si tratterebbe, peraltro, di una presunzione irrazionale, a fronte dei caratteri di “perpetuità” e “genericità” propri della recidiva, la quale – fatta eccezione per le ipotesi di recidiva aggravata previste dai numeri 1) e 2) dell’articolo 99, secondo comma, Cp (recidiva specifica e infraquinquennale) – si configura a prescindere dal tempo trascorso dalla condanna precedente e dalla identità dell’indole fra il nuovo delitto e quelli anteriormente commessi.

Ad avviso dei rimettenti, cioè, il fatto che il colpevole del nuovo reato abbia riportato due o più precedenti condanne per delitti non colposi – quali che essi siano – farebbe inevitabilmente scattare il meccanismo limitativo degli esiti del giudizio di bilanciamento tra circostanze prefigurato dall’articolo 69, quarto comma, Cp: con l’effetto di “neutralizzare” – anche quando si sia in presenza di precedenti penali remoti, non gravi e scarsamente significativi in rapporto alla natura del nuovo delitto – la diminuzione di pena connessa alle circostanze attenuanti concorrenti, indipendentemente dalla natura e dalle caratteristiche di queste ultime.

Siffatto assunto poggia peraltro, a sua volta, sul presupposto – implicito e non motivato – che, a seguito della legge n. 251 del 2005, la recidiva reiterata sia divenuta obbligatoria e non possa essere, dunque, discrezionalmente esclusa dal giudice – quantomeno agli effetti della commisurazione della pena – in correlazione alle peculiarità del caso concreto; con la conseguenza di rendere inapplicabile la censurata disciplina in tema di bilanciamento con le circostanze attenuanti concorrenti.

3.2. Quella che i rimettenti danno per scontata non rappresenta, tuttavia, l’unica lettura astrattamente possibile del vigente quadro normativo.

A sostegno della tesi della obbligatorietà, in ogni caso, della recidiva reiterata, regolata dal quarto comma dell’articolo 99 Cp (nel nuovo testo introdotto dall’articolo 4 della legge n. 251 del 2005) – così come della recidiva cosiddetta pluriaggravata, di cui al terzo comma del medesimo articolo – parrebbe militare, in effetti, prima facie, l’argomento letterale. L’avvenuta utilizzazione, in tali disposizioni, con riferimento al previsto aumento di pena, del verbo essere all’indicativo presente («è») – in luogo della voce verbale «può», che compariva nel testo precedente, e che figura tuttora nei primi due commi dello stesso articolo 99 Cp, con riferimento alla recidiva semplice e alla recidiva aggravata – indurrebbe difatti a ritenere che il legislatore abbia inteso ripristinare, rispetto alle due forme di recidiva considerate, il regime di obbligatorietà preesistente alla riforma attuata dal decreto-legge 11 aprile 1974, n. 99, convertito, con modificazioni, nella legge 7 giugno 1974, n. 220.

Nondimeno – secondo quanto osservato da più parti – la nuova formula normativa potrebbe essere letta anche nel diverso senso che l’indicativo presente «è» si riferisca, nella sua imperatività, esclusivamente alla misura dell’aumento di pena conseguente alla recidiva pluriaggravata e reiterata – aumento che, a differenza che per l’ipotesi della recidiva aggravata, di cui al secondo comma dell’articolo 99 Cp, il legislatore del 2005 ha voluto rendere fisso, anziché variabile tra un minimo e un massimo – lasciando viceversa inalterato il potere discrezionale del giudice di applicare o meno l’aumento stesso. A tale conclusione indurrebbe, segnatamente, la considerazione che la recidiva pluriaggravata e la recidiva reiterata rappresentano mere “species” della figura generale delineata dal primo comma dell’articolo 99 Cp: il che implicherebbe che la struttura della recidiva resti quella – indubbiamente facoltativa – ivi contemplata, limitandosi i commi successivi a derogare alla relativa disciplina solo in relazione all’entità degli aumenti di pena.

La soluzione interpretativa in parola risulterebbe avvalorata – ad avviso dei suoi fautori – soprattutto dal rilievo che l’unica previsione espressa di obbligatorietà della recidiva, presente nell’articolo 99 Cp, è quella racchiusa nell’attuale quinto comma; quest’ultimo – con disposizione collocata dopo la regolamentazione di tutte le forme di recidiva – stabilisce che, «se si tratta di uno dei delitti indicati all’articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale, l’aumento della pena per la recidiva è obbligatorio e, nei casi indicati al secondo comma, non può essere inferiore ad un terzo della pena da infliggere per il nuovo delitto». Da tale previsione si desumerebbe che, al di fuori delle ipotesi espressamente contemplate, il legislatore abbia inteso mantenere il carattere della facoltatività: e che, dunque – per quanto al presente più interessa – la recidiva reiterata sia divenuta obbligatoria unicamente ove concernente uno dei delitti indicati dal citato articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale, il quale reca un elenco di reati ritenuti dal legislatore, a vari fini, di particolare gravità e allarme sociale.

Avendo omesso di verificare la praticabilità di tale diversa opzione interpretativa, i giudici rimettenti non si sono posti neppure l’ulteriore problema – anch’esso rilevante, in rapporto al thema decidendum – della corretta esegesi della previsione del quinto comma dell’articolo 99 Cp, dianzi riprodotta: quello, cioè, di stabilire se – affinché divenga operante il regime di obbligatorietà della recidiva ivi prefigurato – debba rientrare nell’elenco dei gravi reati, di cui all’articolo 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen., il delitto oggetto della precedente condanna; ovvero il nuovo delitto che vale a costituire lo status di recidivo; o, piuttosto, indifferentemente l’uno o l’altro, o addirittura entrambi; soluzioni, queste, tutte alternativamente prospettate dai primi interpreti della norma, a fronte del suo dettato letterale.

3.3. Nei limiti in cui si escluda che la recidiva reiterata sia divenuta obbligatoria, è d’altro canto possibile ritenere – come rilevato, nella sostanza, anche dall’Avvocatura dello Stato – che venga meno, eo ipso, anche l’«automatismo» oggetto di censura, relativo alla predeterminazione dell’esito del giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee sulla base di una asserita presunzione assoluta di pericolosità sociale. Conformemente, infatti, ai criteri di corrente adozione in tema di recidiva facoltativa, il giudice applicherà l’aumento di pena previsto per la recidiva reiterata solo qualora ritenga il nuovo episodio delittuoso concretamente significativo – in rapporto alla natura ed al tempo di commissione dei precedenti, ed avuto riguardo ai parametri indicati dall’articolo 133 Cp – sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo.

Di conseguenza, allorché la recidiva reiterata concorra con una o più attenuanti, è possibile sostenere che il giudice debba procedere al giudizio di bilanciamento – soggetto al regime limitativo di cui all’articolo 69, quarto comma, Cp – unicamente quando, sulla base dei criteri dianzi ricordati, ritenga la recidiva reiterata effettivamente idonea ad influire, di per sé, sul trattamento sanzionatorio del fatto per cui si procede; mentre, in caso contrario, non vi sarà luogo ad alcun giudizio di comparazione: rimanendo con ciò esclusa la censurata elisione automatica delle circostanze attenuanti.

I giudici a quibus non indicano, del resto, quali argomenti si oppongano ad una simile conclusione. In particolare, essi non si chiedono se la conclusione stessa possa trovare ostacolo nell’indirizzo dominante della giurisprudenza di legittimità – formatosi anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 251 del 2005 (e peraltro avversato dalla dottrina largamente maggioritaria) – in forza del quale la facoltatività della recidiva atterrebbe unicamente all’aumento di pena, e non anche agli altri effetti penali della stessa, rispetto ai quali il giudice sarebbe comunque vincolato a ritenere esistente la circostanza; o se assuma, al contrario, rilievo dirimente – pure nella cornice di detto indirizzo – la considerazione che il giudizio di bilanciamento attiene anch’esso al momento commisurativo della pena. In effetti, qualora si ammettesse che la recidiva reiterata, da un lato, mantenga il carattere di facoltatività, ma dall’altro abbia efficacia comunque inibente in ordine all’applicazione di circostanze attenuanti concorrenti – siano esse ad effetto comune o speciale – ne deriverebbe la conseguenza, all’apparenza paradossale, di una circostanza “neutra” agli effetti della determinazione della pena (ove non indicativa di maggiore colpevolezza o pericolosità del reo), nell’ipotesi di reato non (ulteriormente) circostanziato; ma in concreto “aggravante” – eventualmente, anche in rilevante misura – nell’ipotesi di reato circostanziato in mitius. In altre parole, appare assai problematico, sul piano logico, supporre che la recidiva reiterata non operi rispetto alla pena del delitto in quanto tale e determini, invece, un sostanziale incremento di pena rispetto al delitto attenuato: profilo problematico, questo, con il quale i giudici a quibus avrebbero dovuto necessariamente misurarsi.

3.4. In tale ottica, l’eventuale esclusione dell’obbligatorietà della recidiva reiterata, nei termini precedentemente indicati, verrebbe dunque ad inficiare tanto la motivazione sulla rilevanza che quella sulla non manifesta infondatezza delle questioni, formulate dai rimettenti.

Sotto il primo profilo, vale infatti osservare che, alla stregua di quanto riferito nelle ordinanze di rimessione, tutti i giudici rimettenti – fatta eccezione per il solo Tribunale di Ravenna, in rapporto all’ordinanza r.o. n. 104 del 2006 – procedono per delitti non compresi nell’elenco dell’articolo 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen. I delitti di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti (oggetto dei giudizi a quibus in rapporto a tredici delle quindici ordinanze di rimessione) risultano difatti inclusi nel suddetto elenco solo ove ricorrano le ipotesi aggravate ai sensi degli artt. 80, comma 2, e 74 del Dpr 30990; mentre il delitto di estorsione (cui ha riguardo l’ordinanza r.o. n. 102 del 2006) vi figura solo se aggravato ai sensi dell’articolo 629, secondo comma, Cp (numeri 2 e 6 dell’articolo 407, comma 2, lettera a, cod. proc. pen.). I rimettenti che procedono per i delitti ora indicati non riferiscono, peraltro, dell’avvenuta contestazione delle predette aggravanti.

D’altro canto, tutte le ordinanze di rimessione – senza alcuna eccezione – o non indicano i delitti ai quali si riferiscono le precedenti condanne riportate dagli imputati, ovvero (come la citata ordinanza del Tribunale di Ravenna r.o. n. 104 del 2006) fanno riferimento a condanne relative a delitti non compresi nell’elencazione dell’articolo 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen.

Sotto il secondo profilo, poi – al lume di quanto dianzi indicato – sia il problema dei limiti di obbligatorietà della recidiva reiterata, sia quello della necessità o meno di effettuare comunque il giudizio di comparazione, a fronte di una recidiva facoltativa, incidono anche sulla valutazione di non manifesta infondatezza della questione formulata dai singoli rimettenti: questi ultimi – espressamente o implicitamente – si dolgono tutti del fatto che la presunzione di pericolosità, sottesa alla norma denunciata, scatti a prescindere dalla natura dei reati di cui si discute.

La stessa ordinanza del Tribunale di Ravenna r.o. n. 104 del 2006 – l’unica emessa, come detto, nell’ambito di un processo per delitti inclusi nella lista dell’articolo 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen. (in specie, rapina e violenza sessuale aggravate dall’uso di armi: numeri 2 e 7-bis della citata disposizione) – afferma, del resto, expressis verbis, che la valutazione circa la ragionevolezza della scelta legislativa di limitare i possibili esiti del giudizio di bilanciamento potrebbe essere diversa, in presenza di un divieto di prevalenza delle attenuanti limitato ai soli recidivi reiterati «condannati per reati di una certa gravità»; e ciò analogamente a quanto la medesima legge n. 251 del 2005 ha previsto con riguardo alla neointrodotta limitazione alla concessione delle attenuanti generiche, di cui all’articolo 62bis, secondo comma, Cp (limitazione, peraltro, parimenti connessa al fatto che si discuta di uno dei delitti di cui all’articolo 407, comma 2, lettera a, cod. proc. pen., sia pure con l’ulteriore condizione che la relativa pena minima risulti non inferiore a cinque anni di reclusione).

4. L’assenza di indirizzi consolidati sulle tematiche dianzi evidenziate (facoltatività o meno della “nuova” recidiva reiterata; conseguenze della facoltatività sul giudizio di bilanciamento) – assenza del tutto ovvia alla data delle ordinanze di rimessione (in quanto di poco posteriori all’entrata in vigore della novella) – è riscontrabile anche allo stato attuale, essendosi la Corte di cassazione espressa in modo contrastante nelle prime decisioni in materia. Pertanto, la mancata verifica preliminare – da parte dei giudici rimettenti, nell’esercizio dei poteri ermeneutici loro riconosciuti dalla legge – della praticabilità di una soluzione interpretativa diversa da quella posta a base dei dubbi di costituzionalità ipotizzati, e tale da determinare il possibile superamento di detti dubbi (o da renderli comunque non rilevanti nei casi di specie), comporta – in conformità alla costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, tra le ultime, ordinanze 32/ 2007; 244, 64 e 34 del 2006) – l’inammissibilità delle questioni sollevate.

PQM

La Corte Costituzionale, riuniti i giudizi,

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’articolo 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, 27, primo e terzo comma, 101, secondo comma, e 111, primo e sesto comma, della Costituzione, dai Tribunali di Ravenna, Cagliari, Livorno, Perugia e Firenze con le ordinanze indicate in epigrafe.

Cassazione Sez.Prima :SENTENZA N. 24667 UD.15/06/2007 - DEPOSITO DEL 21/06/2007

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SENTENZA N. 24667 UD.15/06/2007 - DEPOSITO DEL 21/06/2007

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IMPUGNAZIONI – RICORSO PER CASSAZIONE – VIZIO DI MOTIVAZIONE – TRAVISAMENTO DELLA PROVA- FATTISPECIE
Il vizio di motivazione del travisamento della prova, che si ha nei casi di palese divergenza del risultato probatorio rispetto all’elemento di prova esistente in atti, sempre che la prova sia rilevante e decisiva, non è soggetto, dopo la novella dell’art. 606, comma 1, lett. e) c.p.p. ad opera della l. n. 46 del 2006, al limite di rilevabilità testuale, potendo essere denunciato anche con il riferimento a specifici atti puntualmente indicati dal ricorrente, per fare emergere l’incontrovertibile distorsione del significante, e non anche del significato, dell’elemento probatorio. La Corte ha così annullato con rinvio la sentenza conclusiva di un giudizio di revisione, motivata con il richiamo alle conclusioni di una perizia grafica, dopo avere rilevato dalla lettura della perizia che l’attribuzione all’imputato della sottoscrizione del verbale non era affermata in termini di certezza, come attestato in sentenza, ma in termini di mera possibilità.
Testo Completo:

Sentenza n. 24667 del 15 giugno 2007 depositata il 21 giugno 2007

(Sezione Prima Penale, Presidente e Relatore G. Canzio)

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Congresso di Catania, 1996: La tutela dell'individuo nella società tecnologica e di fronte allo Stato tecnocratico.

Pubblichiamo la relazione dell'On. Pecorella, allora Presidente dell'Unione delle Camere penali, in occasione del Congresso dell'UCPI, svoltosi a Catania nei giorni 25-27 ottobre 1996. Tra i temi trattati , va segnalato, per l'interesse che riveste in questa sede, quello relativo alla formazione dell'avvocato penalista, con la previsione di Centri di formazione professionale, organizzati dalle Camere penali territoriali.

La tutela dell'individuo nella società tecnologica e di fronte allo Stato tecnocratico

da Cass. pen. 1997, 1, 295

Gaetano Pecorella

Presidente dell'Unione delle Camere Penali
L'Unione delle Camere Penali ha un patrimonio politico e culturale che si è venuto formando attraverso l'intenso dibattito che ha sempre caratterizzato il Direttivo e la Consulta dei presidenti, nonché, parallelamente, con il contributo di tutte le Camere Penali: tra i valori che sono stati posti al centro del nostro impegno, vi sono stati, costantemente, la libertà personale, il diritto di difesa, il diritto alla prova, l'indipendenza del giudice, la sua supremazia rispetto al pubblico ministero (anche e soprattutto attraverso la separazione delle carriere), l'autonomia e la lealtà dell'avvocatura italiana (che hanno costituito la ragione ed il fondamento dell'autoregolamentazione dell'astensione dalle udienze e del codice deontologico). Un programma per il futuro, perciò, non può certo rappresentare una svolta radicale rispetto a ciò che si è proposta l'Unione nel corso di questi anni, soprattutto a partire dal congresso di Bari: la lunga stagione delle battaglie per il processo «giusto», condotte da Gustavo Pansini, da Frino Restivo e da Vittorio Chiusano, non può certo dirsi conclusa, sia perché i risultati, che pur vi sono stati, non hanno consentito di recuperare le garanzie del cittadino nel processo penale, sia perché le tentazioni di sopraffazione da parte di certi settori della magistratura sono tutt'altro che sopite. Si può dire che le proteste dell'avvocatura contro i decreti dell'emergenza, contro lo sfascio della giustizia, contro le forze reazionarie che hanno tentato di opporsi al rinnovamento (basterebbe ricordare il documento dei duecento pubblici ministeri), hanno ottenuto più l'effetto di impedire il peggioramento delle cose, che non quello di un reale e significativo miglioramento. Per questo è necessario continuare ed anzi intensificare i nostri interventi sui temi della giustizia, sia nei confronti del potere politico che nei confronti del potere giudiziario.
2. L'espressione «potere giudiziario» non è stata usata a caso: è questa una delle più gravi distorsioni che ha subito il nostro sistema costituzionale: la magistratura, che avrebbe dovuto essere «un ordine», si è trasformata in un vero e proprio centro di potere che è sempre presente sul terreno della politica, che si contrappone al Parlamento, cercando di condizionarne la funzione legislativa, e che, talora, riesce perfino ad influenzare gli orientamenti elettorali con indagini che vengono opportunatamente cadenzate. Questo fenomeno, già presente nella cosiddetta supplenza, si è andato manifestando in forme sempre più gravi negli ultimi anni con l'avvento dei processi cosiddetti di «mani pulite» e con il ruolo dominante del pubblico ministero nel processo e fuori del processo. Perché la magistratura torni a svolgere il suo ruolo istituzionale è necessario che la politica rioccupi le funzioni che le sono proprie, e cioè quelle di creare le condizioni sociali per il contenimento della criminalità e per combatterla con gli strumenti della difesa sociale, di fare leggi che riportino il processo alla sua natura di mezzo per l'accertamento delle responsabilità, di intervenire sulle deviazioni sempre più frequenti di alcuni magistrati, di dare ai giudici gli strumenti indispensabili per svolgere il loro lavoro. È necessario anche che l'avvocatura penale sappia organizzarsi in forme sempre più unitarie e compatte, così da essere coscienza garantista del Paese, assieme a tutti coloro, politici, magistrati, uomini di cultura che sono disposti a schierarsi sulle stesse posizioni.
3. Ma un altro pericolo si aggira nel mondo della giustizia: ed è la crescita incontrollata di una società tecnologica e di uno Stato tecnocratico per i quali i valori individuali non hanno una significativa importanza, posto che metro di misura di ciò che va salvato, rispetto a ciò che va sacrificato, non è nient'altro che il risultato che si riesce a conseguire. Perciò la società tecnologica e lo Stato tecnocratico, anche al di là degli specifici caratteri della giustizia in Italia, di cui sopra si è detto, costituiscono la fonte di vecchi e nuovi pericoli per le libertà e le garanzie dell'individuo. Lo dimostra proprio la concezione che si è venuta affermando del processo penale, la cui validità viene commisurata non più sulla base delle regole che lo caratterizzano, e cioè sul come si arriva alla decisione, bensì tenendo presente il risultato in termini di effetti sugli assetti di potere e sulla società.
L'avvocatura ha ben presente che vi sono due modi contrapposti di intendere il processo penale: chi pensa al processo penale come strumento di lotta alla criminalità, come una spada che colpisce ora questo ora quello, o addirittura settori della vita economica, finanziaria o politica, si riferisce al processo come strumento di oppressione, che talora può anche servire a qualche risultato utile (in termini di ordine pubblico), ma che lascia dietro di sé profonde ingiustizie, sofferenze e talora persino la morte di qualcuno; chi pensa al processo come a un complesso di regole che tendono ad accertare le responsabilità individuali nel rispetto dei diritti individuali, tra i quali in primo luogo la presunzione di innocenza, si ispira, viceversa, a un modello caro alla nostra cultura illuministica e razionale, quello del processo comestrumento di libertà. L'Unione delle Camere Penali è su questo fronte decisa a difendere questo modello di processo penale in tutte le sue prerogative.
Due diritti sono comunque inalienabili, anche di fronte alla differenziazione delle tipologie dei processi in relazione alla loro complessità o alla gravità dei reati: ci si riferisce a quelle garanzie che non possono differenziarsi a seconda del tipo di reati per cui si procede, e cioè il diritto di difesa e la presunzione di innocenza. Si assiste ormai da tempo in Italia ad una singolare inversione del rapporto tra garanzie e gravità dei reati, motivo per cui quanto più il reato per cui si procede è grave, tanto meno all'imputato sono riconosciute le garanzie più elementari. Si può richiamare, come esempio emblematico, la formazione della prova nei procedimenti di criminalità organizzata, nei quali ormai, dopo la sentenza della Corte costituzionale, tutto si consuma nelle stanze della procura della Repubblica, attraverso l'esame dei collaboranti: la «prova», quindi, viene riversata al giudice del dibattimento, che non di rado si limita a trascriverla nella sua sentenza.
È questa una delle storture del processo attuale, nei confronti della quale ci si deve particolarmente impegnare perché si torni alla formazione della prova in contraddittorio, pubblicamente e davanti al giudice che dovrà emettere la sentenza. Per arrivare a ciò vi sono più strade che chiediamo al Parlamento di percorrere al più presto e come prova di una vera volontà di cambiamento della giustizia.
Anzitutto è necessario che gli eventuali premi ai collaboranti siano subordinati alla condizione che essi si siano sottoposti all'esame e al controesame in sede dibattimentale: la protezione potrà anche scattare al loro cenno di voler collaborare, ma nessun trattamento di favore dovrà essere loro concesso se non alla luce di un loro effettivo contributo, offerto non già al pubblico ministero, bensì al giudice e più in generale al processo.
Sarà lecito anche reintrodurre la non utilizzabilità in dibattimento delle dichiarazioni rese al pubblico ministero, allorché il collaborante, imputato in procedimento connesso, si astenga dal rispondere nel dibattimento. Non si dica che ciò contrasterebbe con la sentenza della Corte costituzionale e che pertanto non è possibile una riforma in questa direzione. La Corte costituzionale, nel rendere utilizzabili le dichiarazioni rese in un procedimento connesso, si è basata sull'art. 3 della Costituzione, ritenendo che, per il principio di uguaglianza, così come sono utilizzabili le dichiarazioni rese da un imputato nello stesso procedimento, se si rifiuta di rispondere nel dibattimento, non sussisterebbe alcuna ragione per escludere la stessa utilizzabilità per le dichiarazioni rese nel corso delle indagini da un imputato in un procedimento connesso. È, tuttavia, il punto di partenza che è affetto da incostituzionalità: e cioè la utilizzabilità comunque di dichiarazioni rese al pubblico ministero, da imputato nello stesso o in altro procedimento, senza che le parti abbiano potuto sottoporre il teste dell'accusa al controinterrogatorio. Ciò contrasta tanto con il diritto di difesa di cui all'art. 24 della Costituzione che con l'art. 6 della Convenzione europea di tutela dei diritti dell'uomo, secondo cui ogni accusato ha diritto a interrogare o far interrogare i testimoni a carico.
Perciò la riforma che l'Unione porterà in sede politica è nel senso di escludere l'utilizzabilità delle dichiarazioni rese dai collaboranti, per le parti che contengono accuse nei confronti di terzi, se egli non si sottoporrà al vaglio dibattimentale: sia che sia imputato nello stesso procedimento, sia che sia imputato in un procedimento connesso.
4. In uno Stato tecnocratico, e per di più con una straordinaria invadenza del potere giudiziario, non poteva non accadere che il ruolo dell'avvocato penalista venisse sempre più compresso all'interno del processo penale e che la sua stessa persona fosse aggredita direttamente da talune procure della Repubblica. Ci si riferisce all'utilizzazione di pentiti, le cui dichiarazioni, quasi sempre non controllate, portano alla incriminazione di avvocati penalisti; ovvero a improvvide iniziative di taluni pubblici ministeri, che appaiono più mirate a denigrare l'immagine pubblica di un difensore che non all'accertamento dei reati; o, infine, alla lesione della riservatezza tra difensore e assistito, ricorrendo a incivili forme di spionaggio così minando alla base la stessa possibilità di esercitare la professione forense.
Non ci si può nascondere che talune difficoltà per la nostra categoria dipendono anche dalla insufficiente selezione nell'accesso alla professione, nonché da taluni ritardi culturali e da eccessi di individualismo che hanno ostacolato la formazione di una vera unità tra tutti i penalisti: come si vedrà, tutto ciò è rimediabile e rientra nei programmi che l'Unione dovrà realizzare nel suo futuro.
Meno agevole riesce il compito di contrastare gli attacchi che vengono dall'esterno, ed in particolare dai pubblici ministeri, per affievolire le funzioni difensive dell'avvocato. Anzitutto, come si è accennato, la paralisi dell'accertamento dibattimentale con riguardo ai collaboratori, rende del tutto inutile la presenza del difensore, che è mero testimone di pietra del rapporto tra collaborante, pubblico ministero e giudice. La mancanza di un effettivo contributo nel processo, espone il difensore a possibili ricatti da parte delle organizzazioni criminali che, considerandolo inutile come professionista, cercano di utilizzarlo per scopi d'altra natura. Vi sono sedi giudiziarie in cui, grazie alla cecità del legislatore, l'avvocatura si trova continuamente esposta o al rischio di essere contestata, anche violentemente, dai propri assistiti, ovvero al pericolo di trovarsi indagata dalla procura della Repubblica.
5. L'estraneazione del difensore dal processo passa poi attraverso tutta la strumentazione che si collega ai maxi-processi: è pressoché impossibile per chiunque partecipare alla sequenza delle innumerevoli udienze, sia per la coincidenza con altri impegni, sia perché per anni ci si dovrebbe occupare di un unico dibattimento. Ciò comporta una disparità di fatto con il pubblico ministero che non soltanto ha condotto le indagini, e dunque le conosce nel loro divenire, ma è anche permanentemente in udienza.
Si deve aggiungere, poi, che non di rado gli atti raccolti inizialmente in una sola indagine vengono dispersi in più processi senza che i difensori ne possano avere conoscenza: talché le dichiarazioni di un collaborante possono essere selezionate a seconda della loro rilevanza nei singoli dibattimenti.
Ancora: sia l'audizione dei collaboranti nelle più lontane sedi, rispetto al luogo del processo, sia l'uso di videoconferenze, che provocano la perdita del contatto fisico con il «testimone», sono ulteriori elementi di appiattimento della funzione del difensore nei processi con numerosi imputati.
L'Unione delle Camere penali dovrà porsi l'obiettivo di una drastica riduzione dei casi di connessione così da tornare al processo con un limitato numero di imputati.
6. Una ulteriore ragione delle difficoltà in cui si muove il difensore nel processo penale discende dall'eccesso di regole che si sono venute sovrapponendo allo schema delineato dal codice del 1988: eccesso di regole che in realtà ha determinato la mancanza di regole univoche e la vocazione della magistratura a scegliersi quelle regole che si rivelino come l'ostacolo meno ingombrante per l'esercizio dei suoi poteri. È allora necessario recuperare un modello di processo penale che sia sì caratterizzato da poche regole, ma nel quale tutto discenda dal principio secondo cui non può aversi prova senza contraddittorio: al centro del processo dovrà porsi nuovamente il giudice, anche nel corso delle indagini, sia nell'ipotesi in cui si raccolga una prova, o ciò che potrà diventare prova in dibattimento, sia quando siano in gioco i diritti dell'individuo.
Vi è un profondo legame tra la funzione difensiva ed il giudice, per l'ovvia ragione che la difesa svolge un ruolo se vi è una vera dialettica con l'accusa; ed una vera dialettica può aversi soltanto se un terzo, al di sopra delle parti, da loro equidistante, è chiamato a stabilire il torto e la ragione. Ciò non accade oggi nelle indagini preliminari, perché il pubblico ministero conduce la sua inchiesta al di fuori di ogni controllo, talora per anni, e poi riversa sul giudice migliaia di carte che egli potrà appena scorrere data l'urgenza delle decisioni che gli sono chieste, soprattutto in materia di libertà personale. Si è arrivati così a un g.i.p. che, per scrivere le ordinanze di custodia cautelare, talora utilizza il «dischetto» con le richieste del p.m. scordandosi persino di effettuare le correzioni formali.
D'altra parte, e correlativamente, il difensore non è in grado di contrastare le richieste del pubblico ministero, nonostante la riforma dell'agosto del 1995, perché nulla sa di ciò che sta accadendo nei confronti del suo assistito. La realtà, dunque, è quella di un giudice che non controlla e non decide (e perciò non è un giudice) e di un difensore che non può sostenere le ragioni della parte da lui assistita (e perciò non è un difensore).
L'Unione dovrà impegnarsi perché questa situazione abnorme venga meno. Il g.i.p., da mero «esecutore», delle scelte del pubblico ministero, dovrà diventare il suo permanente controllore, nel senso che egli non potrà compiere attività di indagine (se non su richiesta e nel contraddittorio delle parti), ma dovrà essere informato dal p.m. dello sviluppo delle indagini.
Per altro verso, dovrà istituirsi presso l'ufficio del g.i.p. un fascicolo della difesa nel quale potranno confluire gli atti prodotti dal difensore, così che, in caso di una decisione da parte del g.i.p. quest'ultimo potrà e dovrà tenere conto degli elementi di prova raccolti nelle indagini difensive.
7. Riforme di tal fatta, tuttavia, non avrebbero alcuna incidenza se non mutasse l'attuale stato delle cose: la figura ordinamentale del pubblico ministero, contigua a quella del giudice, altera, infatti, i ruoli dei soggetti del processo. Un giudice che si identifichi con l'accusa tenderà sempre a considerare l'imputato come una controparte; d'altronde, finché il pubblico ministero avrà le caratteristiche di un giudice, egli sarà legittimato a compiere tutte le attività che sono proprie di un giudice. È tanto vero ciò che il processo penale accusatorio, come lo avrebbe voluto il codice del 1988, è naufragato proprio perché la Corte costituzionale, coerentemente con la collocazione istituzionale del pubblico ministero, ha riconosciuto a quest'ultimo la potestà di formare la prova.
Bisogna capovolgere la logica in cui ci si è mossi sin ora - ed in cui sembra muoversi il Ministro - se si vuole far sì che il difensore non sia più l'ombra di se stesso: il nodo da sciogliere non riguarda le norme del codice di procedura penale, bensì le norme dell'ordinamento giudiziario. La parità tra accusa e difesa potrà aversi soltanto se il pubblico ministero avrà una collocazione all'interno degli apparati dello Stato del tutto distinta da quella del giudice: pubblici ministeri e giudici continueranno a far parte, entrambi, dell'ordine giudiziario, ma dovranno collocarsi in àmbiti del tutto separati, con la conseguenza che il passaggio dall'una all'altra funzione non potrà avvenire se non per il tramite di concorsi che abbiano le stesse caratteristiche di quelli previsti per chi acceda dall'esterno all'una o all'altra funzione. Si avrà così una separazione delle carriere senza che sussista il rischio che il pubblico ministero possa cadere sotto l'influenza dell'esecutivo.
Anche il C.S.M. dovrà riflettere questa separatezza contenendo al suo interno due sezioni, quella dei giudici e quella dei pubblici ministeri. Si eviterà così che la maggioranza dell'una o dell'altra componente possa far sentire il suo peso in sede disciplinare così potendo condizionare il comportamento di singoli magistrati nelle loro diverse funzioni.
Problema delicato, comunque, è quello delle maggioranze e minoranze all'interno del C.S.M., sia com'è strutturato ora, sia come potrebbe esserlo in un futuro: intervenendo in questioni che coinvolgano scelte di potere, in particolare per l'assetto degli uffici direttivi, il C.S.M., è talora più attento agli effetti «politici» delle sue decisioni che non alla efficienza del servizio. Per questo bisogna adottare un sistema elettorale che elimini i contenuti ideologici come elemento caratterizzante i gruppi che partecipano alla competizione a sostegno di questo o quel candidato.
La separazione delle carriere, a cui consegue una diversa struttura del C.S.M., dovrà restare anche per il futuro l'impegno primario dell'Unione Camere Penali, senza tentennamenti, senza compromessi e senza affidamenti di credibilità a soluzioni che sembrino cambiare tutto, in realtà per non cambiare nulla.
8. L'avvocato - come si è detto è schiacciato non soltanto dal gigantismo del pubblico ministero: egli sempre di più è oggetto di aggressioni dirette da parte del rappresentante dell'accusa. Sono ricorrenti nei verbali dei c.d. pentiti le domande del pubblico ministero sugli avvocati difensori per conoscere le modalità con cui l'avvocato ha esercitato il suo mandato e per trovare un qualche appiglio per incriminare il difensore: di rimando il collaborante non si sottrae certo alle aspettative del pubblico ministero ben sapendo che gli elementi da lui forniti a carico di agguerriti avversari dell'accusa non potranno non essere ben ricompensati.
9. La questione, naturalmente, va oltre il tema della tutela della libertà dell'avvocatura, investendo il valore probatorio delle dichiarazioni dei collaboranti. I guasti maggiori, in questo campo, vengono da quella interpretazione dell'art. 192 c.p.p., secondo la quale due dichiarazioni di pentiti che siano tra loro convergenti, costituiscono piena prova. È noto, però, che le notizie si diffondono nelle carceri con estrema rapidità e che in particolare i collaboranti possono avere contatti tra di loro tanto diretti che attraverso altre persone.
È urgente, perciò, una riforma dell'art. 192 c.p.p.: dovrà chiarirsi che «gli altri elementi di prova», atti a confermare l'attendibilità delle dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso, debbono avere natura diversa dalla chiamata di correo, e dunque debbono essere riscontri obiettivi o testimoniali.
10. Gli studi degli avvocati, che godevano un tempo del rispetto dei giudici, sono oggi bersaglio di perquisizioni, ispezioni, invasioni da parte della polizia giudiziaria. Ma ciò che soprattutto va denunciato con la massima fermezza è la violazione della riservatezza dei colloqui tra il difensore e il suo assistito. Con intercettazioni telefoniche, mettendo «cimici» nei luoghi dove avvengono i colloqui tra l'avvocato e il suo cliente, persino all'interno delle «gabbie» in tribunale (com'è avvenuto a Napoli), con i mezzi più sofisticati, si cerca di penetrare nel segreto professionale, che è la base e l'essenza stessa del rapporto fiduciario. Senza riservatezza non è concepibile l'esercizio del diritto di difesa. Ma si è andati ben oltre. I risultati delle intercettazioni tra avvocato e assistito sono state diffuse per il tramite della stampa e talora sono state utilizzate come elemento di prova nelle ordinanze applicative della custodia cautelare. Eppure la normativa vigente prevede che non si possano effettuare intercettazioni tra difensore ed assistito e che, ove tali intercettazioni siano state fatte, le stesse debbano essere distrutte.
Sarà bene, dunque, che l'avvocatura tenga in maggiore considerazione la disposizione del codice di procedura penale secondo cui la violazione di norme processuali dà sempre luogo ad un illecito disciplinare, e che, pertanto, non si sottragga al dovere di richiedere al Ministro l'azione disciplinare ogni volta in cui ne ricorrano gli estremi: soprattutto in questa materia che tocca direttamente il diritto di difesa.
Bene sarebbe, in ogni caso, che si introducesse una sanzione penale nei confronti dei pubblici ufficiali (compresi giudici e pubblici ministeri), che violino il diritto alla riservatezza che spetta all'avvocato nei rapporti con il suo assistito, ovvero che diffondano o utilizzino, in qualunque forma, le notizie acquisite in violazione di tale diritto.
11. Gli avvocati penalisti, per far fronte a tale situazione, debbono sapersi attrezzare con forme di organizzazione degli studi assai più moderne di quelle attuali. Soprattutto nelle grandi città è necessario che si realizzi la concentrazione di più avvocati in un'unica struttura, secondo i modelli di società più avanzate, così da potersi avere livelli più alti di specializzazione nei diversi settori del diritto penale, ed altresì con la finalità di contenere le spese, per di più con attrezzature più efficienti. La stessa praticabilità delle indagini difensive richiede che tendenzialmente si possa distinguere tra chi sosterrà la difesa in udienza e chi si dedicherà alla ricerca ed alla acquisizione degli elementi di prova.
Ci si rende conto che, allo stato, tali indicazioni possono apparire troppo avveniristiche, soprattutto in presenza di una avvocatura che, in non pochi casi, si trova al limite della disoccupazione. Senonché, sin da ora è possibile impegnarsi per elevare il livello dei difensori nel processo penale, costituendo i Centri di formazione professionale.
Per chi si dedica esclusivamente a processi afferenti questioni di carattere penale, è facile osservare come vi sia, fra coloro che si dedicano a tale settore solo saltuariamente, un livello di preparazione eccezionalmente modesto. Il problema è particolarmente evidente nelle difese d'ufficio ove si può assistere a interventi defensionali al di sotto del minimo etico.
Come è noto il livello di preparazione teorica e soprattutto pratica che offre l'università è del tutto inadeguato per affrontare la professione e se non si ha la opportunità di frequentare lo studio di un penalista è assai difficile riuscire a raggiungere dei livelli che garantiscano al cittadino una difesa accettabile. La mancanza di una specializzazione effettiva, come ad esempio in medicina, prevista normativamente, di cui si discute ormai da anni, non consente in realtà ai cittadini di essere efficacemente tutelati.
Senza voler affrontare i conosciutissimi problemi che tutti gli operatori del diritto vivono quotidianamente, appare necessario che l'Unione delle Camere Penali in questo delicato momento storico, politico e culturale del Paese, intervenga per offrire al cittadino la certezza e la garanzia che il difensore al quale si rivolgerà o che gli sarà nominato d'ufficio, e che avrà il compito di tutelare il suo onore e la sua libertà, abbia una preparazione più che adeguata. Si avverte l'esigenza perciò, di dar vita a dei corsi di specializzazione.
Ci proponiamo, dunque, di creare dei centri di formazione distrettuali che avvieranno dei corsi di durata biennale ai quali potranno accedere i praticanti procuratori (anche se non iscritti alle locali Camere Penali). Tali centri saranno gestiti da avvocati di quel distretto, nominati al Centro di coordinamento, previo concerto con le locali Camere Penali, in un numero proporzionale agli iscritti al Consiglio dell'Ordine del luogo.
Ogni Camera Penale farà pervenire un elenco di coloro i quali ritiene idonei a ricoprire tale incarico, in un numero doppio rispetto al fabbisogno. Il centro di coordinamento nazionale dovrà individuare i componenti obbligatoriamente in questi elenchi.
Il corso sarà suddiviso in varie materie sostanziali e procedurali e dovranno essere tenute lezioni nell'arco del biennio per un totale di almeno duecento ore, privilegiando in particolare le problematiche di tipo pratico-attuativo. Le materie in cui si dovrà estrinsecare il corso saranno identiche per tutti i distretti e saranno indicate dal Centro di coordinamento nazionale. Esse saranno le seguenti:

1) La figura del difensore in generale. La difesa d'ufficio e gratuito patrocinio. La ricerca delle prove. La deontologia professionale.
2) La persona offesa, la parte civile e il responsabile civile.
3) Le misure cautelari.
4) I termini e le notificazioni.
5) L'archiviazione e l'udienza preliminare.
6) La nullità e l'inutilizzabilità.
7) Competenza, riunione, separazione, incompatibilità, astensione e ricusazione.
8) I mezzi di prova in generale.
9) Il dibattimento.
10) Tecnica dell'esame.
11) L'arringa.
12) L'esecuzione. Le misure alternative. L'ordinamento penitenziario.
13) Profili di diritto penale. In particolare l'elemento psicologico nel reato, le circostanze, le scriminanti, il tentativo, la prescrizione, l'oblazione e le misure di sicurezza.
14) Profili di parte speciale penale. Si dovranno evidenziare i reati che più comunemente ricorrano nella pratica.
15) Leggi penali speciali. Si dovranno evidenziare le leggi che più frequentemente trovano applicazione fra le quali sono da ricordare quelle in tema di inquinamento, di edilizia, di ambiente, di infortunistica, di armi e di stupefacenti.

Terminato il biennio, la Commissione distrettuale valuterà l'idoneità del partecipante e rilascerà attestazione in tal senso.
12. Uno dei nodi da sciogliere dell'attuale processo penale concerne l'utilizzazione dei collaboranti e la predisposizione di idonee garanzie per evitare che gli stessi introducano nel processo elementi di falsità per le più diverse ragioni: un pericolo incombe sulla giustizia italiana ed è quello di una massa di pentiti che possono manovrare giudici e procure della Repubblica per compiere vendette personali, per continuare ad aiutare le cosche di cui fanno parte, eventualmente contro altre associazioni criminali, per colpire avvocati, uomini politici o magistrati. Siamo in presenza di evidenti conflitti interni alla magistratura dei quali ben potrebbero approfittare i collaboranti decidendo essi chi dovrà ricoprire i posti direttivi ovvero essere costretto a lasciare le sue funzioni.
È allora necessario, anzitutto, che i collaboranti siano sottratti alla influenza, consapevole o inconsapevole, da parte degli inquirenti che hanno i primi contatti con loro. Vanno eliminati i colloqui investigativi: il pentito può ben comunicare al magistrato, sin dall'inizio, il contenuto delle sue conoscenze, secondo forme rituali, con la verbalizzazione e la presenza del difensore.
Se si avverte la necessità di soggetti che intervengano, allorché un imputato intenda collaborare, per valutare la genuinità del suo atteggiamento, nonché per sottoporlo alla protezione in carcere, potrà farsi ricorso a corpi specializzati delle guardie carcerarie, anziché alla polizia giudiziaria, che è troppo coinvolta nelle indagini e che, anche involontariamente, potrebbe fornire notizie che il collaborante saprebbe ben sfruttare nel proprio interesse, imbastendo un racconto più ricco di informazioni e, quindi, meglio remunerato.
Posizione di grande responsabilità, rispetto alla genuinità delle dichiarazioni, ha il difensore del collaborante: perciò, costituisce un errore lasciare a pochi avvocati, spesso scelti dai pubblici ministeri, il compito di difendere i cosiddetti pentiti, quasi che di ciò non si dovesse far carico l'intera categoria. Il difensore del collaborante, se saprà differenziarsi dall'accusatore pubblico, può farsi carico della selezione tra i fatti che il suo assistito conosce direttamente e quelli che suppone ovvero sono giunti alle sue orecchie: può altresì intervenire per evitare le domande suggestive nel corso degli esami ovvero per assicurare la più assoluta fedeltà delle verbalizzazioni.
Peraltro, la limitatezza del numero di avvocati disposti ad assumere questo tipo di difesa ha fatto sì che gli incarichi si siano concentrati solo su alcuni difensori che si trovano ad assistere contemporaneamente numerosissimi «pentiti». È quasi inevitabile che, in questa situazione, essi possano diventare un punto di raccordo tra le varie collaborazioni, anche perché il loro scopo, in presenza di una sorta di specializzazione, può diventare soltanto quello di ottenere per il proprio cliente il massimo del premio.
Con una maggiore disponibilità dell'avvocatura ad assumere questa difesa potrà arrivarsi a due importanti risultati: il primo è quello di escludere che i collaboranti siano assistiti, sotto le mentite spoglie di difensori d'ufficio, da difensori di fiducia pagati dallo Stato; il secondo è quello di introdurre la regola per cui un avvocato non può assistere più collaboranti all'interno della stessa inchiesta o comunque all'interno di inchieste tra loro collegate.

13. Perché sia garantita una difesa per tutti è necessario che possa instaurarsi un rapporto effettivo tra difensore d'ufficio e imputato, del tutto identico a quello che esiste con il difensore di fiducia.
In prospettiva si potrebbe pensare alla istituzione dell'Ufficio del difensore pubblico che provveda sia alla assegnazione del difensore ai singoli imputati, sia alla remunerazione dei difensori stessi attraverso il prelievo di somme anticipate dallo Stato e da questo recuperate, in caso di condanna dell'imputato, con lo stesso procedimento di recupero delle spese di giustizia (tramite l'ufficio del campione penale).
Senonché, una tale soluzione sembra allo stato prematura, posto che si profila il rischio di una possibile gestione di tali uffici da parte delle autorità amministrative, con la selezione di coloro che possono parteciparvi, ovvero da parte dei Consigli dell'ordine che non sono attrezzati per il controllo di strutture che sarebbero alquanto complesse.
Meglio, per il momento, è restare all'attuale figura del difensore d'ufficio, con tutte quelle variazioni che ne possono consentire l'effettivo funzionamento. Anzitutto, sul piano fiduciario, bisogna che si riconosca al difensore il diritto di rifiutare o di rinunciare all'incarico. Sotto il profilo della efficienza dell'istituto si può formulare una proposta che si articoli in tre momenti: il primo è diretto ad informare l'indagato-imputato sui diritti-doveri in ordine alla difesa, il secondo concerne la regolamentazione del compenso da liquidare in favore del difensore d'ufficio, il terzo la formazione professionale del difensore d'ufficio.
A) Comunicazione di nomina di difensore. In ordine al primo punto è fondamentale prevedere uno specifico atto (così come oggi accade, ad esempio, per l'elezione di domicilio) che si potrebbe definire «comunicazione di nomina del difensore». Con questo atto l'indagato dovrà essere informato che:

1) nel procedimento penale è obbligatorio l'intervento difensivo di un legale a garanzia dell'indagato stesso;
2) l'indagato è perciò invitato a nominare un difensore di sua fiducia secondo le modalità che gli vengono indicate;
3) se tale nomina non avverrà gli verrà assegnato un difensore d'ufficio, di cui si indica il nominativo, precisando che l'ordinamento processuale penale rende obbligatoria la difesa tecnica;
4) il difensore d'ufficio così come il difensore di fiducia debbono essere retribuiti dall'interessato;
5) se il difensore d'ufficio non sarà retribuito spontaneamente dall'indagato, lo Stato anticiperà gli onorari al legale, salvo procedere alla ripetizione dall'interessato con aggravio delle ulteriori spese.

Dovrebbero così chiarirsi gli equivoci che oggi circondano la figura del difensore d'ufficio, considerato da molti l'avvocato dello Stato, intendendo d'ufficio come «retribuito dall'ufficio». Inoltre si porterebbe l'attenzione sul fatto che il diritto alla difesa è per il nostro ordinamento indisponibile e irrinunciabile.
B) Liquidazione degli onorari in favore del difensore d'ufficio. Il difensore d'ufficio, terminata la fase procedimentale in corso, si rivolgerà al Consiglio dell'Ordine per ottenere la liquidazione della proposta di parcella, che egli compilerà seguendo il tariffario professionale. Il difensore d'ufficio, quindi, invierà la parcella liquidata dal Consiglio dell'Ordine all'assistito, allegando la richiesta di pagamento.
Se l'assistito non provvederà al pagamento, sarà lo stesso Consiglio ad anticipare gli onorari al legale; quindi trasmetterà gli atti alla pubblica amministrazione perché proceda alla riscossione forzata della somma a carico del cittadino.
Un tale meccanismo dovrebbe determinare un più costruttivo rapporto tra il difensore d'ufficio e il suo assistito; quest'ultimo, avendolo conservato come difensore e sapendo di doverlo retribuire, infatti sarà portato ad avere un atteggiamento di collaborazione nella difesa.
L'impegno di spesa per lo Stato dovrebbe essere minimo dal momento che le spese anticipate ai difensori dovrebbero essere recuperate dagli imputati. È ben vero che anche il legale potrebbe promuovere una procedura di esecuzione forzata, ma tutti conosciamo le difficoltà in cui si incagliano le procedure esecutive, così come conosciamo l'efficacia delle pubbliche esattorie.
Per l'anticipazione degli onorari al difensore d'ufficio, dovrebbe essere costituito un fondo a carico dello Stato per almeno il 70% della somma messa a disposizione; il restante 30% dovrebbe essere a carico dei Consigli dell'Ordine in proporzione al numero degli iscritti e dei difensori d'ufficio iscritti a quel Consiglio. Il fondo dovrebbe essere amministrato dal Consiglio, che si farebbe carico in concreto di anticipare gli onorari al difensore, oltre che di liquidare le parcelle e sollecitarne il pagamento.
C) Formazione professionale. Dovrebbero essere ammessi alle difese d'ufficio soltanto coloro che abbiano seguito i corsi di preparazione professionale di cui già si è detto.
14. Le forze politiche, a questi ed altri mali che affliggono la giustizia, non hanno saputo dare una risposta né tempestiva, né esauriente. I tempi della giustizia sono divenuti intollerabili, con l'effetto di danneggiare proprio le vittime innocenti, siano essi imputati ingiustamente accusati, ovvero parti lese che attendono la punizione dei colpevoli ed il ristoro dei danni subiti.
La disputa sull'amnistia, da farsi o meno, sta diventando meramente accademica, visto che i reati si avviano alla prescrizione senza che si abbia una sentenza, sia pure tardiva, ma quanto meno riparatrice. Ciò dipende in primo luogo dalla carenza di personale, e non soltanto per ciò che concerne il numero dei magistrati in servizio. Anzi, può ritenersi che il loro numero sia tra i più alti d'Europa, ma la loro scarsa produttività è collegata sia alla cattiva distribuzione sul territorio delle forze disponibili, sia alla mancanza di criteri uniformi in ordine agli orari di lavoro. Non si vede perché non sia previsto, come per tutti, l'obbligatoria presenza negli uffici per tutto il corso della giornata e la fissazione delle udienze, come regola, e non casualmente (come accade ora), tanto per la mattina che per il pomeriggio.
Anche la presenza del personale ausiliario soltanto nelle ore antimeridiane non risponde a criteri di efficienza e di piena produttività: un siffatto sistema è a scapito del buon funzionamento della giustizia e per di più incentiva il doppio lavoro, che ha sempre effetti negativi sull'economia di un Paese.
Ma anche all'interno degli uffici i magistrati sono mal distribuiti, perché le procure della Repubblica sono quasi sempre ben attrezzate, mentre insufficienti sono i g.i.p. ed i giudici del dibattimento, con l'effetto di trasferire il momento più significativo del processo nella fase delle indagini, anziché in quella del giudizio. Le procure allestiscono procedimenti che i giudici non sono in condizione di definire, cosicché l'incriminazione tende a sostituirsi, nelle convinzioni più diffuse, alla sentenza del giudice.
Peraltro, vi sono sedi disagiate che sembra siano state abbandonate al loro destino, quasi che vi fossero tribunali di prima e di seconda categoria. È esemplare il caso del Tribunale di Catanzaro, il cui presidente ha sospeso tutti i processi senza detenuti, per l'impossibilità di celebrarli. Da anni il Tribunale di S. Maria Capua Vetere attende che siano integrati i ruoli e che sia aumentato il numero dell'organico; con una criminalità a livello di Palermo, non tutti i posti sono coperti, e quand'anche lo fossero, si avrebbe un numero di magistrati pari a un terzo di quelli che sono in servizio a Palermo.
Il problema della efficienza della giustizia non è risolvibile, tuttavia, con il ricorso al giudice unico di primo grado, né con il giudice di pace in materia penale. Contro l'introduzione del giudice di pace, per di più con la possibilità di infliggere sanzioni che incidono sulla libertà personale, riesce evidente una considerazione elementare: tutto il diritto penale, sia sostanziale che processuale, è improntato al principio di legalità; perciò il giudice deve essere dotato di specifiche conoscenze tecnico-giuridiche, di una adeguata esperienza, che per definizione mancano al giudice di pace, che è giudice non tecnico. D'altronde, il principio di legalità è sancito a livello costituzionale, ragion per cui non è lecito ispirarsi a quegli ordinamenti in cui il giudice si affida all'equity per assumere le sue deliberazioni.
Sarebbe un giudizio superficiale quello di chi ritenesse che la critica al giudice di pace contrasterebbe con la posizione dell'Unione in tema di giuria, della quale chiediamo l'introduzione per le fattispecie di maggior interesse sociale: la giuria, infatti, decide solo sul fatto, mentre spetta al giudice-tecnico risolvere le questioni di diritto, tanto di natura processuale che di natura sostanziale. È la giuria, anzi, uno degli obiettivi su cui l'Unione si sente sempre più impegnata.
L'Unione è decisamente contraria anche al giudice monocratico di primo grado con una competenza più elevata rispetto a quella che ha oggi il pretore: diverse sono le ragioni di questa opposizione, dai pericoli inerenti alla solitudine decisionale (con le conseguenze insite nella mancanza di controllo «endogeno»), all'appiattimento di taluni giudici monocratici sulle posizioni del p.m. (tant'è che si pensa alla possibilità di trasformare il g.i.p. in giudice collegiale), alla insufficiente cultura della giurisdizione in giudici che provengano dalle schiere dei p.m. (per cui pregiudiziale alla introduzione del giudice monocratico sarebbe, comunque, la separazione delle carriere).
15. Su questi disegni di legge l'Unione intende continuare a confrontarsi con il Ministro di grazia e giustizia, che aveva, al suo insediamento, preannunciato un metodo che gli avvocati hanno condiviso, ma che è stato poi inspiegabilmente abbandonato. Sembrava che, innovando anche sul recente passato, il Ministro intendesse costituire delle commissioni miste, composte da funzionari, magistrati e avvocati, per discutere preventivamente i disegni di legge, così da recepire tutte le voci del mondo forense, delle quali il Ministro, ovviamente, avrebbe tenuto conto con assoluta discrezionalità: tali commissioni permanenti, tuttavia, non sono decollate, cosicché ora ci troviamo a dover criticare taluni disegni di legge che forse avremmo potuto contribuire a migliorare.
Di quelli sul giudice di pace e sul giudice monocratico di primo grado, si è già detto. Ma anche il disegno di legge sull'astensione dalle udienze non può trovare d'accordo l'avvocatura, se non altro perché a carico dei difensori che si astengono, senza rispettare termini e forme, scatterebbe una sanzione penale che non è prevista per chi esercita altri servizi pubblici essenziali, e nemmeno per il giudice o per il pubblico ministero.
Riconosciamo nel Ministro una apprezzabile apertura anche nei confronti delle esigenze dell'avvocatura, come dimostra il testo del nuovo disegno di legge sulle indagini difensive (sempre che sia quello a noi noto): tuttavia, il sostanziale rallentamento delle ispezioni ministeriali, se non il loro blocco, comprese quelle già iniziate dal precedente Ministro (si pensi al caso Napoli), il non esercizio di azioni disciplinari anche di fronte a esternazioni di magistrati che hanno attaccato altri apparati dello Stato, la netta e incondizionata opposizione alla separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri, sono tutti segni della sua preoccupazione di non scontentare la magistratura.
Scarsa, infine, è la presenza dell'avvocatura nella Commissione ministeriale che ha l'incarico di predisporre la riforma del processo penale: il numero di magistrati, di funzionari (che provengono dalla magistratura), e di docenti a tempo pieno, è nettamente preponderante rispetto a quello degli avvocati, cosicché si prospettano modifiche del codice che l'avvocatura non condivide, ma alle quali finisce per apparire consenziente. Basterebbe ricordare la nuova regolamentazione delle intercettazioni telefoniche che determinerebbe l'impossibilità per il difensore di conoscerne l'intero contenuto.
L'Unione delle Camere Penali si dovrà impegnare, anche su questo fronte, per far sì che sia rispettata la par condicio tra avvocati e magistrati, cosicché le riforme siano davvero il frutto di un proficuo, confronto tra coloro che, alla fine, ne sono i più diretti destinatari.
16. Sempre con riferimento alle riforme più urgenti, bisogna riconoscere che l'avvocatura è stata per troppo tempo assente dal dibattito sulle modifiche del diritto penale sostanziale. Tra l'altro, con il doppio binario, la configurazione di taluni reati ha l'effetto di condizionare anche le forme del processo penale.
Consideriamo l'istituto di creazione giurisprudenziale della c.d. partecipazione esterna alla associazione criminosa, un marchingegno che ha il solo scopo di colpire le fasce sociali che sono contigue alla criminalità organizzata, ma che della stessa non sono parte. È così che le condotte che sono prive di tipicità, al punto da non costituire neanche favoreggiamento aggravato, possono essere criminalizzate, il più delle volte nei confronti di soggetti che appartengono all'area della politica, della professione o della pubblica amministrazione.
Anche il reato di abuso in atti d'ufficio va ricondotto al principio di offensività prevedendosi che non può aversi una condotta punibile se non in quanto il p.u. abbia causato un danno patrimoniale al privato o alla pubblica amministrazione. L'attuale art. 323 c.p. è diventato lo strumento con cui le procure controllano e condizionano l'attività della pubblica amministrazione. Non si tratta, perciò, di trovare una migliore formulazione tecnica della norma: è in gioco il principio della separazione dei poteri.
Più in generale ci proponiamo di intervenire perché si rinunci all'attuale panpenalismo che ha dato luogo a una sterminata produzione legislativa, di cui forse nessuno conosce la vera entità. Torniamo al diritto penale che interviene soltanto laddove ogni altra specie di tutela giuridica risulti insufficiente a garantire i beni primari della collettività, ricorrendo a pene che siano rispondenti al principio di umanità e che per le modalità di esecuzione e per la loro durata tendano effettivamente alla rieducazione del condannato.
17. Anche sulla situazione carceraria è urgente intervenire. Già le pene, nel nostro Paese, hanno raggiunto livelli altissimi, nella illusione che le sanzioni feroci siano una efficace controspinta per la criminalità: le carceri, poi, sono luoghi di tortura, in cui la persona viene privata di ogni dignità.
Una siffatta gestione della sofferenza umana non è casuale: il terrore di ciò che può accadere in una cella, più volte è stato alla base di quelle collaborazioni, di cui certi p.m. vanno fieri. Anche così si è cercato di spezzare il rapporto fiduciario con il difensore, perché contro il dolore, fisico e morale, poco può fare chi si limiti a dare consigli giuridici. Per questo l'Unione dovrà porsi tra i suoi obiettivi anche la riforma del sistema penitenziario.
Già si era pensato alla stesura di un breviario per il detenuto, soprattutto se extracomunitario, con il quale chi venga gettato in un carcere, può conoscere i suoi diritti di detenuto e i mezzi per difendersi.
Sarebbe opportuno che si permettesse al giudice di adeguare la pena alla concreta gravità del fatto elevando la diminuente delle attenuanti generiche sino alla metà: ciò, peraltro, avrebbe anche l'effetto di incentivare i giudizi abbreviati ed i patteggiamenti.
Anche la umanizzazione del diritto penale, dunque, rientra tra gli obiettivi che si propone l'Unione delle Camere Penali.
18. Chiediamo un ritorno alla giustizia normale, senza eroi e senza vittime: che si ponga fine all'emergenza. Il Parlamento dovrà riappropriarsi del suo ruolo di unica fonte normativa in materia penale, sia sostanziale che processuale. Le riforme all'esame delle commissioni parlamentari potrebbero anche rispondere alle attese dell'Unione delle Camere Penali: preoccupa, però, che dall'insediamento del nuovo Parlamento siano ormai trascorsi molti mesi senza che si siano visti concreti risultati.
Solo il potere legislativo, affrontando organicamente lo stato della giustizia, può far uscire il Paese dall'emergenza: c'è da augurarsi, anche dopo il recente intervento della Corte costituzionale, che non si proceda per decreti-legge, che hanno tenuto conto più delle attese di sicurezza pubblica, che non delle esigenze del giusto processo.

19. La complessità dei problemi che dovrà affrontare l'Unione delle Camere Penali, nei prossimi anni, la eccezionale gravità delle condizioni in cui versa la giustizia, richiedono profonde innovazioni di carattere organizzativo. L'Unione è oggi una federazione di Camere Penali circondariali e distrettuali: ciò garantisce l'autonomia di tutte le Camere Penali, ma costituisce un ostacolo alla nascita di un soggetto politico che sia interlocutore del Governo, del Parlamento, dell'A.N.M. o di altre parti sociali. Pur mantenendo la struttura federativa è venuto il tempo per l'Unione di esercitare pienamente la sua funzione di indirizzo politico: all'Unione soltanto compete la rappresentanza degli interessi collettivi dell'avvocatura penale, mentre alle singole Camere Penali spetta il compito di intervenire nelle questioni più strettamente locali.
Peraltro, se si vuole che l'Unione delle Camere Penali non diventi una entità scollegata dalle realtà locali, è indispensabile che sia incrementata l'elaborazione politica a livello periferico e che questa elaborazione sia permanentemente riversata nell'Unione delle Camere Penali che potrà così via via diventare espressione della vera realtà di tutta l'avvocatura.
Sarebbe illusorio pensare che la Giunta dell'Unione possa da sola riuscire ad organizzare tutti gli interventi che diventano sempre più frequenti, sia sul terreno politico, che sui mezzi di comunicazione, che nel confronto con l'A.N.M. e con le altre rappresentanze del mondo forense. La Giunta dell'Unione, dunque, dovrà operare come un organo esclusivamente politico: a ciò consegue la necessità di approntare degli organi tecnici che collaborino con la Giunta stessa e diano pratica attuazione alle sue deliberazioni. Un contributo di particolare portata si attende l'Unione dal Centro Marongiu che dovrà costituire la sede per la traduzione in proposte legislative delle scelte di politica giudiziaria che verranno dalla Giunta o dal Consiglio delle Camere Penali.
Per completare il quadro dei rapporti con altre realtà forensi, non resta che prospettare le linee di tendenza nei confronti della A.N.M. e dell'Organismo unitario. L'Unione non potrà che mantenere le posizioni già assunte in passato, che hanno risposto alle attese dell'avvocatura penale. Con l'A.N.M. si manterrà aperto quel confronto che ha già dato dei buoni risultati. Si riconosce all'Organismo unitario la rappresentanza di interessi unitari dell'avvocatura, che prescindano dalla specifica funzione dell'avvocato penalista: l'Unione, viceversa, resta il solo soggetto che in questo momento raccolga in sé le idee, le aspettative, la volontà di lotta dell'avvocatura penale.

(*) Relazione tenuta al Congresso dell'Unione delle Camere Penali, svoltosi a Catania nei giorni 25-27 ottobre 1996.


A cura del Consiglio di gestione della Scuola centrale di formazione specialistica per l'avvocato penalista .

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