La rassegna di dottrina e giurisprudenza del Corso nazionale di formazione specialistica dell'avvocato penalista organizzato dall'Unione delle Camere penali italiane in collaborazione con il Centro per la formazione e l'aggiornamento professionale degli avvocati del Consiglio Nazionale Forense.

14 ottobre 2007

Prof. Gilberto Lozzi : la ricorribilità in Cassazione. Dalla Rivista italiana di diritto e procedura penale.

LA RICORRIBILITÀ IN CASSAZIONE

Riv. it. dir. e proc. pen. 2005, 4, 1303

Gilberto Lozzi

Ordinario di procedura penale nell'Università di Roma-La Sapienza

Sommario: 1. La ricorribilità in cassazione nel codice abrogato e nel codice vigente. _ 2. L'esegesi dell'art. 606 lett. e) c.p.p. _ 3. Problemi di legittimità costituzionale dell'art. 606 lett. e) c.p.p. _ 4. Necessità di un raffronto con i motivi di appello per l'accertamento del vizio di motivazione. _ 5. Necessità di un raffronto con memorie difensive per l'accertamento del vizio di motivazione. _ 6. Critica. _ 7. La cognitio facti ex actis della Corte di cassazione. _ 8. Il disegno di legge 21 settembre 2005.


1. La ricorribilità in cassazione nel codice abrogato e nel codice vigente

L'unica via seguita dal legislatore per ridurre i tempi del processo e realizzare l'economia processuale è stata quella dei riti deflativi del dibattimento e, nella prassi giudiziaria, il rito deflativo che ha avuto le conseguenze più significative per l'economia processuale è stato il patteggiamento. Peraltro, con conseguenze molto gravi sotto il profilo del principio di legalità, posto che la negozialità non viene espletata per concordare se la riduzione di pena possa o no estendersi sino al terzo della pena base (in quanto nella prassi giudiziaria è scontato che con il patteggiamento si pratichi la riduzione di un terzo della pena) ma si negozia, invece, la pena base e l'applicazione di attenuanti e per attuare questo rito deflativo si concorda una pena base in palese violazione dell'art. 133 c.p. e l'applicazione di attenuanti inesistenti in palese violazione del principio di legalità e di quella che dovrebbe essere la finalità del processo penale, vale a dire l'accertamento della verità storica.
Il nostro legislatore non si è mai preoccupato di concretare una durata ragionevole del processo ridimensionando l'appellabilità delle sentenze, che il codice vigente ha, invece, ampliato. Si è, invece, cercato di ridurre la ricorribilità in cassazione. Infatti, l'art. 524 del codice abrogato non prevedeva espressamente la ricorribilità in cassazione per vizio di motivazione ma il combinato disposto dell'art. 524 n. 3 c.p.p. e dell'art. 475 c.p.p. in pratica consentiva un'amplissima ricorribilità per vizio di motivazione. Infatti, l'art. 524 n. 3 c.p.p. prevedeva il ricorso per cassazione per violazione di norma processuale stabilita a pena di nullità e l'art. 475 c.p.p. sanciva la nullità della sentenza per mancanza o contraddittorietà della motivazione. Di conseguenza, poteva sempre sostenersi la carenza di motivazione e, quindi, la nullità in ordine ad una prova non menzionata dalla sentenza ma risultante dagli atti processuali oppure la contraddittorietà della motivazione e, quindi, la nullità in ordine ad una prova erroneamente valutata. Ciò consentiva una amplissima ricorribilità in cassazione e comportava che la Corte di cassazione dovesse necessariamente valutare gli atti del processo espletando, come giustamente sosteneva Calogero, una cognitio facti ex actis, il che trasformava il giudizio di cassazione in un terzo giudizio di merito.
Il codice vigente ha voluto evitare queste conseguenze e, al fine di ridimensionare la ricorribilità in cassazione ed evitare alla Corte di cassazione una cognitio facti ex actis, ha espressamente previsto nella enunciazione dei motivi di ricorso per cassazione la ricorribilità in cassazione per vizio di motivazione limitandola all'ipotesi di mancanza o manifesta illogicità della motivazione, che risulti dal testo del provvedimento impugnato.

2. L'esegesi dell'art. 606 lett. e) c.p.p.

L'esegesi dell'art. 606 lett. e) c.p.p. richiede, peraltro, un esame approfondito, in primo luogo, al fine di valutare come tale disposizione abbia effettivamente inciso sul potere di cognizione della Corte di cassazione e sulla finalità di limitare il numero dei ricorsi per cassazione ed, in secondo luogo, al fine di prospettare i problemi di legittimità costituzionale che la disposizione in esame comporta.
Al riguardo, il primo problema che è stato affrontato è se il potere di cognizione della Corte di cassazione, nell'ipotesi di carenza o manifesta illogicità della motivazione, sia effettivamente limitato, come parrebbe sostenibile in base alla lettera e) dell'art. 606 c.p.p., ad una carenza o manifesta illogicità che risulti dal testo del provvedimento impugnato oppure se, nonostante la limitazione posta dal dettato dell'art. 606 lett. e) c.p.p., la carenza o manifesta illogicità della motivazione possa essere valutata dalla Corte di cassazione alla stregua di altre disposizioni. In altri termini, se la sentenza di condanna sia dovuta all'omessa valutazione di una prova a difesa e tale omissione non emerga dalla sentenza impugnata è prospettabile una nullità della sentenza e, quindi, la possibilità di ricorrere per cassazione ai sensi dell'art. 606 lettera c) c.p.p.?
Il porsi siffatta domanda appariva ragionevole in quanto l'art. 546 c.p.p., dopo aver stabilito nel comma 1° l'obbligo di indicare nella sentenza le prove poste a base della decisione e l'enunciazione delle ragioni per cui il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie, nel comma 3° richiama, nel prevedere i casi di nullità della sentenza, l'art. 125 comma 3° c.p.p., il quale, appunto, dispone che le sentenze sono motivate a pena di nullità. Orbene, se la motivazione ha la finalità di giustificare il dispositivo, la mancata enunciazione delle ragioni, per cui il giudice non ha considerato attendibile un'importante prova a difesa, non può non comportare una carenza di motivazione sanzionata a pena di nullità, dal momento che il dettato dell'art. 125 comma 3° c.p.p. non si riferisce unicamente all'assenza totale di motivazione ma ricomprende pure la mancata enunciazione dei passaggi logici indispensabili a giustificare il dispositivo.
Il problema è stato risolto in modo ineccepibile dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione con la sentenza 26 febbraio 1991. Le Sezioni Unite hanno sostenuto che, prevedendo l'art. 606 lettera e) c.p.p. l'ipotesi del ricorso per cassazione basato sulla carenza o manifesta illogicità della motivazione, tutte le nullità della motivazione idonee a giustificare il ricorso dovrebbero potersi ricondurre all'ipotesi dell'art. 606 lett. e) c.p.p., escludendo l'applicabilità della disposizione di carattere generale dell'art. 606 lettera c) c.p.p. posto che non si spiegherebbe l'espressa previsione della lettera e) se l'ipotesi in essa contemplata fosse già ricompresa in quella più ampia della lettera c). In effetti, l'intenzione del legislatore è chiarissima ed è nel senso di escludere che qualunque vizio di motivazione idoneo a determinare una nullità della sentenza possa giustificare il ricorso per cassazione. Inequivocabile risulta la relazione al progetto preliminare, la quale afferma che l'omissione della motivazione è integrata ``anche dalla mancanza di singoli momenti esplicativi'' ma è pur sempre necessario che il vizio risulti ``dal testo del provvedimento impugnato; occorre cioè che l'omissione appaia tale nello stesso sviluppo logico del provvedimento e non nella diversa prospettiva addotta dal ricorrente''. Del resto, come hanno osservato le Sezioni Unite della Corte di cassazione, se ``rispetto alla mancanza di motivazione la lettera c) concorresse con la lettera e) dovrebbe giungersi alla conclusione che il ricorso immediato contro le sentenze, escluso per la lettera e) dall'art. 569 comma 3°, resterebbe proponibile per la lettera c)''. In altri termini, posto che sarebbe assurdo e contrastante con l'art. 3 Cost. sostenere, da un lato, l'inammissibilità del ricorso per saltum nel caso di carenza di motivazione determinante nullità e risultante dal testo del provvedimento impugnato e, dall'altro, l'ammissibilità del ricorso stesso (alla stregua della tesi disattesa dalle Sezioni Unite) nel caso di carenza di motivazione determinante nullità ma non emergente dal testo della sentenza, ne seguirebbe la possibilità di proporre ricorso per saltum pure nella prima ipotesi ai sensi dell'art. 606 lettera e) c.p.p. Conclusione priva di senso logico dal momento che vanificherebbe il divieto posto dall'art. 569 comma 3° c.p.p. e finirebbe per consentire il ricorso per saltum in situazioni che renderebbero indispensabile un rinvio al giudice di merito rendendo così nullo il vantaggio che il legislatore si è prefisso di realizzare con la previsione del ricorso immediato per cassazione.


3. Problemi di legittimità costituzionale dell'art. 606 lett. e) c.p.p.

Una volta chiarito che per vizio di motivazione si può ricorrere unicamente ai sensi dell'art. 606 lettera e) c.p.p. sembrerebbe sostenibile la tesi per cui, dovendo tale vizio risultare dal testo del provvedimento impugnato, si sarebbe eliminata o quantomeno notevolmente ridotta la cognitio facti ex actis della Corte di cassazione. La giustificazione contenuta nella motivazione della sentenza, come è noto, può essere una giustificazione interna oppure una giustificazione esterna. La prima si esaurisce nella valutazione della logicità delle argomentazioni poste a base della decisione. In altri termini, la giustificazione interna consiste in una ``mera analisi retrospettiva del ragionamento probatorio, che non incide sul contenuto della valutazione probatoria già compiuta dal giudice di merito, ma è funzionalmente orientata a controllarne la struttura razionale muovendo dalle conclusioni e ripercorrendo all'indietro la linea logica della motivazione al fine di verificare la validità delle inferenze che la compongono ed i nessi che legano le diverse inferenze'' (Taruffo). La giustificazione esterna rende, invece, necessario verificare ``se i dati di fatto posti a base della affermazione di colpevolezza o assoluzione siano rispondenti ai dati di fatto della realtà come accertati nel processo, e cui la sentenza fa appunto riferimento'' (Santoriello).
Orbene, l'art. 606 lettera e) c.p.p. limiterebbe il controllo che la Cassazione esercita in caso di ricorso per vizio di motivazione ad una verifica della congruità della sola giustificazione interna evitando in tal modo alla Corte di cassazione di operare come terzo giudice di merito.
Peraltro, non appena entrato in vigore il codice vigente, si è subito posto il problema se la esclusione del controllo della giustificazione esterna comporti o no problemi di legittimità costituzionale.
Più esattamente, una volta esclusa la possibilità di dedurre come motivo di ricorso per cassazione la nullità conseguente a vizi di motivazione, ci si deve chiedere se, al di fuori dell'ipotesi dell'art. 606 lettera e) c.p.p., sussistano situazioni in cui il vizio di motivazione sia idoneo a giustificare il ricorso per cassazione e, in caso di risposta negativa, se ciò determini vizi di legittimità costituzionale.
In dottrina, con riferimento ad una motivazione di una sentenza di condanna ``pienamente sintonica con il dispositivo'' ma ``in tutto o in parte smentita dagli atti processuali'' (Ferrua), si sono distinte tre ipotesi: quella di una condanna conseguente ad una prova non risultante dagli atti di un processo; quella di una condanna conseguente ad un travisamento della prova, ed, infine, quella di una condanna conseguente ad una mancata valutazione di una prova a favore dell'imputato. Nel primo caso (si pensi ad una condanna motivata in modo ineccepibile ma basata su una testimonianza che non risulta dagli atti processuali), si può ovviare all'impossibilità di ricorrere per cassazione ai sensi dell'art. 606 lettera e) c.p.p., ove il vizio non risulti dal testo del provvedimento impugnato, esperendo il ricorso stesso per violazione di norma processuale stabilita a pena di inutilizzabilità e, quindi, ai sensi della lettera c) dell'art. 606 c.p.p.
Infatti, l'art. 191 comma 1° c.p.p. rende inutilizzabili le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge e l'art. 526 c.p.p. ribadisce per il dibattimento l'inutilizzabilità di prove diverse da quelle legittimamente acquisite nel corso della istruzione dibattimentale. Una prova di cui non sia traccia negli atti processuali non può, ovviamente, ritenersi legittimamente acquisita agli atti processuali e, pertanto, è inutilizzabile.
Nel secondo caso, si afferma, si può giungere ad analoga conclusione solo mediante ``un'acrobazia esegetica...ad esempio, sostenendo che la prova ``travisata'' sia ``diversa'' da quella legittimamente acquisita'' (Ferma). A nostro avviso, occorre rifarsi alla distinzione tra ``travisamento degli atti'' e ``travisamento delle risultanze'' (Amodio): il primo si realizza allorquando la sentenza si richiama ad un atto processuale inesistente (ad esempio si fa riferimento ad una testimonianza mai assunta); il secondo è ravvisabile allorquando l'atto processuale richiamato esiste ma ne è travisato il significato probatorio (ad esempio si attribuisce alla dichiarazione negativa del teste effettivamente assunta il valore di dichiarazione affermativa). Orbene, il travisamento degli atti rientra nell'ipotesi già esaminata di prova non legittimamente acquisita (e, quindi, inutilizzabile) mentre il travisamento delle risultanze presuppone una prova legittimamente acquisita ma a cui è stata data una valutazione così macroscopicamente erronea da travisarne completamente il significato. Non pare, quindi, possibile individuare, ove sussista un travisamento delle risultanze, un'inutilizzabilità della prova, con la conseguenza che un siffatto travisamento, se non risulti dal testo del provvedimento impugnato, non consente un ricorso per cassazione.
Nel terzo caso sopra prospettato, poi, vale a dire quello di una sentenza di condanna, che ignori una importante prova a difesa, senza che tale omissione traspaia dal testo del provvedimento impugnato, appare indubbiamente preclusa la possibilità di un ricorso per cassazione.
Queste conclusioni potrebbero apparire come il giusto prezzo da pagare in un sistema processuale, nel quale si è mantenuto il giudizio di appello come secondo giudizio di merito, il che pare contrastare con il principio del contraddittorio nel momento di formazione della prova come principio fondamentale del processo penale. Infatti, appare piuttosto abnorme che una decisione conseguente ad una istruzione dibattimentale, in cui siano state assunte numerosissime prove narrative con la piena attuazione del contraddittorio nel momento di formazione della prova, venga completamente riformata in seguito ad un giudizio d'appello che ha funzionato come mero giudizio cartolare non essendovi stata alcuna rinnovazione dell'istruzione dibattimentale. Il precludere sempre (anche nel caso del travisamento del fatto e dell'omessa valutazione di una importante prova a difesa) una cognitio facti ex actis nel giudizio di cassazione e, quindi, il precludere la possibilità che la Corte di cassazione operi come terzo giudice di merito apparirebbe giustificato dall'esistenza di un secondo giudizio di merito oltretutto consentito con eccessiva ampiezza.
Sono considerazioni, peraltro, prive di valore allorquando si ritenga che il limite rigidamente inteso previsto dall'art. 606 lettera e) c.p.p. comporti vizi di legittimità costituzionale.
Infatti, si pone il problema se sia o no giustificabile in relazione al combinato disposto degli artt. 3 e 24 Cost. la disparità di trattamento che si crea, in ordine alla ricorribilità in cassazione per il travisamento del fatto o per l'omessa valutazione di una prova a difesa, a seconda che l'omissione sia o no rivelata dal testo del provvedimento impugnato.
Si faccia il caso del travisamento o dell'omessa valutazione di una persuasiva prova d'alibi: se il travisamento o l'omissione risulti anche dalla semplice narrativa del fatto (che, con l'enunciare tale prova, evidenzi la carenza della motivazione in ordine alla stessa), la sentenza di condanna sarà ricorribile per cassazione; se, invece, nessuna menzione della prova predetta venga fatta nel testo del provvedimento impugnato, il ricorso per cassazione apparirà inammissibile.
Questa disparità di trattamento comporta o no una diversa attuazione del diritto di difesa non giustificabile ai sensi dell'art. 3 Cost.? La risposta positiva sembra discendere dalla considerazione che il diritto alla prova, oggi espressamente riconosciuto, costituisce una specificazione del diritto di difesa.
Vigente l'ordinamento processuale penale abrogato si è affermato che ``il diritto alla controprova testimoniale, accordato all'imputato dall'art. 6 n. 3 lettera d) della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, è suscettibile di applicazione immediata nel senso di richiedere nella motivazione almeno l'esame delle dichiarazioni rese dal teste assunto a discarico sugli stessi punti su cui è stato esaminato un teste a carico: svuoterebbe certamente la portata della norma una disciplina processuale che imponesse al giudice di assumere il teste in controprova autorizzando poi ad ignorarlo del tutto nella motivazione'' (Amodio). Tale affermazione non può non valere oggi con riferimento a tutte le situazioni in cui il giudice, ammettendo la prova ex art. 190 c.p.p., ha riconosciuto il diritto alla prova. Ed, infatti, proprio per non vanificare il diritto alla prova, si pretende dal giudice ``l'indicazione delle prove poste a base della decisione stessa e l'enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie'' (art. 546 lettera e) c.p.p.). Senonché tale obbligo di motivazione in ordine alla ritenuta non attendibilità della prova contraria (e con esso il diritto alla prova) risulterebbe completamente vanificato se la sua violazione e, quindi, l'omessa valutazione delle prove a difesa contrapposte alle prove a carico, su cui sia fondata la sentenza di condanna, non fosse sindacabile dal giudice di legittimità.
L'impossibilità del controllo in ordine alla omessa valutazione vanifica il dovere di prendere in considerazione le prove assunte in attuazione del diritto alla prova e, quindi, vanifica tale diritto e con esso il diritto di difesa.
È evidente che in un processo penale, in cui l'acquisizione della prova è disciplinata dal principio dispositivo (giacché ex art. 190 c.p.p. ``le prove sono ammesse a richiesta di parte'' ed è conseguentemente, da un lato, onere dell'imputato addurre prove idonee a dimostrare la fondatezza delle argomentazioni difensive, dall'altro, diritto dell'imputato far assumere le prove richieste purché non siano vietate oppure manifestamente superflue o irrilevanti) ed il potere del giudice di disporre l'assunzione della prova è del tutto eccezionale (dal momento che si realizzerebbe ``un rituale pseudoaccusatorio se la prova fosse ancora in mano al giudice'') (Cordero), il diritto alla prova ha acquisito un significato ed una portata di rilevanza molto più accentuati di quelli riscontrabili nel precedente sistema processuale penale: pertanto, la sua menomazione appare ancor più pregiudizievole per l'attuazione del diritto di difesa. Ne segue che il mancato controllo non solo sulla logicità ma addirittura sull'esistenza della parte della motivazione in cui si enuncino le ragioni, che hanno portato il giudice a disattendere le prove a difesa, può vanificare, come si è detto, il diritto alla prova e, pertanto, il diritto di difesa.
Il vizio di legittimità costituzionale sopra prospettato, ravvisabile anche quando il giudice d'appello reiterando l'errore del primo giudice di merito e disattendendo il relativo motivo d'appello, abbia omesso la valutazione della prova a difesa senza che tale omissione emerga dal testo del provvedimento impugnato, appare ancor più significativo allorché siffatta omissione concerna una sentenza inappellabile oppure una sentenza di condanna emanata per la prima volta in appello su impugnazione del pubblico ministero contro sentenza di assoluzione oppure allorché la prova o le prove a difesa, la cui valutazione risulti omessa, siano state assunte nel giudizio di appello in seguito a rinnovazione dell'istruzione dibattimentale. In queste tre ipotesi manca un riesame nel merito in ordine alle ragioni della condanna e, di conseguenza, la non sindacabilità da parte della Corte di cassazione del travisamento o dell'omessa valutazione della prova a difesa, che non risultino dal testo del provvedimento impugnato, non consente nessuna doglianza per la violazione del diritto alla prova.
Orbene, se il diritto alla prova costituisce un aspetto fondamentale del diritto di difesa, l'impossibilità di richiedere alla Corte di cassazione l'annullamento di una sentenza (non suscettibile di una impugnazione determinante un riesame nel merito), che condanni senza tenere in alcuna considerazione le prove a difesa, comporta una violazione dell'art. 24 comma 2° Cost. Occorre, inoltre, considerare che l'art. 111 Cost. (così come modificato dalle legge cost. n. 2/1999) ha ribadito la dignità costituzionale del diritto alla prova nel 3° comma non solo facendo proprio il già riferito contenuto dell'art. 6 Convenzione europea ma prevedendo il diritto della persona accusata di un reato di ``ottenere...l'acquisizione di ogni...mezzo di prova''.
Un ulteriore problema di legittimità costituzionale può, poi, porsi in ordine all'art. 111 comma 6° Cost., che impone la motivazione dei provvedimenti giurisdizionali. Se motivare significa, nel caso di sentenza di condanna, esplicitare le argomentazioni utilizzate per arrivare all'affermazione della sussistenza del fatto imputato e della responsabilità dell'imputato e se, in un processo in cui principio fondamentale della fase dibattimentale è quello del contraddittorio nel momento di formazione della prova, l'enunciazione di tali argomentazioni non può prescindere dalla considerazione delle ragioni contrarie, si pone il problema della compatibilità con l'art. 111 comma 6° Cost. di una normativa, che rende insindacabile un provvedimento giurisdizionale, il quale abbia completamente ignorato le prove a difesa senza che ciò emerga dal testo del provvedimento impugnato.
Il vizio di legittimità costituzionale dell'art. 606 lettera e) c.p.p. appare ancora più evidente se si pone a raffronto tale disposizione con l'art. 606 lettera d) c.p.p., per cui il ricorso per cassazione è proponibile, nel caso di mancata assunzione di una prova decisiva, quando la parte ne abbia fatto richiesta a norma dell'art. 495 comma 2° c.p.p.
Nell'esegesi dell'art. 606 lettera d) c.p.p. sorge il problema se nella locuzione ``mancata assunzione'' possa o no ricomprendersi anche l'omessa valutazione della prova decisiva. Orbene, se, in contrasto con la lettera della legge, si risponde in senso affermativo sostenendo che, in virtù di una interpretazione logica, l'omessa valutazione, vanificando l'assunzione della prova decisiva, va equiparata alla mancata assunzione, appare palese il vizio di legittimità costituzionale dell'art. 606 lettera e) c.p.p. sotto il profilo dell'art. 3 Cost., per la disparità di regolamentazione legislativa, in ordine alla proponibilità del ricorso per cassazione, a seconda che la stessa prova decisiva a difesa assunta e non valutata sia stata richiesta dall'imputato ex art. 495 comma 2° c.p.p. (e, quindi, non in contrapposizione ad una prova a carico avente lo stesso oggetto) oppure si tratti di prova decisiva risultata favorevole alla difesa ma assunta a richiesta del pubblico ministero o di parte privata diversa dall'imputato (sia nella situazione dell'art. 495 comma 2° c.p.p. sia al di fuori di tale situazione) o, infine, si tratti di prova assunta d'ufficio dal giudice sensi dell'art. 507 c.p.p.
È evidente che se il travisamento o l'omessa valutazione (non risultante dal testo del provvedimento impugnato), ad esempio, di una prova d'alibi decisiva richiesta dall'imputato ex art. 495 comma 2° c.p.p. può costituire motivo di ricorso per cassazione, contrasta con l'art. 3 Cost. ritenere non proponibile il ricorso per cassazione per il travisamento o l'omessa valutazione (non risultante dal testo del provvedimento impugnato) della stessa prova, allorquando quest'ultima sia stata richiesta dall'imputato al di fuori della situazione dell'art. 495 comma 2° c.p.p. oppure sia stata richiesta non dall'imputato ma da altra parte del processo o ancora sia stata assunta d'ufficio dal giudice. Questi elementi di differenziazione relativi alle modalità della richiesta o al soggetto autore della richiesta o, infine, al fatto che la prova anziché essere richiesta sia stata disposta d'ufficio non rende ragionevole la disparità di trattamento legislativo e, di conseguenza, non giustifica tale disparità, che appare contrastare con il principio di eguaglianza, il quale impone una regolamentazione legislativa omogenea di situazioni omogenee.
Proprio al fine di evitare detto vizio di legittimità costituzionale, si nega (con un'interpretazione certamente più conforme alla lettera della legge) che l'art. 606 lettera d) c.p.p. giustifichi il ricorso per cassazione fondato sull'omessa valutazione della prova decisiva. A questo proposito, si sottolinea come la decisività della prova richiesta e non assunta, a cui fa riferimento l'art. 606 lettera d) c.p.p., sia ben diversa dalla decisività della prova assunta e non valutata, giacché l'accertamento della prima concerne i fatti da provare e, pertanto, si deve stabilire in astratto la decisività o no della prova, mentre l'accertamento della seconda ``concerne il risultato dell'attività probatoria, che va interpretato e valutato, ed è da interpretazioni e da valutazioni di questo genere che nascono gli sconfinamenti nel merito'' (Lattanzi). Ciò in quanto, si soggiunge, allorquando nei motivi di ricorso ci si duole del mancato esame di una prova assunta e non valutata, la connotazione di decisività della prova stessa viene sostenuta ``in un contesto argomentativo e valutativo diverso da quello della decisione impugnata, che si vuole far rifiutare dal giudice di legittimità'' (Lattanzi). Proprio per evitare alla Corte di cassazione un siffatto giudizio di merito, che inevitabilmente comporta una valutazione dell'utilizzazione delle prove effettuata dal giudice di merito, si sarebbe limitata nell'art. 606 lettera d) c.p.p. la ricorribilità per cassazione alla mancata assunzione della prova decisiva escludendo, quindi, la ricorribilità per l'omessa valutazione della prova decisiva assunta.
A ben vedere, queste osservazioni non paiono del tutto persuasive poiché, anche nel caso di motivo basato sulla mancata assunzione di una prova decisiva richiesta, la doglianza diretta a dimostrare la decisività della prova può fondarsi sull'utilizzazione delle prove da parte del giudice di merito, poiché la connotazione di decisività non deve necessariamente essere rapportata al momento della richiesta ma può valutarsi alla stregua dei risultati dell'istruzione dibattimentale. Inoltre, se anche la decisività viene rapportata al momento della richiesta e, quindi, in relazione ai fatti da provare, può essere dimostrata sulla base degli elementi probatori emersi nel corso delle indagini preliminari o sulla base delle prove assunte nel corso di incidenti probatori ed, ovviamente, pure in queste situazioni la valutazione sulla decisività o no della prova non può non comportare un apprezzamento di merito.
Inoltre, la tesi per cui l'omessa assunzione della prova menzionata nell'art. 606 lettera d) c.p.p. non ricomprenderebbe l'omessa valutazione della prova stessa, porta a ravvisare un vizio di legittimità costituzionale dell'art. 606 lettera d) c.p.p. e l'interprete quando di una norma sono possibili due interpretazioni ha il dovere di effettuare l'esegesi che rende la norma non viziata di legittimità costituzionale. Infatti, non ha alcun senso garantire nuovamente il diritto alla prova nell'art. 495 c.p.p., al fine di ridurre il potere discrezionale conferito al giudice dall'art. 190 comma 1° c.p.p. e limitato all'esclusione delle prove manifestamente superflue o irrilevanti, se, poi, l'omessa valutazione di tale prova, la cui assunzione è stata reiteratamente garantita, non sia sindacabile. Non può considerarsi assicurato il diritto all'assunzione di prove a discarico su fatti costituenti oggetto di prove a carico se una sentenza che si limiti a considerare soltanto il secondo gruppo di prove, ignorando totalmente il primo, non sia suscettibile di annullamento da parte della Corte di cassazione (a meno che la carenza di motivazione non risulti dal testo del provvedimento impugnato). Siffatta disciplina legislativa comporta una violazione dell'art. 24 comma 2° Cost. e dell'art. 111 comma 3° Cost.
Dalle considerazioni sopra effettuate si deduce che l'intenzione del legislatore di ridurre la ricorribilità per cassazione delle sentenze è senza dubbio apprezzabile ma la via seguita, rendendo insindacabili gravissime violazioni del diritto alla prova e, conseguentemente, sacrificando il diritto di difesa, appare non conforme a fondamentali principi costituzionali.


4. Necessità di un raffronto con i motivi di appello per l'accertamento del vizio di motivazione

Al fine di limitare i dubbi di legittimità costituzionale, la Corte di cassazione, con un orientamento giurisprudenziale ormai costante, ha asserito che la mancanza o manifesta illogicità della motivazione di cui all'art. 606 lettera e) c.p.p. può emergere dal raffronto fra i motivi di appello ed il testo della decisione impugnata avanti alla Corte di cassazione. Si è, infatti, testualmente asserito che ``si ha mancanza di motivazione ai sensi dell'art. 606 lettera e) c.p.p. anche quando le argomentazioni addotte dal giudice a dimostrazione della fondatezza del suo convincimento siano prive di completezza in relazione a specifiche doglianze formulate dall'interessato con i motivi di appello e dotate del requisito della specificità; né può ritenersi precluso al giudice di legittimità, ai sensi della disposizione suddetta, l'esame dei motivi di appello al fine di accertare la congruità e la completezza dell'apparato argomentativo adottato dal giudice di secondo grado'' (Cass. 2 maggio 1995; Cass. 20 giugno 1997). Pertanto, con una interpretazione logica che supera il dato letterale, questo orientamento giurisprudenziale fa rientrare nella ipotesi di carenza o manifesta illogicità della motivazione, di cui all'art. 606 comma 1° lettera e) c.p.p., anche quelle motivazioni delle sentenze d'appello che, da un mero esame del testo letterale del provvedimento impugnato, appaiono complete ed in sintonia con il dispositivo ma, nel contempo, risultano prive di passaggi logici indispensabili, ove siano raffrontate con i motivi di appello, per non aver tenuto in considerazione argomentazioni esposte nei motivi stessi.
In altri termini, alla stregua dell'insegnamento della Corte di cassazione, per individuare la carenza o la manifesta illogicità della motivazione, non è sufficiente il mero esame del testo del provvedimento impugnato e, quindi, lo sviluppo logico delle argomentazioni in esso enunciate, ma è, altresì, indispensabile un raffronto fra il testo della sentenza impugnata avanti alla Corte di cassazione ed i motivi di appello proposti contro la sentenza di primo grado. La Corte di cassazione ritiene, cioè, che la carenza o la manifesta illogicità di motivazione sia valutata pur sempre in base al testo del provvedimento impugnato, ma ritiene sussistente tale carenza o manifesta illogicità anche quando per accertarla sia indispensabile far capo alle richieste formulate nei motivi di gravame, che hanno determinato il provvedimento giurisdizionale sottoposto al vaglio della Corte di cassazione. Si faccia il caso di una istruzione dibattimentale, nella quale emerga una prova d'alibi, neppure menzionata nella sentenza di condanna del giudice di primo grado, impugnata mediante motivi d'appello tramite i quali si richiede una riforma della sentenza proprio in virtù di detta prova d'alibi. Se la Corte d'appello, nel riconfermare la sentenza impugnata, dà atto della esistenza della prova d'alibi ma non giustifica le ragioni per cui disattende la prova stessa, si ha una carenza di motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato senza necessità di un raffronto con i motivi di appello. Se, invece, la Corte d'appello riconferma la sentenza senza neppure far parola di detta prova, si ha pur sempre, secondo l'orientamento giurisprudenziale sopra citato, una carenza di motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato, ma tale carenza presuppone inevitabilmente un raffronto con i motivi d'appello.
Questo orientamento giurisprudenziale riduce la ravvisabilità di vizi di legittimità costituzionale senza eliminarla, posto che non risulterà possibile un raffronto con i motivi di appello, allorquando l'omessa valutazione della prova o delle prove a difesa concerna una sentenza di condanna inappellabile oppure concerna una sentenza di condanna emanata in appello in seguito ad impugnazione del pubblico ministero contro sentenza di assoluzione o, infine, allorquando la prova o le prove a difesa, la cui valutazione risulti omessa, siano state assunte nel giudizio di appello a causa di rinnovazione dell'istruzione dibattimentale. La carenza di motivi di appello relativi alla mancata valutazione di prove a difesa nel caso di sentenza inappellabile o di prove assunte per la prima volta in appello in seguito a rinnovazione dell'istruzione dibattimentale o la carenza di una doglianza dell'imputato nel caso di appello proposto dal pubblico ministero contro una sentenza di assoluzione, fanno sì che la mancanza o la manifesta illogicità della motivazione sostenuta nel ricorso per cassazione proposto a favore dell'imputato possa valutarsi unicamente sulla base del testo del provvedimento impugnato con le conseguenze sopra prospettate in tema di legittimità costituzionale.
A prescindere da questi ultimi problemi di legittimità costituzionale, la finalità deflativa dei ricorsi per cassazione, che il legislatore si prefiggeva di raggiungere mediante l'art. 606 lettera e) c.p.p., è stata in parte vanificata dall'orientamento giurisprudenziale, pienamente giustificato per le ragioni sopra esposte, che impone il raffronto fra la decisione impugnata ed i motivi di appello. Infatti, nei ricorsi di cassazione si sostiene abitualmente un vizio di motivazione sulla base del raffronto predetto e, per tal via, si ripropongono, mascherate da vizio di motivazione, questioni di fatto, esattamente come avveniva con il codice abrogato.


5. Necessità di un raffronto con memorie difensive per l'accertamento del vizio di motivazione

La tesi per cui, al fine di valutare la carenza o manifesta illogicità della motivazione, è consentito un raffronto con i motivi di appello è stata ribadita dalle Sezioni Unite 24 novembre 2003, Andreotti, che ha affrontato il problema della possibilità di valutare gli atti del processo per accertare l'innocenza dell'imputato allorquando il ricorso per cassazione venga proposto contro sentenza d'appello che abbia riformato una sentenza di assoluzione su appello del pubblico ministero.
Le Sezioni Unite nella sentenza predetta escludono che la Suprema Corte possa accedere agli atti processuali effettuando una cognitio facti ex actis, al fine di valutare l'esistenza di risultanze probatorie decisive per la dimostrazione dell'innocenza, della cui omessa valutazione l'imputato non ha potuto dolersi, dal momento che il giudizio d'appello è stato instaurato su impugnazione del pubblico ministero avverso una sentenza di primo grado pienamente liberatoria, rispetto alla quale l'imputato stesso era privo di interesse a proporre impugnazione. Le Sezioni Unite ritengono, peraltro, che, sulla scia dell'interpretazione estensiva dell'art. 606 lettera e) c.p.p. effettuata dalla giurisprudenza sopra citata, la Corte di cassazione possa e debba fare riferimento, ``ai fini della rilevabilità del vizio di omessa prova decisiva'', non solo alla sentenza assolutoria di primo grado ``ma anche (in assenza di motivi di appello dell'imputato non legittimato a proporre appello) alle memorie ed agli atti con i quali la difesa, nel contestare il gravame del pubblico ministero, abbia prospettato al giudice d'appello l'avvenuta acquisizione dibattimentale di altre e diverse prove, favorevoli e nel contempo decisive, pretermesse dal giudice di primo grado nell'economia di quel giudizio, oltre quelle apprezzate ed utilizzate per fondare la decisione assolutoria''. Di conseguenza, secondo le Sezioni Unite, ``la mancata risposta dei giudici di appello alle prospettazioni della difesa circa la portata di decisive risultanze probatorie inficerebbe la completezza e la coerenza logica della sentenza di condanna e, a causa della negativa verifica di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, la renderebbe suscettibile di annullamento''. In altri termini, secondo la Suprema Corte, se la mancanza o la manifesta illogicità della motivazione, non risultante da una mera lettura del testo del provvedimento impugnato, può emergere da un raffronto con prospettazioni difensive effettuate nel giudizio d'appello, la Corte di cassazione deve tener conto, per valutare l'esistenza di un vizio di motivazione, non solo delle doglianze espresse nei motivi di appello ma, altresì, allorquando l'imputato per carenza di interesse non sia legittimato alla presentazione dell'appello, delle prospettazioni difensive enunciate in ``memorie, atti o anche dichiarazioni verbalizzate'', con cui si sollecita la considerazione di una prova decisiva per accertare l'innocenza, che era stata richiesta (ove ci si dolga della mancata assunzione della prova) o assunta (ove ci si dolga della mancata valutazione della prova).
In tal modo, secondo le Sezioni unite, si evita quella cognitio facti ex actis che l'art. 606 lettera e) c.p.p. proibisce e, nel contempo, si rispettano quelle imprescindibili esigenze della difesa sussistenti allorquando il giudice d'appello riformi una sentenza assolutoria e l'imputato lamenti la mancata assunzione o l'omessa valutazione o il travisamento di una prova decisiva d'innocenza non emergente né dalla sentenza di primo grado né dai motivi di appello del pubblico ministero né dalla sentenza del giudice di appello.

6. Critica.

La tesi sopra esposta non appare convincente. In primo luogo, non sussiste l'obbligo di controbattere le argomentazioni enunciate dal pubblico ministero nei motivi di appello con memorie o dichiarazioni verbalizzate, poiché il difensore può legittimamente riservare l'enunciazione di tutte le argomentazioni difensive a quanto esposto in sede di discussione e ciò comporta che, in assenza di registrazione della discussione stessa, le richieste della difesa non risulteranno enunciate. Inoltre, non si evita quella cognitio facti ex actis che, secondo la Corte di cassazione, deve ritenersi preclusa, preclusione che costituisce la vera ragione della soluzione prospettata dalle Sezioni Unite. Infatti, la Corte di cassazione non può ritenere sussistente l'omessa valutazione di una prova decisiva di innocenza sulla base della semplice prospettazione difensiva senza accertare, mediante una cognizione di fatto degli atti processuali, se effettivamente la prova era stata assunta e non può valutare la doglianza relativa alla mancata assunzione di una prova decisiva di innocenza senza accertare se ne era stata effettivamente richiesta l'assunzione. Analogamente, come può la Corte di cassazione valutare il travisamento di una dichiarazione narrativa, concretante secondo la difesa una prova d'alibi, senza esaminare la dichiarazione stessa? Non è realistico ipotizzare che la Corte di cassazione annulli una sentenza per carenza di motivazione sulla base del semplice rilievo che il giudice d'appello non ha motivato in ordine ad un travisamento della prova asserito in una memoria difensiva ed in realtà inesistente, senza valutare la prova narrativa che erroneamente si sostiene essere stata travisata.
È significativo, inoltre, che le Sezioni Unite sottolineino sempre che la prova, di cui il difensore dell'imputato assolto in primo grado e condannato in appello, lamenta la mancata assunzione o la omessa valutazione debba essere contraddistinta dalla decisività al fine di dimostrare l'innocenza dell'imputato stesso. Orbene, la Suprema Corte non può valutare la decisività della prova se non alla stregua dei risultati dell'istruzione dibattimentale e, quindi, mediante una cognitio facti ex actis.


7. La cognitio facti ex actis della Corte di cassazione

La via indicata dalle Sezioni Unite per evitare la cognitio facti ex actis costituisce un mero escamotage che non serve ad evitare la cognitio predetta. La ricorribilità in cassazione per vizio di motivazione si risolverà sempre in una cognizione degli atti processuali, trasformando la Corte di cassazione in un giudice di merito.
Va, anzitutto, chiarito che la cognitio facti ex actis è ampiamente prevista dal nostro codice vigente anche a prescindere dal ricorso per cassazione per vizio di motivazione. Al riguardo, viene, in primo luogo, in considerazione l'applicabilità dell'art. 129 c.p.p. in cassazione giacché se si ritiene che questa norma (imponendo pure alla Corte di cassazione l'immediata declaratoria di non punibilità), va intesa nel senso che tale obbligo sussiste anche quando per il suo adempimento si renda necessaria una cognitio facti ex actis determinante una valutazione del materiale probatorio, appare ravvisabile un'incongruenza rispetto alla limitazione dell'art. 606 lettera e) c.p.p. Invero, non sarebbe consentito un ricorso per cassazione basato sull'omessa valutazione di una prova d'alibi mentre sarebbe richiesto alla Corte di cassazione di applicare l'art. 129 comma 1° c.p.p., prosciogliendo l'imputato per non aver commesso il fatto, a causa della valutazione di tale prova omessa dal giudice di merito. Per evitare questa incongruenza si è, appunto, sostenuto che il proscioglimento ex art. 129 c.p.p. potrà aversi avanti la Corte di cassazione solo sulla base dell'esame della motivazione del provvedimento impugnato (Marzaduri): il che, peraltro, pare contrastare sia con il dettato letterale dell'art. 129 c.p.p. (che non pone limiti) sia con il favor innocentiae sia con l'economia processuale, poiché l'unica strada percorribile per far dichiarare tale innocenza verrebbe ad essere quella della revisione. A prescindere dal rilievo, che appare piuttosto inverosimile che un giudice condanni con una motivazione da cui risulti la causa di non punibilità.
Una cognitio facti ex actis parrebbe ravvisabile pure nell'ipotesi dell'art. 620 lettera a) c.p.p, che impone alla Corte di cassazione di pronunciare annullamento senza rinvio se il fatto non è previsto dalla legge come reato, se il reato è estinto o se l'azione penale non doveva essere iniziata o proseguita. Quid iuris, allorquando la carenza della condizione di procedibilità o la modalità cronologica del fatto imputato (la quale renda applicabile l'amnistia o la prescrizione oppure dimostri che il fatto era stato commesso antecedentemente all'entrata in vigore della legge incriminatrice), emerga non dalla sentenza impugnata, ma dagli altri atti processuali? Delle due l'una: se si ritiene, in coerenza con l'interpretazione sopra criticata e relativa all'applicabilità dell'art. 129 c.p.p. nel giudizio di cassazione, che detto annullamento senza rinvio sia effettuabile solo quando le situazioni sopra prospettate (da cui risulta la non procedibilità dell'azione penale o l'estinzione del reato o la non previsione del fatto come reato) emergano dalla sentenza impugnata, si giunge a conclusioni palesemente assurde poiché si rischia di vanificare la previsione dell'art. 620 lettera a) c.p.p. limitandola all'ipotesi inverosimile, in cui un giudice condanni benché la stessa sentenza di condanna riveli l'assenza della condizione di procedibilità o l'estinzione del reato o la non previsione del fatto come reato.
Se, invece, si ritiene consentito l'annullamento senza rinvio in questione a causa di una cognitio facti ex actis, appare incongruente ammettere la cognitio facti per le formule di proscioglimento dell'art. 129 c.p.p. richiamate dall'art. 620 lettera a) c.p.p. ed escluderla per le altre formule pure indicate dall'art. 129 c.p.p. Conclusione tanto più illogica se si tiene presente che l'art. 620 lettera a) c.p.p. ha carattere meramente esemplificativo, posto che la lettera l) dell'art. 620 c.p.p. dispone che l'annullamento senza rinvio va ordinato ogniqualvolta, in presenza di un error in iudicando o di un error in procedendo, la Corte di cassazione ``ritiene superfluo il rinvio ovvero può essa medesima procedere alla determinazione della pena o dare i provvedimenti necessari'': in tale enunciazione si ritrova il vero criterio per determinare la necessità del rinvio, nel senso che l'inutilità di questo deve apparire dalla ``sufficienza degli elementi emergenti dal procedimento rescindente'' (Carnelutti). Pertanto, lo stesso criterio deve valere per tutte le formule di proscioglimento nel senso che o si ritiene consentito l'annullamento senza rinvio per tutte le formule di proscioglimento, la cui applicabilità emerga non dalla sentenza ma dall'esame degli altri atti oppure lo si ritiene escluso, con le assurde conseguenze sopra prospettate, ove detta applicabilità non appaia dal testo della sentenza impugnata.
La possibilità per la Corte di cassazione di valutare gli atti processuali sembra pure emergere dall'art. 606 lettera c) c.p.p. relativamente alla dichiarabilità in cassazione dell'inutilizzabilità della prova (si pensi, ad esempio, alla inutilizzabilità delle intercettazioni per violazione delle disposizioni che riguardano i presupposti e le forme del provvedimento nonché l'esame delle operazioni) nonché dall'art. 606 lettera d) c.p.p. in ordine alla valutazione della mancata assunzione della prova e del dato della decisività della prova richiesta dalla parte a norma dell'art. 495 comma 2° c.p.p. e di cui sia stata omessa l'assunzione.
Nel primo caso non sembra possibile una valutazione di inutilizzabilità della prova, in quanto assunta in violazione dei divieti stabiliti dalla legge, se non si riconosce alla Corte di cassazione il potere di valutare gli atti al fine di accertare le concrete modalità di assunzione della prova stessa. Analogamente, nel secondo caso la mancata assunzione e la decisività della prova deve emergere dall'esame degli atti del processo e in particolare di quelli relativi all'assunzione delle prove.
Questa tesi evidenzia una incongruenza giacché appare contraddittorio ammettere la cognitio facti nelle due situazioni sopra indicate ed escluderla nell'ipotesi di omessa valutazione di una prova a difesa. Proprio per evitare siffatta incoerenza si sostiene che la Corte di cassazione può valutare l'inutilizzabilità della prova o la decisività della stessa solo sulla base delle argomentazioni o delle enunciazioni compiute dal giudice di merito nella sentenza impugnata (Spangher): tesi che evita un'incongruenza del sistema ma lo rende sotto altro profilo piuttosto sconcertante, in quanto appare inverosimile che un giudice condanni sulla base di una prova, che dalla stessa motivazione risulti inutilizzabile o condanni in seguito alla mancata assunzione di una prova richiesta dalla parte ex art. 495 comma 2° c.p.p. e che dalle stesse argomentazioni della sentenza impugnata risulti decisiva. La tesi criticata, non giustificata dal dato normativo, crea pure problemi di legittimità costituzionale.
Sembra, invero, contrastare con l'art. 3 Cost. il fatto che, di fronte a identiche situazioni di violazioni del diritto di difesa conseguenti alla valutazione di prove inutilizzabili o alla mancata assunzione di prove decisive richieste ai sensi dell'art. 495 comma 2° c.p.p., la Corte di cassazione possa o no espletare il suo sindacato a seconda che l'inutilizzabilità o la mancata assunzione emerga o no dal testo del provvedimento impugnato. Questo elemento di differenziazione non giustifica la disparità di trattamento, giacché esclude la sindacabilità del provvedimento proprio nei casi più gravi e, cioè, quelli in cui il giudice di merito non si è neppure preoccupato di giustificare la grave violazione di legge effettuata.
Del resto, una cognitio facti ex actis risulterebbe consentita pure con riferimento al potere conferito dalla Corte di cassazione di procedere alla determinazione della pena (art. 620 lett. l) c.p.p.) e di effettuare la riunione dei procedimenti in presenza di reati collegati dal nesso della continuazione, il che importa il riconoscimento della medesimezza del disegno criminoso (Bargis). Così pure una cognitio facti può essere indispensabile per l'applicazione di una legge più favorevole all'imputato nella situazione prevista dall'art. 619 comma 3° c.p.p.


8. Il disegno di legge 21 settembre 2005

Il disegno legge approvato dalla Camera dei deputati il 21 settembre 2005 apporta al comma 1 dell'art. 606 c.p.p. le seguenti modificazioni:
a) la lettera d) è sostituita dalla seguente:
``d) mancata assunzione di una prova decisiva quando la parte ne ha fatto richiesta, sempre che la stessa fosse ammissibile'';
b) la lettera e) è sostituita dalla seguente:
``e) se manca o è contraddittoria o è manifestamente illogica la motivazione''.
Orbene, la modifica della lettera d) non può non suscitare una totale disapprovazione posto che aumenta in modo irragionevole la ricorribilità in cassazione e la cognitio facti ex actis della Corte di cassazione. Infatti, ogniqualvolta il giudice di merito respinga una richiesta di prova ritenendola irrilevante o superflua, si potrà sostenere, invece, la decisività della prova stessa in astratto ammissibile, costringendo la Corte di cassazione ad un esame degli atti per valutare la portata della prova.
Per quanto concerne la modifica della lettera e), va rilevato come tale modifica indubbiamente faccia venir meno i problemi di legittimità costituzionale sopra prospettati ma, nel contempo, rappresenti un ritorno al passato, posto che il mancato riferimento al testo del provvedimento impugnato ripristina completamente una valutazione della mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione rapportata agli atti del processo e, quindi, la legittimità di una cognitio facti ex actis da parte della Corte di cassazione, rendendo estremamente più agevole la ricorribilità in cassazione per vizio di motivazione. Ciò ovviamente a scapito di una durata ragionevole del processo.
In conclusione: il vizio di motivazione non può non comportare una valutazione di fatto della Corte di cassazione e non può non facilitare in maniera eccessiva la presentazione dei ricorsi per cassazione. Il cercare di limitarlo con il riferimento al testo del provvedimento impugnato crea insuperabili problemi di legittimità costituzionale.
Pertanto, delle due l'una: o si vieta la ricorribilità in cassazione per vizio di motivazione evitando che la Corte di cassazione decida come terzo giudice di merito o si riduce la ricorribilità in cassazione non consentendola per tutte le sentenze e, modificando, quindi, l'art. 111 comma 7° Cost.
La prima soluzione certamente drastica e certamente idonea a concretare una durata più ragionevole del processo non appare realistica e, oltre tutto, si presterebbe alla critica che appare contraddittorio, da un lato, mantenere un secondo giudizio di merito idoneo a riformare totalmente la sentenza di primo grado e, dall'altro, non consentire alcun controllo sulla sentenza del giudice d'appello.
La seconda soluzione è, invece, certamente percorribile. È illogico che sia consentito ricorrere per cassazione alla parte che ha patteggiato la pena ai sensi dell'art. 444 c.p.p. o ha ottenuto una sentenza dal giudice d'appello in conseguenza dell'accordo previsto dall'art. 599 c.p.p. Così pure potrebbe essere prevista la non ricorribilità in cassazione contro il provvedimento di archiviazione nonché contro sentenze di condanna non significative.
Vi sono poi riforme molto semplici e di notevole incidenza pratica. Si potrebbe ridurre da tre a cinque il numero dei componenti le singole sezioni penali della Corte di cassazione ed, in tal modo, sarebbe possibile creare quattro nuove sezioni penali della Corte di cassazione. In un sistema processuale in cui un tribunale monocratico può infliggere dieci anni di reclusione e, in caso di giudizio abbreviato, il giudice monocratico dell'udienza preliminare può condannare imputati responsabili di reati punibili con l'ergastolo, non risulterebbe anomalo che le sezioni singole della Corte di cassazione siano formate da tre giudici. A poco, però, servirebbe questa riforma se i giudici non avessero più tempo per redigere un maggior numero di sentenze e, a tal fine, si renderebbe necessario eliminare la discussione nelle udienze avanti alla Corte di cassazione. Non ritengo che la discussione avanti al giudice di legittimità sia inutile ma certamente spesso lo è quando gli avvocati si limitino, come normalmente avviene, a parafrasare i motivi di cassazione. In ogni caso, tramite i motivi aggiunti e la presentazione di memorie difensive, la difesa ha la possibilità di integrare tutte le considerazioni esposte nei motivi principali e, pertanto, il sacrificio della discussione è un sacrificio accettabile per realizzare quantomeno una durata meno irragionevole del processo.

Ritorna al link(*) Il presente scritto costituisce il testo della Relazione, tenuta il 14 ottobre 2005 a Lecce al Convegno di studio Enrico De Nicola del Centro Nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale su: ``Per una giustizia penale più sollecita: ostacoli e rimedi ragionevoli''

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