UNIONE DELLE CAMERE PENALI ITALIANE
X CORSO NAZIONALE DI FORMAZIONE SPECIALISTICA DELL’AVVOCATO PENALISTA – lezione del giorno 28.09.2007
IL CONDIZIONAMENTO DEI MEDIA NEL PROCESSO PENALE
Lo scrittore Alessandro Baricco, intervenendo ad un dibattito sulla querelle mass-media - cultura, ha affermato che l’attrito è inevitabile e che non lo si risolve certamente affidandosi alla “divulgazione” intesa come un modo semplice per dire cose complicate. Non esiste, infatti, un modo semplice per dire cose complicate; le cose complicate vanno approfondite e analizzate, disponendo di moltissimo tempo e spazio: ma i mass-media hanno poco tempo e poco spazio.
“La televisione ci fa vedere delle facce - sostiene il critico Beniamino Placido - la faccia della madre vedova, la faccia del padre disperato, la faccia del rapito, la faccia dell’arrestato. E’ un suo grandissimo merito. Ma la televisione non sa e non può andare oltre. Quelle facce rimangono delle facce. Niente di male, basterebbe riconoscerlo. Infatti, non omnia possumus omnes. Ed invece, nel momento in cui la televisione ha a disposizione una faccia, commette un grosso errore di superbia. Cede alla tentazione che tutto le sia possibile. Che basti chiedere “che cosa si prova ?” per approfondire, perché tutto sia chiaro” ( B. Placido, La televisione col cagnolino, Bologna, 1993 p. 91 ) .
La televisione non capisce la distinzione tra faccia e facciata, non capisce che dietro la facciata della faccia c’è un altro universo.
E’ agevole comprendere che la psicologia dell’innamoramento può essere raccontata in modo approfondito in un romanzo di 500 pagine che ne evidenzi il groviglio di sensazioni (i tremori, le rabbie, i dubbi, le contraddizioni) e non già in un’intervista televisiva alla cui domanda di rito:”Che cosa si prova ?”, non potrà esserci che una risposta banale.
Ecco, la televisione può sinteticamente raccontare il fatto, ma deve poi necessariamente restare sulle facce e sulle facciate, all’esterno. Che cosa ci sia davvero nella testa di quell’innamorato (o di quella donna che ha perso il figlio, il marito, ecc...) nemmeno ce lo chiediamo più. Stiamo perdendo l’abitudine. “Rischiamo così - continua Placido - di smarrire il senso della duplicità di ogni individuo. C’è una parte che si vede. C’è una parte che non si vede, e non è di facile accesso. Rischiamo di perdere il contatto con una delle dimensioni importanti della realtà. Se ci limitiamo alla televisione. Se non apriamo un romanzo”.
Anche noi operatori della giustizia rischiamo di perdere il contatto con la realtà giurisdizionale se non apriremo il nostro romanzo processuale, approfondendo lo studio delle carte processuali, frastornati e confusi dalla miriade di schegge di informazioni che preannunziano ed anticipano il processo, stravolgendolo a tal punto “da farci dubitare che sia proprio il nostro processo e non quello di un altro” ( G. Gulotta, Mass media: la costruzione della realtà sociale, relazione al convegno “Mass media e criminalità violenta”, svoltosi a Noto nei giorni 8-10 luglio 1993, ined. )
Effettivamente a volte rischiamo, studiando le carte di un processo particolarmente eclatante, già raccontato dai media, di non riconoscere più il nostro processo. Rischiamo, infatti, di smarrirci, senza riuscire a comprendere il meccanismo causativo dei mosaici d’interferenza e finendo a volte con lo “scaricare” la responsabilità di tale smarrimento esclusivamente sui singoli protagonisti del processo (giudici, avvocati, pm, cronisti, imputati, ecc... ).
Così come forse ci accade, a titolo esemplificativo (e il paragone non sembri irriverente !), quando ci rechiamo a teatro per assistere al musical americano: sì, proprio quel musical che a noi europei della generazione del dopoguerra è stato raccontato esclusivamente dalla cultura cinematografica americana; a teatro, infatti, non riconosceremo più quel musical, che fa parte ormai del nostro immaginario collettivo cinematografico, perché non ritroveremo quei piani - sequenza, quegli stacchi di macchina così veloci ed efficaci, quei primi piani di passi acrobatici che tanto ci avevano incantato nelle sale cinematografiche; a teatro, tutto ci sembra diverso, insopportabilmente lento e forse anche goffo e deludente.
Per giustificare il nostro smarrimento, saremo allora, forse, poco indulgenti verso quel coreografo, quelle ballerine, quei costumisti, senza renderci conto che spesso molto dipende non dagli incolpevoli protagonisti della pièce, ma dalla funzionalità diversa del medium cinematografico rispetto a quello teatrale i cui ritmi e tempi diversi sono completamente fagocitati dalla velocità ed immediatezza del linguaggio filmico.
Forse l’unico addebito che può essere mosso contro il coreografo (e gli altri protagonisti) è quello di non aver tenuto conto delle differenze insite nella diversità dei due medium. Di non aver attentamente compreso e valutato le differenze di linguaggi e, dunque, di non aver considerato le probabili interferenze di percezioni che inevitabilmente avrebbero influenzato il suo progetto lavorativo.
E’ forse lo stesso addebito che può essere mosso agli operatori giuridici: il non aver compreso appieno che i cambiamenti tecnologici sulle forme di comunicazione sono ancora più carichi di ideologia che i cambiamenti nei nostri mezzi di trasporto. Introdurre l'alfabeto in una cultura significa cambiare le sue abituali capacità cognitive, le sue relazioni sociali, le sue nozioni di comunità, di storia, di religione. Con l'invenzione della stampa si otterrà il medesimo stravolgimento. Se infine introdurremmo la trasmissione delle immagini alla velocità della luce, quale forma di comunicazione, produrremo un'autentica rivoluzione culturale. Senza guerre.
Con l'avvento della comunicazione televisiva le idee ed i contenuti politici perdono le tradizionali caratteristiche enunciative e argomentative del discorso pubblico che non potrà più essere caratterizzato da acuti distinguo, sfumature concettuali, lunghezza, concatenazione di nessi causali, ironie, confronti ragionati, paradossi. Il discorso pubblico in televisione, si è rimodellato su quello dei formati televisivi risultando pertanto caratterizzato da brevità, umorismo, elementarità del linguaggio, collezione di frasi a effetto, proposizioni non ordinate sintatticamente.
Come sostiene Neil Postman, è apparso sulla scena del discorso politico il responsabile dell'immagine ed è invece in declino l'estensore dei discorsi: ciò dimostra che la TV provoca un tipo diverso di contenuti. Non si fa filosofia alla TV, la forma è contro il contenuto.
Le differenze che assume il discorso in una cultura imperniata sulla stampa in confronto ad una cultura televisiva risultano evidenti e, come di seguito sarà specificato, tali differenze dispiegano conseguentemente effetti anche nel campo del diritto.
E' necessario evidenziare che occorre tralasciare il modo di pensare "a specchio retrovisore": l'automobile. ad esempio, non è soltanto una carrozza più veloce, la luce elettrica non è una candela più potente, la televisione non estende né amplifica la cultura libresca, tipografica: la distrugge. Se la televisione è la tradizione di qualcosa, lo è di una tradizione iniziata alla metà dell'800 con il telegrafo e la fotografia, non nel '400 con la stampa. Il telegrafo ha infatti introdotto una forma di conversazione ed un linguaggio tipico dei titoli giornalistici: sensazionale, frammentario, impersonale. Le notizie hanno preso la forma di slogan, per richiamare l'attenzione ed essere dimenticate subito dopo. E' un linguaggio discontinuo. Ogni messaggio è privo di qualsiasi connessione con quello che lo precede e con quello che lo segue. Come il telegrafo, anche la fotografia ricrea il mondo come una serie di eventi idiosincratici. Non ci sono inizio, intermezzo, fine in un mondo di fotografie, come non ci sono nel mondo del telegrafo. Il mondo è atomizzato; ha solo il presente e non richiede di essere parte di una storia.
Sempre secondo Neil Postman, il telegrafo, la fotografia, il cinema, hanno dato vita ad un nuovo mondo - il mondo del "cucù" - dove ora questo, ora quell'evento, appaiono per un momento per poi scomparire. Un mondo senza senso né coerenza. La televisione ha dato la massima accelerazione a tale fenomeno portando l'interscambio tra l'immagine e l'istantaneità ad una perfezione squisita e pericolosa, fin dentro le case dei cittadini. Non c'è argomento d'interesse pubblico - politica, notizie, educazione, religione, scienza, sport - che non trovi la sua strada nella televisione. Il che significa che tutta la comprensione pubblica di questi argomenti è modellata secondo le distorsioni della televisione. E quando la guardiamo finiamo per accettarla così com'è, come un fatto naturale. E il “mondo del cucù”, ovverossia dell'apparire e dello scomparire, senza alcuna comprensione dei processi causativi sottesi, non ci sembra nemmeno strano: il mondo così come ci viene presentato dalla TV ci sembra ormai naturale. In ragione di ciò si può concludere che "la strada televisiva della conoscenza è assolutamente nemica di quella tipografica" e che la televisione parla con una sola voce persistente: la voce dell'intrattenimento.
Ciascuna delle nostre Istituzioni per poter entrare nel grande discorso della televisione, è costretta ad adattarsi a quel linguaggio. La televisione, in altre parole, sta trasformando la nostra civiltà in una vasta arena da grande spettacolo. Certo, è possibile che alla fine troveremo che questo va benissimo e decideremo che è quel che vogliamo. E' proprio ciò che, cinquant'anni fa, Aldous Huxley temeva che accadesse.
Ed invero, tra la profezia di George Orwell, che ipotizzava un regime in cui l’esecutivo avrebbe esercitato un devastante vaglio censorio ed un controllo totale dei flussi informativi, e quella di Huxley, è quest’ultima che probabilmente – secondo Postman – si è realizzata:
“ Orwell temeva coloro che ci avrebbero privati delle informazioni; Huxley, quelli che ce ne avrebbero date troppe, fino a ridurci alla passività e all’egoismo.
Orwell temeva che la nostra sarebbe stata una civiltà di schiavi; Huxley, che sarebbe stata un cultura cafonesca, ricca solo di sensazioni e bambinate”3 ( Neil Postman, Divertirsi da morire, ed. Marsilio, 2002 ), dominata, anzicché dalle punizioni, da piaceri effimeri.
In un simile scenario ancora più agevolmente può insinuarsi lo stato di eccezione permanente teorizzato da Giorgio Agamben, ossia quella sospensione dell'ordine giuridico che siamo abituati a considerare una misura provvisoria e straordinaria ma che invece è presente come forma contemporanea "normale" di governo.
Sia pure in maniera piuttosto insoddisfacente, il legislatore del nuovo processo penale ha dovuto prendere atto che, rispetto all’epoca del codice Rocco, il nuovo rito, lungi dal poter essere, al pari di tutti i riti, dominato dal silenzio e dalla correttezza, è assediato dai “signori dell’informazione di massa”. Ci sia consentito affermare che, tra gli ultimi ad accorgersi che il nuovo sistema di distribuzione dell’informazione condizionava l’andamento del processo penale, si annoveravano proprio gli operatori del “pianeta giustizia”. Mentre, infatti, la dottrina e gli studiosi in genere delle moderne scienze sociali evidenziavano gli effetti positivi e negativi di quel sistema nell’ambito di altre discipline, il legislatore italiano si limitava a prendere atto timidamente della problematica in questione, mediante la previsione dell’art. 114 c.p.p.. Questa norma distingue, infatti, tra pubblicazione del contenuto di un atto e pubblicazione integrale dell’atto stesso: tale distinzione è stata voluta dai redattori del nuovo codice “non per proteggere il segreto investigativo, ma per evitare che il giudice del dibattimento possa essere condizionato”( P.L. Vigna, Attività investigativa e informazione, relazione al convegno nazionale di studi “Il reato, il processo, la notizia”, svoltosi a Selva di Fasano (Br) nei giorni 28,29 e 30 maggio 1993, ined. ) , giacché il contenuto degli atti genericamente riportato dalla stampa ha meno incisivi effetti d’influenza sul “giudice terzo” rispetto alla propalazione integrale dell’atto ufficiale.
Ciò si desume dall’esame della Relazione al progetto preliminare, laddove si afferma (pag. 49) che “il giudice del dibattimento, se può essere influenzato dalla pubblicazione degli atti veri e propri, è in grado di non fondare il proprio convincimento su notizie di stampa più o meno generiche e prive di riscontri documentali riguardanti il contenuto degli atti”.
Rispetto alle miriadi di schegge d’informazione giudiziaria, prodotte negli ultimi tempi, tali affermazioni contenute nella Relazione appaiono davvero risibili ed inattuali.
E’, però, pur vero che il legislatore ha quantomeno evidenziato che il problema, in quanto tale, sussiste. E’ questo, senz’altro, un passo avanti rispetto alla scarsa lungimiranza mostrata, nei tempi andati, da parte di molti operatori giuridici i quali, solo negli ultimi anni, si sono avveduti degli effetti devastanti che i mosaici d’interferenza provocano sul processo penale. Da troppo poco tempo, infatti, si è compreso che il processo penale non può più essere ritenuto un “luogo neutro”, o a compartimenti stagni, così come l’oleografia della retorica forense e giudiziaria aveva tramandato.
Sul punto, appare più che fondato il sospetto che il processo penale non sia mai stato un luogo scevro da influenze: si pensi alle legittime doglianze che l’avvocatura penale, e non solo, ha manifestato in questi anni contro le legislazioni incoerenti e contraddittorie decretate con urgenza “selvaggia” a seconda della diverse linee di politica criminale sperimentate negli anni; decretazioni d’urgenza oscillanti come un pendolo sospinto dal clamore degli eventi ed a giusta ragione definite “pendolarismo legislativo”.
Una volta accertato che il meccanismo d’interazione tra il processo penale e i mezzi d’informazione di massa esiste davvero, essendo stato persino preso in considerazione del legislatore con la previsione dell’art. 114 c.p.p., occorre ribadire che la questione non può liquidarsi frettolosamente, riconducendola ad una carenza di deontologia o, meglio, ad un personale protagonismo di avvocati ed inquirenti, da un lato, ed alle intemperanze dei “cattivi cronisti”, dall’altro.
E’ inutile, pertanto, disquisire ad limitum tra questioni di opportunità o infrazioni a norme di deontologia giacché resterebbe impregiudicato il nodo centrale del problema che deve invece ravvisarsi nel nuovo modello di produzione e distribuzione dell’informazione oggi esistente. Pertanto, diviene prioritaria l’analisi del complesso meccanismo di interazione tra la notitia criminis e l’attuale sistema di distribuzione dell’informazione. Questa è l’unica strada percorribile per la comprensione dell’inestricabile groviglio tra realtà e finzione che ci circonda ed influenza fortemente lo specifico del processo penale.
Al contrario, la demonizzazione degli inquirenti e, soprattutto, degli operatori dell’informazione certamente non risolve il problema. Anzi, tale demonizzazione svolge soltanto una funzione “esorcistica” e, com’è noto, un problema esorcizzato non è un problema risolto. Tutt’altro. Pertanto, è opportuno sceverare attentamente i meccanismi condizionanti che inquinano il processo penale, tenendo presente che il libero convincimento, non consistendo in una mera formula magica, si traduce sostanzialmente in un tasso di humus culturale che è determinato, essenzialmente, dal tipo d’informazione che si riceve.
E’, infatti, evidente che il grado di professionalità e di indipendenza di un magistrato (e di un avvocato, per converso) è direttamente proporzionale al suo indice di comprensione dei nuovi mosaici d’interferenza, ai suoi parametri culturali, alla sua curiosità intellettuale ed al rigoroso rispetto delle regole della giurisdizione.
Appare necessario ed inderogabile, a questo punto, un allargamento delle prospettive di analisi per identificare i complessi mosaici d’interferenza che, con il concorso delle decretazioni di urgenza, inquinano il processo penale, stravolgendolo.
E’ necessario sperimentare nuovi sentieri esplorativi, anche mutuati dalle tesi delle moderne scienze sociali, attraverso una metodologia d’indagine che riesca ad individuare i fattori estrinseci ed intrinseci che condizionano attualmente il metodo di formazione della prova e, conseguentemente, i criteri valutativi della stessa.
Pertanto, un corretto approccio d’indagine sullo stato di disagio in cui versa oggi il processo penale non può prescindere dall’esame delle influenze che i mezzi d’informazione di massa dispiegano sulle dinamiche relative al modo di formazione della prova.
I sistemi di comunicazione hanno, in tutte le epoche, influenzato il modo in cui gli uomini percepiscono il reale.
Nelle società prealfabetiche i graffiti rappresentavano mezzo di espressione e sistema di comunicazione complessivo; nelle società alfabetiche, la scrittura influenzò la settorializzazione delle comunicazioni. Allo stesso modo, la stampa dell’ “era di Gutenberg” massificò la comunicazione settoriale. Successivamente, i nuovi media hanno modificato i rapporti interpersonali tra gli uomini, influenzandone lo psichismo. I c.d. “media elettrici” (radio, televisione, ecc...) presentano un’ulteriore connotazione: la simultaneità dell’informazione, sì da trasformare il pianeta nel quale viviamo in un “villaggio globale”, laddove la contestualità dell’informazione dovrebbe permettere agli uomini di partecipare come in un villaggio di epoca tribale alla elezione dei loro capi, nonché alla discussione sugli avvenimenti che accadono nella comunità.
Tutto ciò si realizza attraverso la sostituzione dell’antico fuoco, attorno al quale si riuniva la tribù, con la luce del medium televisivo.
Lo studioso di comunicazioni di massa Marshall Mc Lucan sosteneva che il “medium è il messaggio”: in un tale contesto, più del contenuto della notizia, ha rilevanza il sistema stesso che si sceglie per la distribuzione delle informazioni; e il nostro sistema distributivo simultaneo risulta così assorbente da far ritenere inesistente ciò che da esso non viene propagato.
I nuovi media hanno contribuito alla caduta delle ideologie, con la conseguenza che gli avvenimenti non vengono più inquadrati in visioni generali complessive; l’informazione, cioè, non è più trasmessa rispettando la genesi ed i processi causativi sottesi agli avvenimenti stessi, ma si è trasformata in informazione scheggiata, secondo il modello del linguaggio da spot pubblicitario o sportivo. Viene, quindi, prodotta un’informazione superficiale e riduttiva, e, soprattutto, non obiettiva.
La non obiettività della notizia risulta dall’analisi del nuovo mezzo, attraverso cui esse è prodotta, a prescindere da manipolazioni specifiche, quali quelle poste in essere da lobbies economiche e gruppi di potere politici che finanziano i diversi circuiti d’informazione.
Il problema non è dunque prevalentemente il comportamento del giornalista: il problema è un meccanismo occulto e incontrollabile di selezione e di filtraggio che guida minuziosamente il processo della trasformazione della realtà in informazione… Anche l’affidabilità delle fonti nel processo giornalistico tende ad essere sempre più “convenzionale”; nel senso che certi fatti, nel racconto giornalistico, non possono che essere accettati come veri, anche se non sono stati direttamente verificati. Ciò è sempre più normale, a mano a mano che aumenta, nell’informazione planetaria, la distanza tra il fatto e chi ne riferisce; tende addirittura ad essere consuetudine per le notizie di fonte ufficiale, cui generalmente si attribuisce senza ulteriori verifiche la caratteristica di fatti “obiettivi”… In definitiva i giornalisti si trovano volenti o nolenti a passare nell’area della collaborazione con le loro fonti. La produzione delle notizie avviene attraverso una sorta di condivisione, a volte di complicità, tra la fonte e il reporter. Il fenomeno è del tutto comprensibile: basti pensare ai rapporti che inevitabilmente si stabiliscono tra il giornalista e il suo potenziale informatore, sia esso un politico, un funzionario di governo, un magistrato, un poliziotto. In che misura la fonte è utilizzata, e in che misura esse stessa utilizza la diffusione di una notizia ? Chi ha deciso di aprire il caso Watergate: i reporter del Washington Post o “Gola profonda” ? Quali patti di reciproca protezione (e censura) si stabiliscono tra fonte e giornalista ? ( Claudio Fracassi Sotto la notizia niente Saggio sull’informazione planetaria – Editori Riuniti ) .
X CORSO NAZIONALE DI FORMAZIONE SPECIALISTICA DELL’AVVOCATO PENALISTA – lezione del giorno 28.09.2007
IL CONDIZIONAMENTO DEI MEDIA NEL PROCESSO PENALE
Lo scrittore Alessandro Baricco, intervenendo ad un dibattito sulla querelle mass-media - cultura, ha affermato che l’attrito è inevitabile e che non lo si risolve certamente affidandosi alla “divulgazione” intesa come un modo semplice per dire cose complicate. Non esiste, infatti, un modo semplice per dire cose complicate; le cose complicate vanno approfondite e analizzate, disponendo di moltissimo tempo e spazio: ma i mass-media hanno poco tempo e poco spazio.
“La televisione ci fa vedere delle facce - sostiene il critico Beniamino Placido - la faccia della madre vedova, la faccia del padre disperato, la faccia del rapito, la faccia dell’arrestato. E’ un suo grandissimo merito. Ma la televisione non sa e non può andare oltre. Quelle facce rimangono delle facce. Niente di male, basterebbe riconoscerlo. Infatti, non omnia possumus omnes. Ed invece, nel momento in cui la televisione ha a disposizione una faccia, commette un grosso errore di superbia. Cede alla tentazione che tutto le sia possibile. Che basti chiedere “che cosa si prova ?” per approfondire, perché tutto sia chiaro” ( B. Placido, La televisione col cagnolino, Bologna, 1993 p. 91 ) .
La televisione non capisce la distinzione tra faccia e facciata, non capisce che dietro la facciata della faccia c’è un altro universo.
E’ agevole comprendere che la psicologia dell’innamoramento può essere raccontata in modo approfondito in un romanzo di 500 pagine che ne evidenzi il groviglio di sensazioni (i tremori, le rabbie, i dubbi, le contraddizioni) e non già in un’intervista televisiva alla cui domanda di rito:”Che cosa si prova ?”, non potrà esserci che una risposta banale.
Ecco, la televisione può sinteticamente raccontare il fatto, ma deve poi necessariamente restare sulle facce e sulle facciate, all’esterno. Che cosa ci sia davvero nella testa di quell’innamorato (o di quella donna che ha perso il figlio, il marito, ecc...) nemmeno ce lo chiediamo più. Stiamo perdendo l’abitudine. “Rischiamo così - continua Placido - di smarrire il senso della duplicità di ogni individuo. C’è una parte che si vede. C’è una parte che non si vede, e non è di facile accesso. Rischiamo di perdere il contatto con una delle dimensioni importanti della realtà. Se ci limitiamo alla televisione. Se non apriamo un romanzo”.
Anche noi operatori della giustizia rischiamo di perdere il contatto con la realtà giurisdizionale se non apriremo il nostro romanzo processuale, approfondendo lo studio delle carte processuali, frastornati e confusi dalla miriade di schegge di informazioni che preannunziano ed anticipano il processo, stravolgendolo a tal punto “da farci dubitare che sia proprio il nostro processo e non quello di un altro” ( G. Gulotta, Mass media: la costruzione della realtà sociale, relazione al convegno “Mass media e criminalità violenta”, svoltosi a Noto nei giorni 8-10 luglio 1993, ined. )
Effettivamente a volte rischiamo, studiando le carte di un processo particolarmente eclatante, già raccontato dai media, di non riconoscere più il nostro processo. Rischiamo, infatti, di smarrirci, senza riuscire a comprendere il meccanismo causativo dei mosaici d’interferenza e finendo a volte con lo “scaricare” la responsabilità di tale smarrimento esclusivamente sui singoli protagonisti del processo (giudici, avvocati, pm, cronisti, imputati, ecc... ).
Così come forse ci accade, a titolo esemplificativo (e il paragone non sembri irriverente !), quando ci rechiamo a teatro per assistere al musical americano: sì, proprio quel musical che a noi europei della generazione del dopoguerra è stato raccontato esclusivamente dalla cultura cinematografica americana; a teatro, infatti, non riconosceremo più quel musical, che fa parte ormai del nostro immaginario collettivo cinematografico, perché non ritroveremo quei piani - sequenza, quegli stacchi di macchina così veloci ed efficaci, quei primi piani di passi acrobatici che tanto ci avevano incantato nelle sale cinematografiche; a teatro, tutto ci sembra diverso, insopportabilmente lento e forse anche goffo e deludente.
Per giustificare il nostro smarrimento, saremo allora, forse, poco indulgenti verso quel coreografo, quelle ballerine, quei costumisti, senza renderci conto che spesso molto dipende non dagli incolpevoli protagonisti della pièce, ma dalla funzionalità diversa del medium cinematografico rispetto a quello teatrale i cui ritmi e tempi diversi sono completamente fagocitati dalla velocità ed immediatezza del linguaggio filmico.
Forse l’unico addebito che può essere mosso contro il coreografo (e gli altri protagonisti) è quello di non aver tenuto conto delle differenze insite nella diversità dei due medium. Di non aver attentamente compreso e valutato le differenze di linguaggi e, dunque, di non aver considerato le probabili interferenze di percezioni che inevitabilmente avrebbero influenzato il suo progetto lavorativo.
E’ forse lo stesso addebito che può essere mosso agli operatori giuridici: il non aver compreso appieno che i cambiamenti tecnologici sulle forme di comunicazione sono ancora più carichi di ideologia che i cambiamenti nei nostri mezzi di trasporto. Introdurre l'alfabeto in una cultura significa cambiare le sue abituali capacità cognitive, le sue relazioni sociali, le sue nozioni di comunità, di storia, di religione. Con l'invenzione della stampa si otterrà il medesimo stravolgimento. Se infine introdurremmo la trasmissione delle immagini alla velocità della luce, quale forma di comunicazione, produrremo un'autentica rivoluzione culturale. Senza guerre.
Con l'avvento della comunicazione televisiva le idee ed i contenuti politici perdono le tradizionali caratteristiche enunciative e argomentative del discorso pubblico che non potrà più essere caratterizzato da acuti distinguo, sfumature concettuali, lunghezza, concatenazione di nessi causali, ironie, confronti ragionati, paradossi. Il discorso pubblico in televisione, si è rimodellato su quello dei formati televisivi risultando pertanto caratterizzato da brevità, umorismo, elementarità del linguaggio, collezione di frasi a effetto, proposizioni non ordinate sintatticamente.
Come sostiene Neil Postman, è apparso sulla scena del discorso politico il responsabile dell'immagine ed è invece in declino l'estensore dei discorsi: ciò dimostra che la TV provoca un tipo diverso di contenuti. Non si fa filosofia alla TV, la forma è contro il contenuto.
Le differenze che assume il discorso in una cultura imperniata sulla stampa in confronto ad una cultura televisiva risultano evidenti e, come di seguito sarà specificato, tali differenze dispiegano conseguentemente effetti anche nel campo del diritto.
E' necessario evidenziare che occorre tralasciare il modo di pensare "a specchio retrovisore": l'automobile. ad esempio, non è soltanto una carrozza più veloce, la luce elettrica non è una candela più potente, la televisione non estende né amplifica la cultura libresca, tipografica: la distrugge. Se la televisione è la tradizione di qualcosa, lo è di una tradizione iniziata alla metà dell'800 con il telegrafo e la fotografia, non nel '400 con la stampa. Il telegrafo ha infatti introdotto una forma di conversazione ed un linguaggio tipico dei titoli giornalistici: sensazionale, frammentario, impersonale. Le notizie hanno preso la forma di slogan, per richiamare l'attenzione ed essere dimenticate subito dopo. E' un linguaggio discontinuo. Ogni messaggio è privo di qualsiasi connessione con quello che lo precede e con quello che lo segue. Come il telegrafo, anche la fotografia ricrea il mondo come una serie di eventi idiosincratici. Non ci sono inizio, intermezzo, fine in un mondo di fotografie, come non ci sono nel mondo del telegrafo. Il mondo è atomizzato; ha solo il presente e non richiede di essere parte di una storia.
Sempre secondo Neil Postman, il telegrafo, la fotografia, il cinema, hanno dato vita ad un nuovo mondo - il mondo del "cucù" - dove ora questo, ora quell'evento, appaiono per un momento per poi scomparire. Un mondo senza senso né coerenza. La televisione ha dato la massima accelerazione a tale fenomeno portando l'interscambio tra l'immagine e l'istantaneità ad una perfezione squisita e pericolosa, fin dentro le case dei cittadini. Non c'è argomento d'interesse pubblico - politica, notizie, educazione, religione, scienza, sport - che non trovi la sua strada nella televisione. Il che significa che tutta la comprensione pubblica di questi argomenti è modellata secondo le distorsioni della televisione. E quando la guardiamo finiamo per accettarla così com'è, come un fatto naturale. E il “mondo del cucù”, ovverossia dell'apparire e dello scomparire, senza alcuna comprensione dei processi causativi sottesi, non ci sembra nemmeno strano: il mondo così come ci viene presentato dalla TV ci sembra ormai naturale. In ragione di ciò si può concludere che "la strada televisiva della conoscenza è assolutamente nemica di quella tipografica" e che la televisione parla con una sola voce persistente: la voce dell'intrattenimento.
Ciascuna delle nostre Istituzioni per poter entrare nel grande discorso della televisione, è costretta ad adattarsi a quel linguaggio. La televisione, in altre parole, sta trasformando la nostra civiltà in una vasta arena da grande spettacolo. Certo, è possibile che alla fine troveremo che questo va benissimo e decideremo che è quel che vogliamo. E' proprio ciò che, cinquant'anni fa, Aldous Huxley temeva che accadesse.
Ed invero, tra la profezia di George Orwell, che ipotizzava un regime in cui l’esecutivo avrebbe esercitato un devastante vaglio censorio ed un controllo totale dei flussi informativi, e quella di Huxley, è quest’ultima che probabilmente – secondo Postman – si è realizzata:
“ Orwell temeva coloro che ci avrebbero privati delle informazioni; Huxley, quelli che ce ne avrebbero date troppe, fino a ridurci alla passività e all’egoismo.
Orwell temeva che la nostra sarebbe stata una civiltà di schiavi; Huxley, che sarebbe stata un cultura cafonesca, ricca solo di sensazioni e bambinate”3 ( Neil Postman, Divertirsi da morire, ed. Marsilio, 2002 ), dominata, anzicché dalle punizioni, da piaceri effimeri.
In un simile scenario ancora più agevolmente può insinuarsi lo stato di eccezione permanente teorizzato da Giorgio Agamben, ossia quella sospensione dell'ordine giuridico che siamo abituati a considerare una misura provvisoria e straordinaria ma che invece è presente come forma contemporanea "normale" di governo.
Sia pure in maniera piuttosto insoddisfacente, il legislatore del nuovo processo penale ha dovuto prendere atto che, rispetto all’epoca del codice Rocco, il nuovo rito, lungi dal poter essere, al pari di tutti i riti, dominato dal silenzio e dalla correttezza, è assediato dai “signori dell’informazione di massa”. Ci sia consentito affermare che, tra gli ultimi ad accorgersi che il nuovo sistema di distribuzione dell’informazione condizionava l’andamento del processo penale, si annoveravano proprio gli operatori del “pianeta giustizia”. Mentre, infatti, la dottrina e gli studiosi in genere delle moderne scienze sociali evidenziavano gli effetti positivi e negativi di quel sistema nell’ambito di altre discipline, il legislatore italiano si limitava a prendere atto timidamente della problematica in questione, mediante la previsione dell’art. 114 c.p.p.. Questa norma distingue, infatti, tra pubblicazione del contenuto di un atto e pubblicazione integrale dell’atto stesso: tale distinzione è stata voluta dai redattori del nuovo codice “non per proteggere il segreto investigativo, ma per evitare che il giudice del dibattimento possa essere condizionato”( P.L. Vigna, Attività investigativa e informazione, relazione al convegno nazionale di studi “Il reato, il processo, la notizia”, svoltosi a Selva di Fasano (Br) nei giorni 28,29 e 30 maggio 1993, ined. ) , giacché il contenuto degli atti genericamente riportato dalla stampa ha meno incisivi effetti d’influenza sul “giudice terzo” rispetto alla propalazione integrale dell’atto ufficiale.
Ciò si desume dall’esame della Relazione al progetto preliminare, laddove si afferma (pag. 49) che “il giudice del dibattimento, se può essere influenzato dalla pubblicazione degli atti veri e propri, è in grado di non fondare il proprio convincimento su notizie di stampa più o meno generiche e prive di riscontri documentali riguardanti il contenuto degli atti”.
Rispetto alle miriadi di schegge d’informazione giudiziaria, prodotte negli ultimi tempi, tali affermazioni contenute nella Relazione appaiono davvero risibili ed inattuali.
E’, però, pur vero che il legislatore ha quantomeno evidenziato che il problema, in quanto tale, sussiste. E’ questo, senz’altro, un passo avanti rispetto alla scarsa lungimiranza mostrata, nei tempi andati, da parte di molti operatori giuridici i quali, solo negli ultimi anni, si sono avveduti degli effetti devastanti che i mosaici d’interferenza provocano sul processo penale. Da troppo poco tempo, infatti, si è compreso che il processo penale non può più essere ritenuto un “luogo neutro”, o a compartimenti stagni, così come l’oleografia della retorica forense e giudiziaria aveva tramandato.
Sul punto, appare più che fondato il sospetto che il processo penale non sia mai stato un luogo scevro da influenze: si pensi alle legittime doglianze che l’avvocatura penale, e non solo, ha manifestato in questi anni contro le legislazioni incoerenti e contraddittorie decretate con urgenza “selvaggia” a seconda della diverse linee di politica criminale sperimentate negli anni; decretazioni d’urgenza oscillanti come un pendolo sospinto dal clamore degli eventi ed a giusta ragione definite “pendolarismo legislativo”.
Una volta accertato che il meccanismo d’interazione tra il processo penale e i mezzi d’informazione di massa esiste davvero, essendo stato persino preso in considerazione del legislatore con la previsione dell’art. 114 c.p.p., occorre ribadire che la questione non può liquidarsi frettolosamente, riconducendola ad una carenza di deontologia o, meglio, ad un personale protagonismo di avvocati ed inquirenti, da un lato, ed alle intemperanze dei “cattivi cronisti”, dall’altro.
E’ inutile, pertanto, disquisire ad limitum tra questioni di opportunità o infrazioni a norme di deontologia giacché resterebbe impregiudicato il nodo centrale del problema che deve invece ravvisarsi nel nuovo modello di produzione e distribuzione dell’informazione oggi esistente. Pertanto, diviene prioritaria l’analisi del complesso meccanismo di interazione tra la notitia criminis e l’attuale sistema di distribuzione dell’informazione. Questa è l’unica strada percorribile per la comprensione dell’inestricabile groviglio tra realtà e finzione che ci circonda ed influenza fortemente lo specifico del processo penale.
Al contrario, la demonizzazione degli inquirenti e, soprattutto, degli operatori dell’informazione certamente non risolve il problema. Anzi, tale demonizzazione svolge soltanto una funzione “esorcistica” e, com’è noto, un problema esorcizzato non è un problema risolto. Tutt’altro. Pertanto, è opportuno sceverare attentamente i meccanismi condizionanti che inquinano il processo penale, tenendo presente che il libero convincimento, non consistendo in una mera formula magica, si traduce sostanzialmente in un tasso di humus culturale che è determinato, essenzialmente, dal tipo d’informazione che si riceve.
E’, infatti, evidente che il grado di professionalità e di indipendenza di un magistrato (e di un avvocato, per converso) è direttamente proporzionale al suo indice di comprensione dei nuovi mosaici d’interferenza, ai suoi parametri culturali, alla sua curiosità intellettuale ed al rigoroso rispetto delle regole della giurisdizione.
Appare necessario ed inderogabile, a questo punto, un allargamento delle prospettive di analisi per identificare i complessi mosaici d’interferenza che, con il concorso delle decretazioni di urgenza, inquinano il processo penale, stravolgendolo.
E’ necessario sperimentare nuovi sentieri esplorativi, anche mutuati dalle tesi delle moderne scienze sociali, attraverso una metodologia d’indagine che riesca ad individuare i fattori estrinseci ed intrinseci che condizionano attualmente il metodo di formazione della prova e, conseguentemente, i criteri valutativi della stessa.
Pertanto, un corretto approccio d’indagine sullo stato di disagio in cui versa oggi il processo penale non può prescindere dall’esame delle influenze che i mezzi d’informazione di massa dispiegano sulle dinamiche relative al modo di formazione della prova.
I sistemi di comunicazione hanno, in tutte le epoche, influenzato il modo in cui gli uomini percepiscono il reale.
Nelle società prealfabetiche i graffiti rappresentavano mezzo di espressione e sistema di comunicazione complessivo; nelle società alfabetiche, la scrittura influenzò la settorializzazione delle comunicazioni. Allo stesso modo, la stampa dell’ “era di Gutenberg” massificò la comunicazione settoriale. Successivamente, i nuovi media hanno modificato i rapporti interpersonali tra gli uomini, influenzandone lo psichismo. I c.d. “media elettrici” (radio, televisione, ecc...) presentano un’ulteriore connotazione: la simultaneità dell’informazione, sì da trasformare il pianeta nel quale viviamo in un “villaggio globale”, laddove la contestualità dell’informazione dovrebbe permettere agli uomini di partecipare come in un villaggio di epoca tribale alla elezione dei loro capi, nonché alla discussione sugli avvenimenti che accadono nella comunità.
Tutto ciò si realizza attraverso la sostituzione dell’antico fuoco, attorno al quale si riuniva la tribù, con la luce del medium televisivo.
Lo studioso di comunicazioni di massa Marshall Mc Lucan sosteneva che il “medium è il messaggio”: in un tale contesto, più del contenuto della notizia, ha rilevanza il sistema stesso che si sceglie per la distribuzione delle informazioni; e il nostro sistema distributivo simultaneo risulta così assorbente da far ritenere inesistente ciò che da esso non viene propagato.
I nuovi media hanno contribuito alla caduta delle ideologie, con la conseguenza che gli avvenimenti non vengono più inquadrati in visioni generali complessive; l’informazione, cioè, non è più trasmessa rispettando la genesi ed i processi causativi sottesi agli avvenimenti stessi, ma si è trasformata in informazione scheggiata, secondo il modello del linguaggio da spot pubblicitario o sportivo. Viene, quindi, prodotta un’informazione superficiale e riduttiva, e, soprattutto, non obiettiva.
La non obiettività della notizia risulta dall’analisi del nuovo mezzo, attraverso cui esse è prodotta, a prescindere da manipolazioni specifiche, quali quelle poste in essere da lobbies economiche e gruppi di potere politici che finanziano i diversi circuiti d’informazione.
Il problema non è dunque prevalentemente il comportamento del giornalista: il problema è un meccanismo occulto e incontrollabile di selezione e di filtraggio che guida minuziosamente il processo della trasformazione della realtà in informazione… Anche l’affidabilità delle fonti nel processo giornalistico tende ad essere sempre più “convenzionale”; nel senso che certi fatti, nel racconto giornalistico, non possono che essere accettati come veri, anche se non sono stati direttamente verificati. Ciò è sempre più normale, a mano a mano che aumenta, nell’informazione planetaria, la distanza tra il fatto e chi ne riferisce; tende addirittura ad essere consuetudine per le notizie di fonte ufficiale, cui generalmente si attribuisce senza ulteriori verifiche la caratteristica di fatti “obiettivi”… In definitiva i giornalisti si trovano volenti o nolenti a passare nell’area della collaborazione con le loro fonti. La produzione delle notizie avviene attraverso una sorta di condivisione, a volte di complicità, tra la fonte e il reporter. Il fenomeno è del tutto comprensibile: basti pensare ai rapporti che inevitabilmente si stabiliscono tra il giornalista e il suo potenziale informatore, sia esso un politico, un funzionario di governo, un magistrato, un poliziotto. In che misura la fonte è utilizzata, e in che misura esse stessa utilizza la diffusione di una notizia ? Chi ha deciso di aprire il caso Watergate: i reporter del Washington Post o “Gola profonda” ? Quali patti di reciproca protezione (e censura) si stabiliscono tra fonte e giornalista ? ( Claudio Fracassi Sotto la notizia niente Saggio sull’informazione planetaria – Editori Riuniti ) .
Pertanto, l’informazione non è obiettiva perché non è neutra così come è accaduto per tutti i sistemi di comunicazione: come potrebbe essere neutro un nuovo ed efficacissimo mezzo di comunicazione ?
Il treno, ad esempio, sarà neutro - sostiene ancora Placido - soltanto apparentemente, superficialmente. Neutro nel senso che lo posso prendere per recarmi a trovare la fidanzata oppure per andare a commettere un delitto. Ma il treno, preso come fenomeno complessivo, irto di tutte le sue conseguenze, no. Il treno non è neutro perché, modificando le nostre condizioni di viaggio, ha modificato il nostro senso del paesaggio e, conseguentemente, il nostro rapporto con il medesimo.
Proviamo dunque ad analizzare la peculiarità dell’attuale sistema di comunicazione informativa e le conseguenti modifiche che lo stesso ha prodotto nel nostro modo di percezione del reale.
Secondo l’attuale livello d’informazione, è notizia qualsiasi fatto/rottura, qualsiasi accadimento che si distacchi dalla normalità del quotidiano; mediante la trasmissione simultanea, vengono distribuiti soltanto i fatti/rottura, i fatti fuori dalla normalità, che finiscono con il nascondere l’ordinarietà del quotidiano: l’utente finisce, quindi, per ricevere una miriade d’informazioni di rottura, d’informazioni eccezionali, giungendo a ritenere che la normalità del quotidiano non esista ( G. Bechelloni, Il mestiere di giornalista, Napoli, 1982 , p. 35 e ss. ) . Accanto ai fatti/rottura, devono essere presi in considerazione i fatti/notizia: si tratta di quegli accadimenti indotti dalla presenza dei media, ovvero prodotti soltanto al fine di essere ripresi dai media ed entrare così nel circuito di trasmissione dell’informazione. Tali fatti/notizia, se non entrassero nella rete dei media, non esisterebbero; pensiamo, ad esempio, alle manifestazioni di protesta collettiva, ai blocchi stradali, alle azioni terroristiche: tutti questi eventi hanno una comune matrice nei fatti/notizia, poiché essi vengono posti in essere solo al fine di divenire oggetto di attenzione da parte dei media: in particolare alcuni atti terroristici (e i diversi gruppi operanti nell’universo eversivo ne avevano ben compreso il meccanismo) non si sarebbero verificati se non avessero avuto ingresso nel circuito di trasmissione dei nuovi media.
I nuovi media, pertanto, con i fatti/notizia, possono provocare una modifica della realtà fino ad una modifica dell’andamento dei fatti.
La notizia non è obiettiva anche perché la frammentazione di essa, ovvero l’informazione scheggiata, non fa comprendere all’utente il processo causativo sotteso alle notizie; l’effetto verità di queste non verità (perché informazione parziale) è prorompente, poiché difficilmente l’utente ne comprende i meccanismi di produzione; il risultato è quello di provocare nell’utente la convinzione che la realtà, l’unica, è quella che riceve dai media.
Era inevitabile che questo nuovo sistema di distribuzione della notizia avesse un effetto deflagrante sul processo penale. Ciò non soltanto per le primarie considerazioni già esposte, ma anche perché tale effetto dirompente è aumentato negli ultimi anni, per il ruolo, centralissimo, svolto dalla magistratura: ed infatti, gran parte della cronaca politica nazionale è diventata cronaca giudiziaria.
Pertanto, il potere di supplenza esercitato dalla magistratura ha spinto gli “inquirenti” a fornire risposte immediate ai bisogni della collettività, al fine di colmare il divario esistente tra le differenti dimensioni temporali (l’informazione agisce in tempi reali, o in presa diretta, il potere giudiziario agisce sulla sintesi dei fatti).
Il nostro sistema accusatorio ha, dunque, cooptato sistemi sanzionatori anticipati al fine di incidere e di fornire risposte surrettizie agli utenti del prodotto giustizia.
Come è stato esattamente rilevato, “l’uso anticipato dell’informazione di garanzia si registra sempre più frequentemente, ad onta delle precise esigenze istruttorie richieste dal codice per la sua emissione e in dispregio delle norme processuali che la consentono solo allorché si debbano compiere atti cui ha diritto di assistere il difensore (art. 369 c.p.p.)”. (Ettore Randazzo, Divulgazione del segreto di indagine ed attività legislativa, relazione al convegno nazionale di studi “Il reato, il processo, la notizia”, maggio 1993. ) .
Così, l’uso disinvolto di informazioni di garanzia , di ordinanze istitutive della custodia cautelare determina un orientamento ad utilizzare gli istituti processuali come mezzi autonomi di controllo sociale immediato.
Attraverso tali “rimedi sanzionatori anticipati”, amplificati dalla erogazione delle notizie accusatorie diffuse dai mezzi di informazione, si producono immediati effetti eclatanti presso l’opinione pubblica; è evidente che, vigendo il segreto investigativo, le uniche notizie diffuse saranno quelle accusatorie.
Si verificherà un effetto di cassa di risonanza ad opera dei media, così da provocare una serie di reazioni a catena, innanzitutto nei confronti dello stesso indagato, poi di eventuali coindagati e soprattutto nei confronti di coloro i quali acquisteranno successivamente la veste di “persone informate sui fatti”.
L’utente cittadino riceverà, in tal modo, una effimera immagine di efficienza che produrrà, a sua volta, immediato consenso verso questa o quella spettacolare operazione di polizia giudiziaria. Lo stesso inquirente finirà per diventare protagonista, autore e regista della “spettacolare operazione”, inevitabilmente condizionato anche dall’assenso acritico dell’opinione pubblica.
In un meccanismo simile, è davvero impensabile che l’inquirente possa offrire garanzie di “neutralità”: sarebbe come chiedere al regista di uno spettacolo di rilasciare dichiarazioni fortemente critiche verso la pièce da lui stesso realizzata. Si aggiunga che , di fronte ad operazioni particolarmente spettacolari (quali ad esempio il “processo Tortora”, dove imputato era un noto personaggio dei media) spesso si realizza , sempre a mezzo dell’informazione elettrica, la produzione di un “dissenso di ritorno”, che finisce con il coinvolgere l’inquirente protagonista.
Ed è a questo punto che può verificarsi una trasformazione progressiva del cosiddetto “giusto interesse all’indagine” nell’interesse speciale o personale dell’indagine. Il “giusto interesse all’indagine” è la verifica della sussistenza
o meno di una determinata notitia criminis. In una siffatta situazione, è possibile che il “giusto interesse” si trasformi progressivamente in un interesse “personale”, giacché l’inquirente protagonista, investito anche dal “dissenso di ritorno”, non potrà che indagare al fine di dimostrare la validità della notizia accusatoria e, quindi, dell’operazione spettacolare da lui stesso iniziata.
Ed ancora, grazie alla cassa di risonanza dei media, sovente vengono amplificati ed esaltati soltanto alcuni soggetti processuali rispetto ad altri, così da produrre uno squilibrio allarmante tra tesi accusatorie e tesi difensive: squilibrio che, inevitabilmente, come si dimostrerà in seguito, finirà per influenzare in senso accusatorio il “giudice terzo”, delineato come neutrale dal legislatore, ma che nella prassi spesso risulta essere solo una chimera.
Si è correttamente sostenuto che “la dilatazione enorme offerta dai racconti dei pentiti di mafia e di tangenti produce come effetto la configurazione nella coscienza collettiva di tali dichiarazioni alla stregua di verità, pur senza riscontri, e , comunque, di certezze legali privilegiate” (Vincenzo Siniscalchi, L’incidenza dell’informazione sul rispetto della legalità, relazione al convegno svoltosi a Bologna il 20 marzo 1993 sul tema “Recupero della legalità e rifiuto del processo come strumento di lotta politica e scontro tra poteri”, ined. ).
E’ comprensibile che l’opinione pubblica acquisisca come verità le dichiarazioni del pentito
giacché quelle stesse rivelazioni determinano l’emissione di ordinanza di custodia cautelare carceraria così da produrre ancora ulteriori effetti confermativi della veridicità di quelle notizie accusatorie già propalate ed amplificate dai mass-media.
La credibilità di tali accuse non si stempererebbe neanche se la Corte di Cassazione dovesse annullare per vizi di legittimità le ordinanze emesse in assenza di riscontri: tale annullamento sarebbe infatti percepito dalla pubblica opinione come il frutto di un cavilloso escamotage , se non peggio.
Tutto ciò, ovviamente, influenzerà in senso inquisitorio il progressivo iter processuale, causando inquinamenti fuorvianti sulle “persone informate sui fatti”, sugli inquirenti, sulla polizia giudiziaria, sugli stessi consulenti tecnici, i quali incontreranno enormi difficoltà per “decondizionarsi” da una rappresentazione precostituita dei fatti e dei protagonisti del processo, già confezionata in forma di informazione totalizzante e dogmatica.
E’ appena il caso di sottolineare gli esemplari condizionamenti televisivi costituiti dall’esibizione del reo in ceppi o la ripresa televisiva, messa in onda ripetutamente, nel nascondiglio botola, ripreso dall’alto, in cui si celavano boss della camorra o della mafia. Ed ancora vanno ricordati i filmati di repertorio relativi ad operazioni di polizia giudiziaria, le cui conferenze stampa sembrano conformarsi ai parametri televisivi distribuendo notizie sul “clamoroso sequestro” utilizzando il linguaggio sportivo. Accade che in tali filmati, se pure non è stata data alcuna notizia del rinvenimento di armi in quella operazione, d’incanto compaiono sulla scrivania del questore di turno, in uno con la droga sequestrata, anche armi e munizioni in gran copia.
Evidentemente, la ripresa televisiva di tali armi ha il fine inconscio di elevare il grado di pericolosità di quella operazione, così da creare un immediato ed artificioso aumento del consenso dello spettatore per un’indagine in realtà ancora in itinere.
L’ulteriore risultato giudiziario cui si perviene con la sentenza definitiva, a distanza di anni, può anche risultare di segno opposto rispetto a quello iniziale, ma, intanto, le ripercussioni di quest’ultima decisione sulla collettività saranno minime.
La violazione del segreto d’indagine, in un meccanismo siffatto, non costituisce una degenerazione patologica del sistema: ”la sua strumentale violazione è funzionale al controllo sociale”( M. Nobili, Diritto alla prova e diritto di difesa nelle indagini preliminari, in Giust. Pen., 1990, III, p. 385 ) .
Cosicché il segreto d’indagine diventa un ponte levatoio che “si alza e si abbassa tra il castello del processo e il circostante terreno della collettività, a seconda del tipo di controllo sociale che si vuole provocare nell’immediato o, di contro, ritardare” (R. Marino, Questione Giustizia, 1983, p. 431 ) .
In questi anni, la violazione del segreto d’indagine, divenuta ormai avvilente consuetudine, rischia di produrre paralleli effetti devastanti, sia sul piano strettamente processuale e sia sotto il profilo politico-sociale: gli elementi raccolti utilizzando le tecniche invasive (intercettazioni, perquisizioni, sequestri…) proprie del processo penale, “tecniche” che costituiscono un’eccezione alle garanzie di libertà del cittadino, e che la Carta Costituzionale “tollera” in via residuale esclusivamente al fine di rinvenire elementi di reità per gravi fatti in danno della collettività, vengono contestualmente propalate dai media. Tale immediata divulgazione produce gli stessi effetti devastanti di una sentenza definitiva in danno di un singolo indagato o di un intero ambiente famigliare o sociale senza alcuna possibilità di contraddittorio e di preventiva verifica giurisdizionale.
Nella prassi giudiziaria, il perfetto sinallagma P.M.- cronista, può produrre, dunque, anche sorprendenti inversioni di ruoli e funzioni.
Attraverso tali repentine inversioni di ruolo, il cronista, “utilizzando” i poteri eccezionali del P.M., a quest’ultimo riservati in via esclusiva e al cronista rigorosamente vietati, riporta sulla stampa fatti anche non penalmente rilevanti attinenti alla sfera privata delle persone, nonostante i molteplici divieti sia generali che specifici (garanzie di libertà del difensore - art. 103 c.p.p. -, immunità parlamentari, segretezza delle camere di consiglio).
Il meccanismo descritto non soltanto non viene confutato ma sembra essere addirittura teorizzato da alcuni, anche prestigiosi, addetti ai lavori, che hanno sostenuto perfino la necessità di violare le norme del codice penale al fine di smascherare chi infrange anche soltanto le regole comportamentali.
Chi scrive è ben consapevole che è oltremodo complicato per un giornalista, soprattutto nel nostro Paese, “smascherare” i potenti nell’interesse del cittadino utilizzando canali informativi non giudiziari.
Tale impropria utilizzazione, però, non soltanto è vietata dalla legge ma è potenzialmente altamente inquinante per i principi essenziali di una moderna democrazia giacchè delle mere ipotesi, captate illegittimamente dal cronista, vengono riportate sulla stampa ed inevitabilmente percepite dal lettore come verità assolute. Di contro, è evidente che il cronista dovrebbe potenziare il ricorso ad indagini parallele, sviluppando quel “giornalismo d’inchiesta”, già più evoluto in altri Paesi occidentali, che consentirebbe anche il controllo effettivo sulla stessa investigazione giudiziaria. In tal modo, il cronista eviterebbe il rischio di trasformarsi, da “cane da guardia” delle inchieste giudiziarie, in “cagnolino da salotto” delle Procure.
E’ opportuno precisare, al fine di evitare strumentali fraintendimenti, che non si auspica certamente l’oblio dell’informazione, a cui viceversa occorre sempre fornire adeguata protezione.
Ciò che si evidenzia invece è che tale trasparenza informativa deve prodursi rispettando le “regole eccezionali” e necessarie che blindano il processo penale come “percorso protetto”. Trasparenza, dunque, ma nella sicurezza assoluta che tale delicatissimo percorso, che contempla metodi invasivi consentiti in via eccezionale esclusivamente all’A. G. procedente, e non agli organi d’informazione, possa snodarsi senza inquinamenti di sorta.
In ragione di quanto esposto, è evidente che non si invoca di certo un “ritorno al passato” per l’informazione ma è altresì evidente e necessario che le nuove esigenze della cultura mediologica non possono e non devono minare la cultura della legalità.
Al di là di una ponderata ridefinizione legislativa in materia, è inderogabile comprendere che l’obiettivo fondamentale è rappresentato dalla necessità di rispettare le aree di controllo di ciascuna delle parti in causa, evitando inaccettabili e strumentali inversioni di ruolo, in osservanza delle vigenti norme del codice di rito, disapplicate costantemente nella prassi e ancor più quando riguardano il comune cittadino.
Parte della storia giudiziaria degli ultimi decenni, amplificata dai mass media, testimonia il rischio che la riduzione delle garanzie e del controllo giurisdizionale in ragione delle emergenze succedutesi nel tempo – terrorismo, criminalità organizzata, criminalità politica-economica, immigrazione, dissenso sociale -, possa inficiare e stravolgere le regole del giusto processo, causando sovente non soltanto indicibili ed ingiuste sofferenze per il singolo cittadino inquisito ma anche effetti mistificatori sul piano politico-sociale, inducendo la collettività a percepire false rappresentazioni della realtà.
Pertanto, il capzioso assemblaggio di stralci d’indagine su cui vige il divieto di pubblicazione, insinua sovente nell’opinione pubblica una iniqua e quindi falsa rappresentazione di accadimenti sociali.
A questo punto, occorre chiedersi quali possono essere i rimedi per arginare gli effetti devastanti dei su descritti mosaici d’interferenza.
E’ evidente che nuove sanzioni, al di là di opportune riforme, non risolverebbero tale degenerazione dal momento che, se si rispettassero quelle già previste, il problema sarebbe in gran parte risolto. Così pure l’appello alla deontologia professionale non sarebbe risolutivo, anche se preme sottolineare che il cronista giudiziario dovrebbe almeno “tendere”, compatibilmente con i meccanismi propri del medium televisivo, ad approfondire i processi causativi sottesi alle notizie giudiziarie, elaborando una teoria della storiografia della notizia così come auspicava non molto tempo fa il semiologo Umberto Eco, che proponeva uno “stil novo” del cronista giudiziario.
L’obiettivo fondamentale, a parere di chi scrive, è rappresentato dalla necessità di rispettare le aree di controllo di ciascuna delle parti in causa. Sicché, se il giornalista sperimentasse realmente una concreta funzione di controllo, consentendo anche alle altre parti del processo (imputato, parte lesa e loro difensori) di esprimere il loro punto di vista (quando essi lo considerano assolutamente necessario nell’interesse dei propri assistiti sommersi da un profluvio di schegge accusatorie, esponendosi con equilibrio e sottraendosi, nel contempo, a strumentalizzazioni spettacolari) attuando “il cosiddetto principio delle pari opportunità” ( D. Carponi Schittar, Nesso tra processo penale, diritto dell’informazione, tutela dei diritti umani. Il principio dell’uguale opportunità, relazione al convegno nazionale di studi “Il reato, il processo, la notizia”, citato nella nota 3, ined. ), senza dubbio si attenuerebbe fortemente lo “sbilanciamento informativo” tra tesi accusatoria e tesi difensiva. Nel contempo, potrebbe essere predisposto, in caso di notizie di colpevolezza infondate, un “comunicato concordato” tra mezzo di informazione e danneggiato, che potrebbe candidarsi a sostituire la rettifica, istituto desueto, che appare improduttivo di effetti soddisfacenti.
Attuando il principio delle pari opportunità, il tasso di informazione del giudice-terzo potrebbe così divenire più bilanciato, soprattutto se il giudice, finalmente, riuscisse a sperimentare la cultura del controllo sull’operato delle parti processuali.
La memoria di una simile cultura, però, rimanda, problematicamente, anche al tema della separazione delle carriere (inquirente-giudicante).
Certo: l’avvocatura, insieme alle forze sane del paese, ha in passato difeso strenuamente le prerogative di indipendenza del p.m., insidiato da un potere politico fortemente interessato ad una funzione di contenimento dell’operato dei giudici.
Ciò però non significa che non sia doveroso ed imprescindibile percorrere strade alternative, che possano, nel rispetto dell’autonomia del p.m. (comunque appartenente all’ordine giudiziario e sottoposto solo agli organi disciplinari competenti), creare una netta separazione tra i due poli della “cultura inquirente” e della “cultura giudicante”, in ossequio al disposto di cui all’art. 111 Cost. . Ed invero, realizzare la separazione delle carriere, significa “contribuire a costruire un’idea di giustizia come equità, la sola praticabile in una società aperta e libera” (Luigi Pasini, A che serve, ora, l’Unione delle Camere Penali ?, 2005 , Camerepen@lionline) .
Il saggista inglese Stephen Greenblatt, autore di Meraviglia e Possesso - Lo stupore di fronte al Nuovo Mondo, nel raccontare i modi in cui gli esploratori europei hanno preso possesso dei territori del Nuovo Mondo, ci racconta come la meraviglia non è stata sempre e soltanto uno strumento di dominio ma spesso è stata un segno di tollerante riconoscimento della differenza culturale, senza pregiudizi.
In particolare, Greenblatt, citando Cartesio e Spinoza, sostiene che la Meraviglia è una “sistole del cuore”, una sorpresa improvvisa dell’anima di fronte al Nuovo: “La Meraviglia precede e perfino elude le categorie morali provocando la sospensione dei pregiudizi; quando proviamo meraviglia noi non sappiamo ancora se amiamo o odiamo l’oggetto di cui ci meravigliamo; non sappiamo se dovremmo abbracciarlo o fuggire via da esso. Chi prova meraviglia sembra resistere all’impulso immediato, dettato dal pregiudizio, di recuperare, contenere, inglobare ideologicamente l’altro, provocando così una rinuncia al possesso”.13 ( S. Greenblatt, Meraviglia e possesso. Lo stupore di fronte al Nuovo Mondo, p. 43 ss., Bologna, 1994 ,edizione originale, Oxford 1991) .
La Meraviglia degli esploratori medievali precedeva, dunque, ogni distinzione tra bene e male: l’augurio è che anche il giudice terzo possa, di tanto in tanto, in quanto “esploratore della prova”, percorrere il linguaggio del Meraviglioso. Lo stato attuale delle cose, purtroppo, è che, talora, “meraviglia” si produca, ma non proprio nel senso sopra indicato, soprattutto nell’imputato e nel suo difensore, alla lettura dei dispositivi di sentenza ...
La partecipazione a distanza in videoconferenza è innegabilmente un surrogato della partecipazione tipica. La presenza soltanto virtuale, sacrifica il sacrosanto diritto dell’imputato ad essere fisicamente presente al suo processo.
La più sofisticata ripresa televisiva non potrà mai sostituire compiutamente la presenza fisica del dichiarante.
Viene infatti frantumato il contesto spaziale e temporale del processo attraverso una mediazione telematica che comporta inevitabilmente una scomposizione del processo di apprendimento dei saperi che vengono percepiti da soggetti tra loro distanti.
Quella virtuale è una forma di comunicazione diversa, le cui differenze, rispetto alla percezione e all’interazione reale, sono molteplici e divergenti.
Tutti concordiamo nel comprendere la differenza tra il recarci a teatro per assistere ad uno spettacolo dal vivo o visionare un filmato; comprendiamo che a teatro non vi è la quarta parete e che l’emozione nasce da quel contatto fisico tra attore e spettatore che si materializza attraverso la percezione di una oralità e gestualità, di silenzi repentini o interminabili, o assordanti, di mimica facciale o corporea.
Durante questo rito, lo spettatore partecipa con silenzi composti oppure sorridendo con circospezione o in modo liberatorio oppure anche assecondando e facilitando il monologo, il dialogo, la singola battuta: lo spettatore percepisce che vi è un processo d’interazione con l’attore-dichiarante e sa che la pièce non è uguale tutte le sere, sa che l’evento di quella sera è unico e tale resterà per sempre, perché la rappresentazione viene condizionata dal tipo di pubblico che vi è in sala ogni sera; il singolo spettatore sa che la sua presenza fisica contribuisce alla nascita di uno spettacolo diverso, anche senza alcuna comunicazione verbale con l’interprete-narratore.
Se ciò è vero, come si può sostenere che sia identico un controesame sostenuto in un’aula-teatro rispetto a quello affrontato con presenze virtuali in un filmato ?
E’ evidente che la partecipazione a distanza pone interrogativi circa la compatibilità con i principi naturali del giudizio, quali il contraddittorio, l’oralità, l’immediatezza dibattimentale. L’imputato dalla postazione remota percepirà sempre una visione incompleta e frammentaria dell’udienza dibattimentale, alla cui partecipazione non può attribuirsi il requisito della effettività.
Ma se davvero si ritiene “neutro” il sistema di comunicazione a distanza sì da non comprimere il diritto di difesa, si provi allora a ribaltare il problema e a chiedere ai P.M.: sarebbe sufficiente interrogare a distanza gli indagati che potrebbero collaborare o le persone informate sui fatti che si mostrano reticenti ?
La comunicazione a distanza è stata giustamente definita una “caricatura dell’oralità”14 ( Giuseppe Frigo, Guida al diritto 21.02.1998, p. 50 ) ed in contrasto con precise disposizioni regolamentatrici del sistema accusatorio italiano: art. 146 disp. att., ad esempio sancisce che “il seggio delle persone da sottoporre ad esame è collocato in modo da consentire che le persone stesse siano agevolmente visibili sia dal giudice che dalle parti”.
Orbene, se è vero che le disposizioni poste a tutela del dichiarante sottoposto a protezione consentono anche in aula di celarlo alle parti dietro un paravento, è anche vero che almeno il collegio giudicante ha la possibilità di controllare le reazioni gestuali, mimiche e facciali nel corso dell’esame e soprattutto durante il controesame della difesa e dello stesso collegio. Nel caso invece di audizione a distanza in videoconferenza, il collaboratore è riposto da tergo e pertanto resta sottratto alla percezione visiva finanche del collegio.
In conclusione, televisione e new media comportano una rivoluzione dell’esistente che sta producendo un “cambio di civiltà” non solo rispetto al precedente secolo ma rispetto al “sistema” di comunicazione che sostanzialmente durava da secoli. Il mondo moderno ha visto infatti il moltiplicarsi di varie “protesi” della comunicazione. “Il dito non è stato solo prolungato dalla macchina da scrivere, ma dalla stessa penna. Poi sono venuti prolungamenti più sofisticati, telefoni per la voce, televisori per le immagini. Ma fino a ieri le protesi in sé sono state come gli utensili dell’antichità che riproducevano segni, ma non ne costituivano totalmente il contenuto. E’ molto interessante quindi ogni studio della tecnologia dell’informazione moderna. Ma lo è nello stesso modo dell’archeologia che studia le statuette coperte di segni e messaggi”15 (15. Alberto Cavallari, La fabbrica del presente, ed. Feltrinelli). Infatti, non è la creta che interessa tanto, ma il segno che l’incide, l’orma che la cultura vi ha lascito, la civiltà che sta dietro l’utensile.
Dal 1950 ad oggi si registra un’esplosione mediatica dovuta alla saldatura tra l’elettronica e le telecomunicazioni che contribuiscono a produrre una trasformazione radicale i cui ulteriori sviluppi sono allo stato imprevedibili.
In ragione di ciò, così come il mestiere del giornalista esce stravolto dal vortice delle news in rete giacché il suo compito non è più la produzione della notizia (vedere e testimoniare) ma la post-produzione e cioè segnalare e inquadrare notizie già prodotte, rischia di mutare altresì radicalmente la professione forense.
Ritengo che sia utile, infine, iniziare ad interrogarsi sullo stato attuale del processo penale anche in relazione alle forme di comunicazione utilizzate dal difensore: è evidente che la difesa nel nuovo processo si fonda prevalentemente non più sull’arringa conclusiva ma soprattutto sulla “cross - examination”, le tecniche di esame e controesame dei testi.
Ma anche in questo mutato contesto è assai rilevante tentare di comprendere qual è lo stato attuale del linguaggio del difensore e quali sono i percorsi da intraprendere per l’affinamento e l’arricchimento di tecniche di comunicazione difensive.
Ed invero, l’avvocato, di fronte alla miriade di mosaici d’interferenza che influenzano il mondo e quindi anche il proprio specifico professionale, come potrà mai “convincere” attraverso tecniche di comunicazione forense concepite in un’epoca pre-televisiva ?
In tale contesto pre- “massmediologico”, gli uomini comunicavano in modo completamente differente, ispirandosi principalmente a linguaggi dettati dai tempi e modi di un quotidiano non virtuale ma realistico, naturale, oggettivo.
In tale contesto pre-televisivo, lo svolazzar di una toga o l’improvviso urlo retorico di sdegno, o lo sgranar d’occhi simulando orrore, rappresentavano una “rottura” dei tempi e dei toni usuali che la generalità dei cittadini utilizzava quotidianamente.
Più semplicemente, nell’epoca pre-televisiva, l’immaginifico avvocato spesso con la sua arringa riusciva a realizzare lo “stupore retorico” instillando nell’ascoltatore gocce di meraviglia.
Se si aggiunge che in tale epoca non si riusciva ad avere notizia alcuna di omicidi e violenze in tempo reale o comunque, certamente, non si conoscevano simultaneamente perfino i dettagli di centinaia di omicidi, storie, orrori e passioni, si comprende che allora il racconto forense “catturava” l’ascoltatore anche in forza dell’insolito contenuto narrativo.
Nell’attuale epoca post-televisiva, invece, essendo mutata in modo omologante la percezione degli avvenimenti e la comunicazione tra le persone, si è anche attenuata la differenza tra il linguaggio e la gestualità quotidiana del cittadino e la oratoria ed il gesto dell’avvocato.
Dal Duemila in poi, è infatti doveroso immaginare un giovane avvocato penalista che dopo essersi liberato di desueti modelli imitativi, falsi perché “recitati” e decontestualizzati, inizia a discostarsi anche dal linguaggio e dalla gestualità mutuata dai “mezzobusti” televisivi: tale ricerca dovrà rinvenire, nel corso dello snodarsi del percorso narrativo dell’arringa, sorprese semantiche ed espressive dirompenti rispetto al rischio di omologazione che potrebbe, a volte, trasformare noi penalisti, e di riflesso gli stessi P.M., in “mezzobusti forensi”.
Se, al di là del paradosso, tutto ciò ha un fondo di verità, sarebbe necessario individuare quali possano essere i sentieri esplorativi da percorrere per tentare di iniziare uno studio complessivo al fine di sperimentare, con saggia prudenza, nuove tecniche oratorie: non sarebbe eccessivo tentare di estrarre nuova linfa anche da una riflessione sul linguaggio della pubblicità e della poesia, intese entrambe come sintesi efficace ed immediata dell’uso dell’immagine e della parola.
“Nel processo contemporaneo quando il corpo del detenuto viene condotto davanti alla corte - scrive Paul Virilio - i microscopi elettronici, gli spettrometri di massa e i videografi a lettura laser lo avvolgono in un implacabile circo elettronico. L’architettura del teatro giudiziario diventa una sala di proiezione cinematografica, poi un’aula video, e i diversi avvocati attori della difesa perdono ogni speranza di crearvi con i mezzi a loro disposizione un effetto di realtà in grado di soggiogare i giurati e il pubblico per i quali i videoregistratori, il minitel, la televisione e altri schermi di computer sono diventati un modo quasi esclusivo per informarsi, per comunicare, per apprendere la realtà e muoversi in essa. Come riuscire ad ottenere ancora tutti gli effetti plateali, i colpi di scena che costituivano la gloria dei vecchi principi del foro? Come creare lo scandalo, la sorpresa, la commozione sotto lo sguardo dei tribunali elettronici capaci di anticipare e di tornare indietro nel tempo e nello spazio, davanti a una giustizia divenuta ora l’estremo esito tecnologico dell’impietoso più luce del terrore rivoluzionario,
la sua perfezione stessa?” (Paul Virilio, La macchina che vede, ed. Immaginari) .
Tra i mille possibili sentieri esplorativi per evitare il catastrofismo di Virilio, è opportuno citare Umberto Eco che , sul tema degli effetti fuorvianti delle videotestimonianze e delle riprese televisive dei processi, ricordava che la Chiesa, nella sua millenaria saggezza, ha statuito che la Santa Messa, vista in televisione, non vale a salvarsi l’anima …
Il diritto ad informare e ad essere informati è un diritto oggi più che mai fondamentale perché, in quello che è stato definito villaggio globale, la nostra coscienza si forma soprattutto non attraverso l’esperienza diretta ma attraverso l’informazione che diventa pertanto una precondizione per l’esercizio di tutti gli altri diritti dell’uomo. Diventano pertanto prioritarie le questioni dei meccanismi dell’informazione, della proprietà dei mezzi, dell’alfabetizzazione informativa e in definitiva dell’educazione alla lettura critica, consapevole della stampa e della tv.
E’ dunque importante per un avvocato penalista, che dovrebbe essere ben aduso a decrittare “notizie precotte”, comprendere che l’atteggiamento opportuno e necessario è quello di intercettare i mosaici d’interferenza della produzione d’informazione per non essere ingannati comprendendo che essa è un universo ben separato dalla realtà. E infine di diffidare: “dare del lei all’immagine, quando lei ti da del tu.” (Claudio Fracassi Sotto la notizia niente Saggio sull’informazione planetaria. Editori Riuniti)
Avv. Domenico Ciruzzi
già Presidente della Camera Penale di Napoli
Il treno, ad esempio, sarà neutro - sostiene ancora Placido - soltanto apparentemente, superficialmente. Neutro nel senso che lo posso prendere per recarmi a trovare la fidanzata oppure per andare a commettere un delitto. Ma il treno, preso come fenomeno complessivo, irto di tutte le sue conseguenze, no. Il treno non è neutro perché, modificando le nostre condizioni di viaggio, ha modificato il nostro senso del paesaggio e, conseguentemente, il nostro rapporto con il medesimo.
Proviamo dunque ad analizzare la peculiarità dell’attuale sistema di comunicazione informativa e le conseguenti modifiche che lo stesso ha prodotto nel nostro modo di percezione del reale.
Secondo l’attuale livello d’informazione, è notizia qualsiasi fatto/rottura, qualsiasi accadimento che si distacchi dalla normalità del quotidiano; mediante la trasmissione simultanea, vengono distribuiti soltanto i fatti/rottura, i fatti fuori dalla normalità, che finiscono con il nascondere l’ordinarietà del quotidiano: l’utente finisce, quindi, per ricevere una miriade d’informazioni di rottura, d’informazioni eccezionali, giungendo a ritenere che la normalità del quotidiano non esista ( G. Bechelloni, Il mestiere di giornalista, Napoli, 1982 , p. 35 e ss. ) . Accanto ai fatti/rottura, devono essere presi in considerazione i fatti/notizia: si tratta di quegli accadimenti indotti dalla presenza dei media, ovvero prodotti soltanto al fine di essere ripresi dai media ed entrare così nel circuito di trasmissione dell’informazione. Tali fatti/notizia, se non entrassero nella rete dei media, non esisterebbero; pensiamo, ad esempio, alle manifestazioni di protesta collettiva, ai blocchi stradali, alle azioni terroristiche: tutti questi eventi hanno una comune matrice nei fatti/notizia, poiché essi vengono posti in essere solo al fine di divenire oggetto di attenzione da parte dei media: in particolare alcuni atti terroristici (e i diversi gruppi operanti nell’universo eversivo ne avevano ben compreso il meccanismo) non si sarebbero verificati se non avessero avuto ingresso nel circuito di trasmissione dei nuovi media.
I nuovi media, pertanto, con i fatti/notizia, possono provocare una modifica della realtà fino ad una modifica dell’andamento dei fatti.
La notizia non è obiettiva anche perché la frammentazione di essa, ovvero l’informazione scheggiata, non fa comprendere all’utente il processo causativo sotteso alle notizie; l’effetto verità di queste non verità (perché informazione parziale) è prorompente, poiché difficilmente l’utente ne comprende i meccanismi di produzione; il risultato è quello di provocare nell’utente la convinzione che la realtà, l’unica, è quella che riceve dai media.
Era inevitabile che questo nuovo sistema di distribuzione della notizia avesse un effetto deflagrante sul processo penale. Ciò non soltanto per le primarie considerazioni già esposte, ma anche perché tale effetto dirompente è aumentato negli ultimi anni, per il ruolo, centralissimo, svolto dalla magistratura: ed infatti, gran parte della cronaca politica nazionale è diventata cronaca giudiziaria.
Pertanto, il potere di supplenza esercitato dalla magistratura ha spinto gli “inquirenti” a fornire risposte immediate ai bisogni della collettività, al fine di colmare il divario esistente tra le differenti dimensioni temporali (l’informazione agisce in tempi reali, o in presa diretta, il potere giudiziario agisce sulla sintesi dei fatti).
Il nostro sistema accusatorio ha, dunque, cooptato sistemi sanzionatori anticipati al fine di incidere e di fornire risposte surrettizie agli utenti del prodotto giustizia.
Come è stato esattamente rilevato, “l’uso anticipato dell’informazione di garanzia si registra sempre più frequentemente, ad onta delle precise esigenze istruttorie richieste dal codice per la sua emissione e in dispregio delle norme processuali che la consentono solo allorché si debbano compiere atti cui ha diritto di assistere il difensore (art. 369 c.p.p.)”. (Ettore Randazzo, Divulgazione del segreto di indagine ed attività legislativa, relazione al convegno nazionale di studi “Il reato, il processo, la notizia”, maggio 1993. ) .
Così, l’uso disinvolto di informazioni di garanzia , di ordinanze istitutive della custodia cautelare determina un orientamento ad utilizzare gli istituti processuali come mezzi autonomi di controllo sociale immediato.
Attraverso tali “rimedi sanzionatori anticipati”, amplificati dalla erogazione delle notizie accusatorie diffuse dai mezzi di informazione, si producono immediati effetti eclatanti presso l’opinione pubblica; è evidente che, vigendo il segreto investigativo, le uniche notizie diffuse saranno quelle accusatorie.
Si verificherà un effetto di cassa di risonanza ad opera dei media, così da provocare una serie di reazioni a catena, innanzitutto nei confronti dello stesso indagato, poi di eventuali coindagati e soprattutto nei confronti di coloro i quali acquisteranno successivamente la veste di “persone informate sui fatti”.
L’utente cittadino riceverà, in tal modo, una effimera immagine di efficienza che produrrà, a sua volta, immediato consenso verso questa o quella spettacolare operazione di polizia giudiziaria. Lo stesso inquirente finirà per diventare protagonista, autore e regista della “spettacolare operazione”, inevitabilmente condizionato anche dall’assenso acritico dell’opinione pubblica.
In un meccanismo simile, è davvero impensabile che l’inquirente possa offrire garanzie di “neutralità”: sarebbe come chiedere al regista di uno spettacolo di rilasciare dichiarazioni fortemente critiche verso la pièce da lui stesso realizzata. Si aggiunga che , di fronte ad operazioni particolarmente spettacolari (quali ad esempio il “processo Tortora”, dove imputato era un noto personaggio dei media) spesso si realizza , sempre a mezzo dell’informazione elettrica, la produzione di un “dissenso di ritorno”, che finisce con il coinvolgere l’inquirente protagonista.
Ed è a questo punto che può verificarsi una trasformazione progressiva del cosiddetto “giusto interesse all’indagine” nell’interesse speciale o personale dell’indagine. Il “giusto interesse all’indagine” è la verifica della sussistenza
o meno di una determinata notitia criminis. In una siffatta situazione, è possibile che il “giusto interesse” si trasformi progressivamente in un interesse “personale”, giacché l’inquirente protagonista, investito anche dal “dissenso di ritorno”, non potrà che indagare al fine di dimostrare la validità della notizia accusatoria e, quindi, dell’operazione spettacolare da lui stesso iniziata.
Ed ancora, grazie alla cassa di risonanza dei media, sovente vengono amplificati ed esaltati soltanto alcuni soggetti processuali rispetto ad altri, così da produrre uno squilibrio allarmante tra tesi accusatorie e tesi difensive: squilibrio che, inevitabilmente, come si dimostrerà in seguito, finirà per influenzare in senso accusatorio il “giudice terzo”, delineato come neutrale dal legislatore, ma che nella prassi spesso risulta essere solo una chimera.
Si è correttamente sostenuto che “la dilatazione enorme offerta dai racconti dei pentiti di mafia e di tangenti produce come effetto la configurazione nella coscienza collettiva di tali dichiarazioni alla stregua di verità, pur senza riscontri, e , comunque, di certezze legali privilegiate” (Vincenzo Siniscalchi, L’incidenza dell’informazione sul rispetto della legalità, relazione al convegno svoltosi a Bologna il 20 marzo 1993 sul tema “Recupero della legalità e rifiuto del processo come strumento di lotta politica e scontro tra poteri”, ined. ).
E’ comprensibile che l’opinione pubblica acquisisca come verità le dichiarazioni del pentito
giacché quelle stesse rivelazioni determinano l’emissione di ordinanza di custodia cautelare carceraria così da produrre ancora ulteriori effetti confermativi della veridicità di quelle notizie accusatorie già propalate ed amplificate dai mass-media.
La credibilità di tali accuse non si stempererebbe neanche se la Corte di Cassazione dovesse annullare per vizi di legittimità le ordinanze emesse in assenza di riscontri: tale annullamento sarebbe infatti percepito dalla pubblica opinione come il frutto di un cavilloso escamotage , se non peggio.
Tutto ciò, ovviamente, influenzerà in senso inquisitorio il progressivo iter processuale, causando inquinamenti fuorvianti sulle “persone informate sui fatti”, sugli inquirenti, sulla polizia giudiziaria, sugli stessi consulenti tecnici, i quali incontreranno enormi difficoltà per “decondizionarsi” da una rappresentazione precostituita dei fatti e dei protagonisti del processo, già confezionata in forma di informazione totalizzante e dogmatica.
E’ appena il caso di sottolineare gli esemplari condizionamenti televisivi costituiti dall’esibizione del reo in ceppi o la ripresa televisiva, messa in onda ripetutamente, nel nascondiglio botola, ripreso dall’alto, in cui si celavano boss della camorra o della mafia. Ed ancora vanno ricordati i filmati di repertorio relativi ad operazioni di polizia giudiziaria, le cui conferenze stampa sembrano conformarsi ai parametri televisivi distribuendo notizie sul “clamoroso sequestro” utilizzando il linguaggio sportivo. Accade che in tali filmati, se pure non è stata data alcuna notizia del rinvenimento di armi in quella operazione, d’incanto compaiono sulla scrivania del questore di turno, in uno con la droga sequestrata, anche armi e munizioni in gran copia.
Evidentemente, la ripresa televisiva di tali armi ha il fine inconscio di elevare il grado di pericolosità di quella operazione, così da creare un immediato ed artificioso aumento del consenso dello spettatore per un’indagine in realtà ancora in itinere.
L’ulteriore risultato giudiziario cui si perviene con la sentenza definitiva, a distanza di anni, può anche risultare di segno opposto rispetto a quello iniziale, ma, intanto, le ripercussioni di quest’ultima decisione sulla collettività saranno minime.
La violazione del segreto d’indagine, in un meccanismo siffatto, non costituisce una degenerazione patologica del sistema: ”la sua strumentale violazione è funzionale al controllo sociale”( M. Nobili, Diritto alla prova e diritto di difesa nelle indagini preliminari, in Giust. Pen., 1990, III, p. 385 ) .
Cosicché il segreto d’indagine diventa un ponte levatoio che “si alza e si abbassa tra il castello del processo e il circostante terreno della collettività, a seconda del tipo di controllo sociale che si vuole provocare nell’immediato o, di contro, ritardare” (R. Marino, Questione Giustizia, 1983, p. 431 ) .
In questi anni, la violazione del segreto d’indagine, divenuta ormai avvilente consuetudine, rischia di produrre paralleli effetti devastanti, sia sul piano strettamente processuale e sia sotto il profilo politico-sociale: gli elementi raccolti utilizzando le tecniche invasive (intercettazioni, perquisizioni, sequestri…) proprie del processo penale, “tecniche” che costituiscono un’eccezione alle garanzie di libertà del cittadino, e che la Carta Costituzionale “tollera” in via residuale esclusivamente al fine di rinvenire elementi di reità per gravi fatti in danno della collettività, vengono contestualmente propalate dai media. Tale immediata divulgazione produce gli stessi effetti devastanti di una sentenza definitiva in danno di un singolo indagato o di un intero ambiente famigliare o sociale senza alcuna possibilità di contraddittorio e di preventiva verifica giurisdizionale.
Nella prassi giudiziaria, il perfetto sinallagma P.M.- cronista, può produrre, dunque, anche sorprendenti inversioni di ruoli e funzioni.
Attraverso tali repentine inversioni di ruolo, il cronista, “utilizzando” i poteri eccezionali del P.M., a quest’ultimo riservati in via esclusiva e al cronista rigorosamente vietati, riporta sulla stampa fatti anche non penalmente rilevanti attinenti alla sfera privata delle persone, nonostante i molteplici divieti sia generali che specifici (garanzie di libertà del difensore - art. 103 c.p.p. -, immunità parlamentari, segretezza delle camere di consiglio).
Il meccanismo descritto non soltanto non viene confutato ma sembra essere addirittura teorizzato da alcuni, anche prestigiosi, addetti ai lavori, che hanno sostenuto perfino la necessità di violare le norme del codice penale al fine di smascherare chi infrange anche soltanto le regole comportamentali.
Chi scrive è ben consapevole che è oltremodo complicato per un giornalista, soprattutto nel nostro Paese, “smascherare” i potenti nell’interesse del cittadino utilizzando canali informativi non giudiziari.
Tale impropria utilizzazione, però, non soltanto è vietata dalla legge ma è potenzialmente altamente inquinante per i principi essenziali di una moderna democrazia giacchè delle mere ipotesi, captate illegittimamente dal cronista, vengono riportate sulla stampa ed inevitabilmente percepite dal lettore come verità assolute. Di contro, è evidente che il cronista dovrebbe potenziare il ricorso ad indagini parallele, sviluppando quel “giornalismo d’inchiesta”, già più evoluto in altri Paesi occidentali, che consentirebbe anche il controllo effettivo sulla stessa investigazione giudiziaria. In tal modo, il cronista eviterebbe il rischio di trasformarsi, da “cane da guardia” delle inchieste giudiziarie, in “cagnolino da salotto” delle Procure.
E’ opportuno precisare, al fine di evitare strumentali fraintendimenti, che non si auspica certamente l’oblio dell’informazione, a cui viceversa occorre sempre fornire adeguata protezione.
Ciò che si evidenzia invece è che tale trasparenza informativa deve prodursi rispettando le “regole eccezionali” e necessarie che blindano il processo penale come “percorso protetto”. Trasparenza, dunque, ma nella sicurezza assoluta che tale delicatissimo percorso, che contempla metodi invasivi consentiti in via eccezionale esclusivamente all’A. G. procedente, e non agli organi d’informazione, possa snodarsi senza inquinamenti di sorta.
In ragione di quanto esposto, è evidente che non si invoca di certo un “ritorno al passato” per l’informazione ma è altresì evidente e necessario che le nuove esigenze della cultura mediologica non possono e non devono minare la cultura della legalità.
Al di là di una ponderata ridefinizione legislativa in materia, è inderogabile comprendere che l’obiettivo fondamentale è rappresentato dalla necessità di rispettare le aree di controllo di ciascuna delle parti in causa, evitando inaccettabili e strumentali inversioni di ruolo, in osservanza delle vigenti norme del codice di rito, disapplicate costantemente nella prassi e ancor più quando riguardano il comune cittadino.
Parte della storia giudiziaria degli ultimi decenni, amplificata dai mass media, testimonia il rischio che la riduzione delle garanzie e del controllo giurisdizionale in ragione delle emergenze succedutesi nel tempo – terrorismo, criminalità organizzata, criminalità politica-economica, immigrazione, dissenso sociale -, possa inficiare e stravolgere le regole del giusto processo, causando sovente non soltanto indicibili ed ingiuste sofferenze per il singolo cittadino inquisito ma anche effetti mistificatori sul piano politico-sociale, inducendo la collettività a percepire false rappresentazioni della realtà.
Pertanto, il capzioso assemblaggio di stralci d’indagine su cui vige il divieto di pubblicazione, insinua sovente nell’opinione pubblica una iniqua e quindi falsa rappresentazione di accadimenti sociali.
A questo punto, occorre chiedersi quali possono essere i rimedi per arginare gli effetti devastanti dei su descritti mosaici d’interferenza.
E’ evidente che nuove sanzioni, al di là di opportune riforme, non risolverebbero tale degenerazione dal momento che, se si rispettassero quelle già previste, il problema sarebbe in gran parte risolto. Così pure l’appello alla deontologia professionale non sarebbe risolutivo, anche se preme sottolineare che il cronista giudiziario dovrebbe almeno “tendere”, compatibilmente con i meccanismi propri del medium televisivo, ad approfondire i processi causativi sottesi alle notizie giudiziarie, elaborando una teoria della storiografia della notizia così come auspicava non molto tempo fa il semiologo Umberto Eco, che proponeva uno “stil novo” del cronista giudiziario.
L’obiettivo fondamentale, a parere di chi scrive, è rappresentato dalla necessità di rispettare le aree di controllo di ciascuna delle parti in causa. Sicché, se il giornalista sperimentasse realmente una concreta funzione di controllo, consentendo anche alle altre parti del processo (imputato, parte lesa e loro difensori) di esprimere il loro punto di vista (quando essi lo considerano assolutamente necessario nell’interesse dei propri assistiti sommersi da un profluvio di schegge accusatorie, esponendosi con equilibrio e sottraendosi, nel contempo, a strumentalizzazioni spettacolari) attuando “il cosiddetto principio delle pari opportunità” ( D. Carponi Schittar, Nesso tra processo penale, diritto dell’informazione, tutela dei diritti umani. Il principio dell’uguale opportunità, relazione al convegno nazionale di studi “Il reato, il processo, la notizia”, citato nella nota 3, ined. ), senza dubbio si attenuerebbe fortemente lo “sbilanciamento informativo” tra tesi accusatoria e tesi difensiva. Nel contempo, potrebbe essere predisposto, in caso di notizie di colpevolezza infondate, un “comunicato concordato” tra mezzo di informazione e danneggiato, che potrebbe candidarsi a sostituire la rettifica, istituto desueto, che appare improduttivo di effetti soddisfacenti.
Attuando il principio delle pari opportunità, il tasso di informazione del giudice-terzo potrebbe così divenire più bilanciato, soprattutto se il giudice, finalmente, riuscisse a sperimentare la cultura del controllo sull’operato delle parti processuali.
La memoria di una simile cultura, però, rimanda, problematicamente, anche al tema della separazione delle carriere (inquirente-giudicante).
Certo: l’avvocatura, insieme alle forze sane del paese, ha in passato difeso strenuamente le prerogative di indipendenza del p.m., insidiato da un potere politico fortemente interessato ad una funzione di contenimento dell’operato dei giudici.
Ciò però non significa che non sia doveroso ed imprescindibile percorrere strade alternative, che possano, nel rispetto dell’autonomia del p.m. (comunque appartenente all’ordine giudiziario e sottoposto solo agli organi disciplinari competenti), creare una netta separazione tra i due poli della “cultura inquirente” e della “cultura giudicante”, in ossequio al disposto di cui all’art. 111 Cost. . Ed invero, realizzare la separazione delle carriere, significa “contribuire a costruire un’idea di giustizia come equità, la sola praticabile in una società aperta e libera” (Luigi Pasini, A che serve, ora, l’Unione delle Camere Penali ?, 2005 , Camerepen@lionline) .
Il saggista inglese Stephen Greenblatt, autore di Meraviglia e Possesso - Lo stupore di fronte al Nuovo Mondo, nel raccontare i modi in cui gli esploratori europei hanno preso possesso dei territori del Nuovo Mondo, ci racconta come la meraviglia non è stata sempre e soltanto uno strumento di dominio ma spesso è stata un segno di tollerante riconoscimento della differenza culturale, senza pregiudizi.
In particolare, Greenblatt, citando Cartesio e Spinoza, sostiene che la Meraviglia è una “sistole del cuore”, una sorpresa improvvisa dell’anima di fronte al Nuovo: “La Meraviglia precede e perfino elude le categorie morali provocando la sospensione dei pregiudizi; quando proviamo meraviglia noi non sappiamo ancora se amiamo o odiamo l’oggetto di cui ci meravigliamo; non sappiamo se dovremmo abbracciarlo o fuggire via da esso. Chi prova meraviglia sembra resistere all’impulso immediato, dettato dal pregiudizio, di recuperare, contenere, inglobare ideologicamente l’altro, provocando così una rinuncia al possesso”.13 ( S. Greenblatt, Meraviglia e possesso. Lo stupore di fronte al Nuovo Mondo, p. 43 ss., Bologna, 1994 ,edizione originale, Oxford 1991) .
La Meraviglia degli esploratori medievali precedeva, dunque, ogni distinzione tra bene e male: l’augurio è che anche il giudice terzo possa, di tanto in tanto, in quanto “esploratore della prova”, percorrere il linguaggio del Meraviglioso. Lo stato attuale delle cose, purtroppo, è che, talora, “meraviglia” si produca, ma non proprio nel senso sopra indicato, soprattutto nell’imputato e nel suo difensore, alla lettura dei dispositivi di sentenza ...
La partecipazione a distanza in videoconferenza è innegabilmente un surrogato della partecipazione tipica. La presenza soltanto virtuale, sacrifica il sacrosanto diritto dell’imputato ad essere fisicamente presente al suo processo.
La più sofisticata ripresa televisiva non potrà mai sostituire compiutamente la presenza fisica del dichiarante.
Viene infatti frantumato il contesto spaziale e temporale del processo attraverso una mediazione telematica che comporta inevitabilmente una scomposizione del processo di apprendimento dei saperi che vengono percepiti da soggetti tra loro distanti.
Quella virtuale è una forma di comunicazione diversa, le cui differenze, rispetto alla percezione e all’interazione reale, sono molteplici e divergenti.
Tutti concordiamo nel comprendere la differenza tra il recarci a teatro per assistere ad uno spettacolo dal vivo o visionare un filmato; comprendiamo che a teatro non vi è la quarta parete e che l’emozione nasce da quel contatto fisico tra attore e spettatore che si materializza attraverso la percezione di una oralità e gestualità, di silenzi repentini o interminabili, o assordanti, di mimica facciale o corporea.
Durante questo rito, lo spettatore partecipa con silenzi composti oppure sorridendo con circospezione o in modo liberatorio oppure anche assecondando e facilitando il monologo, il dialogo, la singola battuta: lo spettatore percepisce che vi è un processo d’interazione con l’attore-dichiarante e sa che la pièce non è uguale tutte le sere, sa che l’evento di quella sera è unico e tale resterà per sempre, perché la rappresentazione viene condizionata dal tipo di pubblico che vi è in sala ogni sera; il singolo spettatore sa che la sua presenza fisica contribuisce alla nascita di uno spettacolo diverso, anche senza alcuna comunicazione verbale con l’interprete-narratore.
Se ciò è vero, come si può sostenere che sia identico un controesame sostenuto in un’aula-teatro rispetto a quello affrontato con presenze virtuali in un filmato ?
E’ evidente che la partecipazione a distanza pone interrogativi circa la compatibilità con i principi naturali del giudizio, quali il contraddittorio, l’oralità, l’immediatezza dibattimentale. L’imputato dalla postazione remota percepirà sempre una visione incompleta e frammentaria dell’udienza dibattimentale, alla cui partecipazione non può attribuirsi il requisito della effettività.
Ma se davvero si ritiene “neutro” il sistema di comunicazione a distanza sì da non comprimere il diritto di difesa, si provi allora a ribaltare il problema e a chiedere ai P.M.: sarebbe sufficiente interrogare a distanza gli indagati che potrebbero collaborare o le persone informate sui fatti che si mostrano reticenti ?
La comunicazione a distanza è stata giustamente definita una “caricatura dell’oralità”14 ( Giuseppe Frigo, Guida al diritto 21.02.1998, p. 50 ) ed in contrasto con precise disposizioni regolamentatrici del sistema accusatorio italiano: art. 146 disp. att., ad esempio sancisce che “il seggio delle persone da sottoporre ad esame è collocato in modo da consentire che le persone stesse siano agevolmente visibili sia dal giudice che dalle parti”.
Orbene, se è vero che le disposizioni poste a tutela del dichiarante sottoposto a protezione consentono anche in aula di celarlo alle parti dietro un paravento, è anche vero che almeno il collegio giudicante ha la possibilità di controllare le reazioni gestuali, mimiche e facciali nel corso dell’esame e soprattutto durante il controesame della difesa e dello stesso collegio. Nel caso invece di audizione a distanza in videoconferenza, il collaboratore è riposto da tergo e pertanto resta sottratto alla percezione visiva finanche del collegio.
In conclusione, televisione e new media comportano una rivoluzione dell’esistente che sta producendo un “cambio di civiltà” non solo rispetto al precedente secolo ma rispetto al “sistema” di comunicazione che sostanzialmente durava da secoli. Il mondo moderno ha visto infatti il moltiplicarsi di varie “protesi” della comunicazione. “Il dito non è stato solo prolungato dalla macchina da scrivere, ma dalla stessa penna. Poi sono venuti prolungamenti più sofisticati, telefoni per la voce, televisori per le immagini. Ma fino a ieri le protesi in sé sono state come gli utensili dell’antichità che riproducevano segni, ma non ne costituivano totalmente il contenuto. E’ molto interessante quindi ogni studio della tecnologia dell’informazione moderna. Ma lo è nello stesso modo dell’archeologia che studia le statuette coperte di segni e messaggi”15 (15. Alberto Cavallari, La fabbrica del presente, ed. Feltrinelli). Infatti, non è la creta che interessa tanto, ma il segno che l’incide, l’orma che la cultura vi ha lascito, la civiltà che sta dietro l’utensile.
Dal 1950 ad oggi si registra un’esplosione mediatica dovuta alla saldatura tra l’elettronica e le telecomunicazioni che contribuiscono a produrre una trasformazione radicale i cui ulteriori sviluppi sono allo stato imprevedibili.
In ragione di ciò, così come il mestiere del giornalista esce stravolto dal vortice delle news in rete giacché il suo compito non è più la produzione della notizia (vedere e testimoniare) ma la post-produzione e cioè segnalare e inquadrare notizie già prodotte, rischia di mutare altresì radicalmente la professione forense.
Ritengo che sia utile, infine, iniziare ad interrogarsi sullo stato attuale del processo penale anche in relazione alle forme di comunicazione utilizzate dal difensore: è evidente che la difesa nel nuovo processo si fonda prevalentemente non più sull’arringa conclusiva ma soprattutto sulla “cross - examination”, le tecniche di esame e controesame dei testi.
Ma anche in questo mutato contesto è assai rilevante tentare di comprendere qual è lo stato attuale del linguaggio del difensore e quali sono i percorsi da intraprendere per l’affinamento e l’arricchimento di tecniche di comunicazione difensive.
Ed invero, l’avvocato, di fronte alla miriade di mosaici d’interferenza che influenzano il mondo e quindi anche il proprio specifico professionale, come potrà mai “convincere” attraverso tecniche di comunicazione forense concepite in un’epoca pre-televisiva ?
In tale contesto pre- “massmediologico”, gli uomini comunicavano in modo completamente differente, ispirandosi principalmente a linguaggi dettati dai tempi e modi di un quotidiano non virtuale ma realistico, naturale, oggettivo.
In tale contesto pre-televisivo, lo svolazzar di una toga o l’improvviso urlo retorico di sdegno, o lo sgranar d’occhi simulando orrore, rappresentavano una “rottura” dei tempi e dei toni usuali che la generalità dei cittadini utilizzava quotidianamente.
Più semplicemente, nell’epoca pre-televisiva, l’immaginifico avvocato spesso con la sua arringa riusciva a realizzare lo “stupore retorico” instillando nell’ascoltatore gocce di meraviglia.
Se si aggiunge che in tale epoca non si riusciva ad avere notizia alcuna di omicidi e violenze in tempo reale o comunque, certamente, non si conoscevano simultaneamente perfino i dettagli di centinaia di omicidi, storie, orrori e passioni, si comprende che allora il racconto forense “catturava” l’ascoltatore anche in forza dell’insolito contenuto narrativo.
Nell’attuale epoca post-televisiva, invece, essendo mutata in modo omologante la percezione degli avvenimenti e la comunicazione tra le persone, si è anche attenuata la differenza tra il linguaggio e la gestualità quotidiana del cittadino e la oratoria ed il gesto dell’avvocato.
Dal Duemila in poi, è infatti doveroso immaginare un giovane avvocato penalista che dopo essersi liberato di desueti modelli imitativi, falsi perché “recitati” e decontestualizzati, inizia a discostarsi anche dal linguaggio e dalla gestualità mutuata dai “mezzobusti” televisivi: tale ricerca dovrà rinvenire, nel corso dello snodarsi del percorso narrativo dell’arringa, sorprese semantiche ed espressive dirompenti rispetto al rischio di omologazione che potrebbe, a volte, trasformare noi penalisti, e di riflesso gli stessi P.M., in “mezzobusti forensi”.
Se, al di là del paradosso, tutto ciò ha un fondo di verità, sarebbe necessario individuare quali possano essere i sentieri esplorativi da percorrere per tentare di iniziare uno studio complessivo al fine di sperimentare, con saggia prudenza, nuove tecniche oratorie: non sarebbe eccessivo tentare di estrarre nuova linfa anche da una riflessione sul linguaggio della pubblicità e della poesia, intese entrambe come sintesi efficace ed immediata dell’uso dell’immagine e della parola.
“Nel processo contemporaneo quando il corpo del detenuto viene condotto davanti alla corte - scrive Paul Virilio - i microscopi elettronici, gli spettrometri di massa e i videografi a lettura laser lo avvolgono in un implacabile circo elettronico. L’architettura del teatro giudiziario diventa una sala di proiezione cinematografica, poi un’aula video, e i diversi avvocati attori della difesa perdono ogni speranza di crearvi con i mezzi a loro disposizione un effetto di realtà in grado di soggiogare i giurati e il pubblico per i quali i videoregistratori, il minitel, la televisione e altri schermi di computer sono diventati un modo quasi esclusivo per informarsi, per comunicare, per apprendere la realtà e muoversi in essa. Come riuscire ad ottenere ancora tutti gli effetti plateali, i colpi di scena che costituivano la gloria dei vecchi principi del foro? Come creare lo scandalo, la sorpresa, la commozione sotto lo sguardo dei tribunali elettronici capaci di anticipare e di tornare indietro nel tempo e nello spazio, davanti a una giustizia divenuta ora l’estremo esito tecnologico dell’impietoso più luce del terrore rivoluzionario,
la sua perfezione stessa?” (Paul Virilio, La macchina che vede, ed. Immaginari) .
Tra i mille possibili sentieri esplorativi per evitare il catastrofismo di Virilio, è opportuno citare Umberto Eco che , sul tema degli effetti fuorvianti delle videotestimonianze e delle riprese televisive dei processi, ricordava che la Chiesa, nella sua millenaria saggezza, ha statuito che la Santa Messa, vista in televisione, non vale a salvarsi l’anima …
Il diritto ad informare e ad essere informati è un diritto oggi più che mai fondamentale perché, in quello che è stato definito villaggio globale, la nostra coscienza si forma soprattutto non attraverso l’esperienza diretta ma attraverso l’informazione che diventa pertanto una precondizione per l’esercizio di tutti gli altri diritti dell’uomo. Diventano pertanto prioritarie le questioni dei meccanismi dell’informazione, della proprietà dei mezzi, dell’alfabetizzazione informativa e in definitiva dell’educazione alla lettura critica, consapevole della stampa e della tv.
E’ dunque importante per un avvocato penalista, che dovrebbe essere ben aduso a decrittare “notizie precotte”, comprendere che l’atteggiamento opportuno e necessario è quello di intercettare i mosaici d’interferenza della produzione d’informazione per non essere ingannati comprendendo che essa è un universo ben separato dalla realtà. E infine di diffidare: “dare del lei all’immagine, quando lei ti da del tu.” (Claudio Fracassi Sotto la notizia niente Saggio sull’informazione planetaria. Editori Riuniti)
Avv. Domenico Ciruzzi
già Presidente della Camera Penale di Napoli
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