La tutela dell'individuo nella società tecnologica e di fronte allo Stato tecnocratico
da Cass. pen. 1997, 1, 295
Gaetano Pecorella
L'avvocatura ha ben presente che vi sono due modi contrapposti di intendere il processo penale: chi pensa al processo penale come strumento di lotta alla criminalità, come una spada che colpisce ora questo ora quello, o addirittura settori della vita economica, finanziaria o politica, si riferisce al processo come strumento di oppressione, che talora può anche servire a qualche risultato utile (in termini di ordine pubblico), ma che lascia dietro di sé profonde ingiustizie, sofferenze e talora persino la morte di qualcuno; chi pensa al processo come a un complesso di regole che tendono ad accertare le responsabilità individuali nel rispetto dei diritti individuali, tra i quali in primo luogo la presunzione di innocenza, si ispira, viceversa, a un modello caro alla nostra cultura illuministica e razionale, quello del processo comestrumento di libertà. L'Unione delle Camere Penali è su questo fronte decisa a difendere questo modello di processo penale in tutte le sue prerogative.
Due diritti sono comunque inalienabili, anche di fronte alla differenziazione delle tipologie dei processi in relazione alla loro complessità o alla gravità dei reati: ci si riferisce a quelle garanzie che non possono differenziarsi a seconda del tipo di reati per cui si procede, e cioè il diritto di difesa e la presunzione di innocenza. Si assiste ormai da tempo in Italia ad una singolare inversione del rapporto tra garanzie e gravità dei reati, motivo per cui quanto più il reato per cui si procede è grave, tanto meno all'imputato sono riconosciute le garanzie più elementari. Si può richiamare, come esempio emblematico, la formazione della prova nei procedimenti di criminalità organizzata, nei quali ormai, dopo la sentenza della Corte costituzionale, tutto si consuma nelle stanze della procura della Repubblica, attraverso l'esame dei collaboranti: la «prova», quindi, viene riversata al giudice del dibattimento, che non di rado si limita a trascriverla nella sua sentenza.
È questa una delle storture del processo attuale, nei confronti della quale ci si deve particolarmente impegnare perché si torni alla formazione della prova in contraddittorio, pubblicamente e davanti al giudice che dovrà emettere la sentenza. Per arrivare a ciò vi sono più strade che chiediamo al Parlamento di percorrere al più presto e come prova di una vera volontà di cambiamento della giustizia.
Anzitutto è necessario che gli eventuali premi ai collaboranti siano subordinati alla condizione che essi si siano sottoposti all'esame e al controesame in sede dibattimentale: la protezione potrà anche scattare al loro cenno di voler collaborare, ma nessun trattamento di favore dovrà essere loro concesso se non alla luce di un loro effettivo contributo, offerto non già al pubblico ministero, bensì al giudice e più in generale al processo.
Sarà lecito anche reintrodurre la non utilizzabilità in dibattimento delle dichiarazioni rese al pubblico ministero, allorché il collaborante, imputato in procedimento connesso, si astenga dal rispondere nel dibattimento. Non si dica che ciò contrasterebbe con la sentenza della Corte costituzionale e che pertanto non è possibile una riforma in questa direzione. La Corte costituzionale, nel rendere utilizzabili le dichiarazioni rese in un procedimento connesso, si è basata sull'art. 3 della Costituzione, ritenendo che, per il principio di uguaglianza, così come sono utilizzabili le dichiarazioni rese da un imputato nello stesso procedimento, se si rifiuta di rispondere nel dibattimento, non sussisterebbe alcuna ragione per escludere la stessa utilizzabilità per le dichiarazioni rese nel corso delle indagini da un imputato in un procedimento connesso. È, tuttavia, il punto di partenza che è affetto da incostituzionalità: e cioè la utilizzabilità comunque di dichiarazioni rese al pubblico ministero, da imputato nello stesso o in altro procedimento, senza che le parti abbiano potuto sottoporre il teste dell'accusa al controinterrogatorio. Ciò contrasta tanto con il diritto di difesa di cui all'art. 24 della Costituzione che con l'art. 6 della Convenzione europea di tutela dei diritti dell'uomo, secondo cui ogni accusato ha diritto a interrogare o far interrogare i testimoni a carico.
Perciò la riforma che l'Unione porterà in sede politica è nel senso di escludere l'utilizzabilità delle dichiarazioni rese dai collaboranti, per le parti che contengono accuse nei confronti di terzi, se egli non si sottoporrà al vaglio dibattimentale: sia che sia imputato nello stesso procedimento, sia che sia imputato in un procedimento connesso.
Non ci si può nascondere che talune difficoltà per la nostra categoria dipendono anche dalla insufficiente selezione nell'accesso alla professione, nonché da taluni ritardi culturali e da eccessi di individualismo che hanno ostacolato la formazione di una vera unità tra tutti i penalisti: come si vedrà, tutto ciò è rimediabile e rientra nei programmi che l'Unione dovrà realizzare nel suo futuro.
Meno agevole riesce il compito di contrastare gli attacchi che vengono dall'esterno, ed in particolare dai pubblici ministeri, per affievolire le funzioni difensive dell'avvocato. Anzitutto, come si è accennato, la paralisi dell'accertamento dibattimentale con riguardo ai collaboratori, rende del tutto inutile la presenza del difensore, che è mero testimone di pietra del rapporto tra collaborante, pubblico ministero e giudice. La mancanza di un effettivo contributo nel processo, espone il difensore a possibili ricatti da parte delle organizzazioni criminali che, considerandolo inutile come professionista, cercano di utilizzarlo per scopi d'altra natura. Vi sono sedi giudiziarie in cui, grazie alla cecità del legislatore, l'avvocatura si trova continuamente esposta o al rischio di essere contestata, anche violentemente, dai propri assistiti, ovvero al pericolo di trovarsi indagata dalla procura della Repubblica.
Si deve aggiungere, poi, che non di rado gli atti raccolti inizialmente in una sola indagine vengono dispersi in più processi senza che i difensori ne possano avere conoscenza: talché le dichiarazioni di un collaborante possono essere selezionate a seconda della loro rilevanza nei singoli dibattimenti.
Ancora: sia l'audizione dei collaboranti nelle più lontane sedi, rispetto al luogo del processo, sia l'uso di videoconferenze, che provocano la perdita del contatto fisico con il «testimone», sono ulteriori elementi di appiattimento della funzione del difensore nei processi con numerosi imputati.
L'Unione delle Camere penali dovrà porsi l'obiettivo di una drastica riduzione dei casi di connessione così da tornare al processo con un limitato numero di imputati.
Vi è un profondo legame tra la funzione difensiva ed il giudice, per l'ovvia ragione che la difesa svolge un ruolo se vi è una vera dialettica con l'accusa; ed una vera dialettica può aversi soltanto se un terzo, al di sopra delle parti, da loro equidistante, è chiamato a stabilire il torto e la ragione. Ciò non accade oggi nelle indagini preliminari, perché il pubblico ministero conduce la sua inchiesta al di fuori di ogni controllo, talora per anni, e poi riversa sul giudice migliaia di carte che egli potrà appena scorrere data l'urgenza delle decisioni che gli sono chieste, soprattutto in materia di libertà personale. Si è arrivati così a un g.i.p. che, per scrivere le ordinanze di custodia cautelare, talora utilizza il «dischetto» con le richieste del p.m. scordandosi persino di effettuare le correzioni formali.
D'altra parte, e correlativamente, il difensore non è in grado di contrastare le richieste del pubblico ministero, nonostante la riforma dell'agosto del 1995, perché nulla sa di ciò che sta accadendo nei confronti del suo assistito. La realtà, dunque, è quella di un giudice che non controlla e non decide (e perciò non è un giudice) e di un difensore che non può sostenere le ragioni della parte da lui assistita (e perciò non è un difensore).
L'Unione dovrà impegnarsi perché questa situazione abnorme venga meno. Il g.i.p., da mero «esecutore», delle scelte del pubblico ministero, dovrà diventare il suo permanente controllore, nel senso che egli non potrà compiere attività di indagine (se non su richiesta e nel contraddittorio delle parti), ma dovrà essere informato dal p.m. dello sviluppo delle indagini.
Per altro verso, dovrà istituirsi presso l'ufficio del g.i.p. un fascicolo della difesa nel quale potranno confluire gli atti prodotti dal difensore, così che, in caso di una decisione da parte del g.i.p. quest'ultimo potrà e dovrà tenere conto degli elementi di prova raccolti nelle indagini difensive.
Bisogna capovolgere la logica in cui ci si è mossi sin ora - ed in cui sembra muoversi il Ministro - se si vuole far sì che il difensore non sia più l'ombra di se stesso: il nodo da sciogliere non riguarda le norme del codice di procedura penale, bensì le norme dell'ordinamento giudiziario. La parità tra accusa e difesa potrà aversi soltanto se il pubblico ministero avrà una collocazione all'interno degli apparati dello Stato del tutto distinta da quella del giudice: pubblici ministeri e giudici continueranno a far parte, entrambi, dell'ordine giudiziario, ma dovranno collocarsi in àmbiti del tutto separati, con la conseguenza che il passaggio dall'una all'altra funzione non potrà avvenire se non per il tramite di concorsi che abbiano le stesse caratteristiche di quelli previsti per chi acceda dall'esterno all'una o all'altra funzione. Si avrà così una separazione delle carriere senza che sussista il rischio che il pubblico ministero possa cadere sotto l'influenza dell'esecutivo.
Anche il C.S.M. dovrà riflettere questa separatezza contenendo al suo interno due sezioni, quella dei giudici e quella dei pubblici ministeri. Si eviterà così che la maggioranza dell'una o dell'altra componente possa far sentire il suo peso in sede disciplinare così potendo condizionare il comportamento di singoli magistrati nelle loro diverse funzioni.
Problema delicato, comunque, è quello delle maggioranze e minoranze all'interno del C.S.M., sia com'è strutturato ora, sia come potrebbe esserlo in un futuro: intervenendo in questioni che coinvolgano scelte di potere, in particolare per l'assetto degli uffici direttivi, il C.S.M., è talora più attento agli effetti «politici» delle sue decisioni che non alla efficienza del servizio. Per questo bisogna adottare un sistema elettorale che elimini i contenuti ideologici come elemento caratterizzante i gruppi che partecipano alla competizione a sostegno di questo o quel candidato.
La separazione delle carriere, a cui consegue una diversa struttura del C.S.M., dovrà restare anche per il futuro l'impegno primario dell'Unione Camere Penali, senza tentennamenti, senza compromessi e senza affidamenti di credibilità a soluzioni che sembrino cambiare tutto, in realtà per non cambiare nulla.
9. La questione, naturalmente, va oltre il tema della tutela della libertà dell'avvocatura, investendo il valore probatorio delle dichiarazioni dei collaboranti. I guasti maggiori, in questo campo, vengono da quella interpretazione dell'art. 192 c.p.p., secondo la quale due dichiarazioni di pentiti che siano tra loro convergenti, costituiscono piena prova. È noto, però, che le notizie si diffondono nelle carceri con estrema rapidità e che in particolare i collaboranti possono avere contatti tra di loro tanto diretti che attraverso altre persone.
È urgente, perciò, una riforma dell'art. 192 c.p.p.: dovrà chiarirsi che «gli altri elementi di prova», atti a confermare l'attendibilità delle dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso, debbono avere natura diversa dalla chiamata di correo, e dunque debbono essere riscontri obiettivi o testimoniali.
10. Gli studi degli avvocati, che godevano un tempo del rispetto dei giudici, sono oggi bersaglio di perquisizioni, ispezioni, invasioni da parte della polizia giudiziaria. Ma ciò che soprattutto va denunciato con la massima fermezza è la violazione della riservatezza dei colloqui tra il difensore e il suo assistito. Con intercettazioni telefoniche, mettendo «cimici» nei luoghi dove avvengono i colloqui tra l'avvocato e il suo cliente, persino all'interno delle «gabbie» in tribunale (com'è avvenuto a Napoli), con i mezzi più sofisticati, si cerca di penetrare nel segreto professionale, che è la base e l'essenza stessa del rapporto fiduciario. Senza riservatezza non è concepibile l'esercizio del diritto di difesa. Ma si è andati ben oltre. I risultati delle intercettazioni tra avvocato e assistito sono state diffuse per il tramite della stampa e talora sono state utilizzate come elemento di prova nelle ordinanze applicative della custodia cautelare. Eppure la normativa vigente prevede che non si possano effettuare intercettazioni tra difensore ed assistito e che, ove tali intercettazioni siano state fatte, le stesse debbano essere distrutte.
Sarà bene, dunque, che l'avvocatura tenga in maggiore considerazione la disposizione del codice di procedura penale secondo cui la violazione di norme processuali dà sempre luogo ad un illecito disciplinare, e che, pertanto, non si sottragga al dovere di richiedere al Ministro l'azione disciplinare ogni volta in cui ne ricorrano gli estremi: soprattutto in questa materia che tocca direttamente il diritto di difesa.
Bene sarebbe, in ogni caso, che si introducesse una sanzione penale nei confronti dei pubblici ufficiali (compresi giudici e pubblici ministeri), che violino il diritto alla riservatezza che spetta all'avvocato nei rapporti con il suo assistito, ovvero che diffondano o utilizzino, in qualunque forma, le notizie acquisite in violazione di tale diritto.
Ci si rende conto che, allo stato, tali indicazioni possono apparire troppo avveniristiche, soprattutto in presenza di una avvocatura che, in non pochi casi, si trova al limite della disoccupazione. Senonché, sin da ora è possibile impegnarsi per elevare il livello dei difensori nel processo penale, costituendo i Centri di formazione professionale.
Per chi si dedica esclusivamente a processi afferenti questioni di carattere penale, è facile osservare come vi sia, fra coloro che si dedicano a tale settore solo saltuariamente, un livello di preparazione eccezionalmente modesto. Il problema è particolarmente evidente nelle difese d'ufficio ove si può assistere a interventi defensionali al di sotto del minimo etico.
Come è noto il livello di preparazione teorica e soprattutto pratica che offre l'università è del tutto inadeguato per affrontare la professione e se non si ha la opportunità di frequentare lo studio di un penalista è assai difficile riuscire a raggiungere dei livelli che garantiscano al cittadino una difesa accettabile. La mancanza di una specializzazione effettiva, come ad esempio in medicina, prevista normativamente, di cui si discute ormai da anni, non consente in realtà ai cittadini di essere efficacemente tutelati.
Senza voler affrontare i conosciutissimi problemi che tutti gli operatori del diritto vivono quotidianamente, appare necessario che l'Unione delle Camere Penali in questo delicato momento storico, politico e culturale del Paese, intervenga per offrire al cittadino la certezza e la garanzia che il difensore al quale si rivolgerà o che gli sarà nominato d'ufficio, e che avrà il compito di tutelare il suo onore e la sua libertà, abbia una preparazione più che adeguata. Si avverte l'esigenza perciò, di dar vita a dei corsi di specializzazione.
Ci proponiamo, dunque, di creare dei centri di formazione distrettuali che avvieranno dei corsi di durata biennale ai quali potranno accedere i praticanti procuratori (anche se non iscritti alle locali Camere Penali). Tali centri saranno gestiti da avvocati di quel distretto, nominati al Centro di coordinamento, previo concerto con le locali Camere Penali, in un numero proporzionale agli iscritti al Consiglio dell'Ordine del luogo.
Ogni Camera Penale farà pervenire un elenco di coloro i quali ritiene idonei a ricoprire tale incarico, in un numero doppio rispetto al fabbisogno. Il centro di coordinamento nazionale dovrà individuare i componenti obbligatoriamente in questi elenchi.
Il corso sarà suddiviso in varie materie sostanziali e procedurali e dovranno essere tenute lezioni nell'arco del biennio per un totale di almeno duecento ore, privilegiando in particolare le problematiche di tipo pratico-attuativo. Le materie in cui si dovrà estrinsecare il corso saranno identiche per tutti i distretti e saranno indicate dal Centro di coordinamento nazionale. Esse saranno le seguenti:
1) La figura del difensore in generale. La difesa d'ufficio e gratuito patrocinio. La ricerca delle prove. La deontologia professionale.
2) La persona offesa, la parte civile e il responsabile civile.
3) Le misure cautelari.
4) I termini e le notificazioni.
5) L'archiviazione e l'udienza preliminare.
6) La nullità e l'inutilizzabilità.
7) Competenza, riunione, separazione, incompatibilità, astensione e ricusazione.
8) I mezzi di prova in generale.
9) Il dibattimento.
10) Tecnica dell'esame.
11) L'arringa.
12) L'esecuzione. Le misure alternative. L'ordinamento penitenziario.
13) Profili di diritto penale. In particolare l'elemento psicologico nel reato, le circostanze, le scriminanti, il tentativo, la prescrizione, l'oblazione e le misure di sicurezza.
14) Profili di parte speciale penale. Si dovranno evidenziare i reati che più comunemente ricorrano nella pratica.
15) Leggi penali speciali. Si dovranno evidenziare le leggi che più frequentemente trovano applicazione fra le quali sono da ricordare quelle in tema di inquinamento, di edilizia, di ambiente, di infortunistica, di armi e di stupefacenti.
È allora necessario, anzitutto, che i collaboranti siano sottratti alla influenza, consapevole o inconsapevole, da parte degli inquirenti che hanno i primi contatti con loro. Vanno eliminati i colloqui investigativi: il pentito può ben comunicare al magistrato, sin dall'inizio, il contenuto delle sue conoscenze, secondo forme rituali, con la verbalizzazione e la presenza del difensore.
Se si avverte la necessità di soggetti che intervengano, allorché un imputato intenda collaborare, per valutare la genuinità del suo atteggiamento, nonché per sottoporlo alla protezione in carcere, potrà farsi ricorso a corpi specializzati delle guardie carcerarie, anziché alla polizia giudiziaria, che è troppo coinvolta nelle indagini e che, anche involontariamente, potrebbe fornire notizie che il collaborante saprebbe ben sfruttare nel proprio interesse, imbastendo un racconto più ricco di informazioni e, quindi, meglio remunerato.
Posizione di grande responsabilità, rispetto alla genuinità delle dichiarazioni, ha il difensore del collaborante: perciò, costituisce un errore lasciare a pochi avvocati, spesso scelti dai pubblici ministeri, il compito di difendere i cosiddetti pentiti, quasi che di ciò non si dovesse far carico l'intera categoria. Il difensore del collaborante, se saprà differenziarsi dall'accusatore pubblico, può farsi carico della selezione tra i fatti che il suo assistito conosce direttamente e quelli che suppone ovvero sono giunti alle sue orecchie: può altresì intervenire per evitare le domande suggestive nel corso degli esami ovvero per assicurare la più assoluta fedeltà delle verbalizzazioni.
Peraltro, la limitatezza del numero di avvocati disposti ad assumere questo tipo di difesa ha fatto sì che gli incarichi si siano concentrati solo su alcuni difensori che si trovano ad assistere contemporaneamente numerosissimi «pentiti». È quasi inevitabile che, in questa situazione, essi possano diventare un punto di raccordo tra le varie collaborazioni, anche perché il loro scopo, in presenza di una sorta di specializzazione, può diventare soltanto quello di ottenere per il proprio cliente il massimo del premio.
Con una maggiore disponibilità dell'avvocatura ad assumere questa difesa potrà arrivarsi a due importanti risultati: il primo è quello di escludere che i collaboranti siano assistiti, sotto le mentite spoglie di difensori d'ufficio, da difensori di fiducia pagati dallo Stato; il secondo è quello di introdurre la regola per cui un avvocato non può assistere più collaboranti all'interno della stessa inchiesta o comunque all'interno di inchieste tra loro collegate.
Senonché, una tale soluzione sembra allo stato prematura, posto che si profila il rischio di una possibile gestione di tali uffici da parte delle autorità amministrative, con la selezione di coloro che possono parteciparvi, ovvero da parte dei Consigli dell'ordine che non sono attrezzati per il controllo di strutture che sarebbero alquanto complesse.
Meglio, per il momento, è restare all'attuale figura del difensore d'ufficio, con tutte quelle variazioni che ne possono consentire l'effettivo funzionamento. Anzitutto, sul piano fiduciario, bisogna che si riconosca al difensore il diritto di rifiutare o di rinunciare all'incarico. Sotto il profilo della efficienza dell'istituto si può formulare una proposta che si articoli in tre momenti: il primo è diretto ad informare l'indagato-imputato sui diritti-doveri in ordine alla difesa, il secondo concerne la regolamentazione del compenso da liquidare in favore del difensore d'ufficio, il terzo la formazione professionale del difensore d'ufficio.
A) Comunicazione di nomina di difensore. In ordine al primo punto è fondamentale prevedere uno specifico atto (così come oggi accade, ad esempio, per l'elezione di domicilio) che si potrebbe definire «comunicazione di nomina del difensore». Con questo atto l'indagato dovrà essere informato che:
1) nel procedimento penale è obbligatorio l'intervento difensivo di un legale a garanzia dell'indagato stesso;
2) l'indagato è perciò invitato a nominare un difensore di sua fiducia secondo le modalità che gli vengono indicate;
3) se tale nomina non avverrà gli verrà assegnato un difensore d'ufficio, di cui si indica il nominativo, precisando che l'ordinamento processuale penale rende obbligatoria la difesa tecnica;
4) il difensore d'ufficio così come il difensore di fiducia debbono essere retribuiti dall'interessato;
5) se il difensore d'ufficio non sarà retribuito spontaneamente dall'indagato, lo Stato anticiperà gli onorari al legale, salvo procedere alla ripetizione dall'interessato con aggravio delle ulteriori spese.
Se l'assistito non provvederà al pagamento, sarà lo stesso Consiglio ad anticipare gli onorari al legale; quindi trasmetterà gli atti alla pubblica amministrazione perché proceda alla riscossione forzata della somma a carico del cittadino.
Un tale meccanismo dovrebbe determinare un più costruttivo rapporto tra il difensore d'ufficio e il suo assistito; quest'ultimo, avendolo conservato come difensore e sapendo di doverlo retribuire, infatti sarà portato ad avere un atteggiamento di collaborazione nella difesa.
L'impegno di spesa per lo Stato dovrebbe essere minimo dal momento che le spese anticipate ai difensori dovrebbero essere recuperate dagli imputati. È ben vero che anche il legale potrebbe promuovere una procedura di esecuzione forzata, ma tutti conosciamo le difficoltà in cui si incagliano le procedure esecutive, così come conosciamo l'efficacia delle pubbliche esattorie.
Per l'anticipazione degli onorari al difensore d'ufficio, dovrebbe essere costituito un fondo a carico dello Stato per almeno il 70% della somma messa a disposizione; il restante 30% dovrebbe essere a carico dei Consigli dell'Ordine in proporzione al numero degli iscritti e dei difensori d'ufficio iscritti a quel Consiglio. Il fondo dovrebbe essere amministrato dal Consiglio, che si farebbe carico in concreto di anticipare gli onorari al difensore, oltre che di liquidare le parcelle e sollecitarne il pagamento.
14. Le forze politiche, a questi ed altri mali che affliggono la giustizia, non hanno saputo dare una risposta né tempestiva, né esauriente. I tempi della giustizia sono divenuti intollerabili, con l'effetto di danneggiare proprio le vittime innocenti, siano essi imputati ingiustamente accusati, ovvero parti lese che attendono la punizione dei colpevoli ed il ristoro dei danni subiti.
La disputa sull'amnistia, da farsi o meno, sta diventando meramente accademica, visto che i reati si avviano alla prescrizione senza che si abbia una sentenza, sia pure tardiva, ma quanto meno riparatrice. Ciò dipende in primo luogo dalla carenza di personale, e non soltanto per ciò che concerne il numero dei magistrati in servizio. Anzi, può ritenersi che il loro numero sia tra i più alti d'Europa, ma la loro scarsa produttività è collegata sia alla cattiva distribuzione sul territorio delle forze disponibili, sia alla mancanza di criteri uniformi in ordine agli orari di lavoro. Non si vede perché non sia previsto, come per tutti, l'obbligatoria presenza negli uffici per tutto il corso della giornata e la fissazione delle udienze, come regola, e non casualmente (come accade ora), tanto per la mattina che per il pomeriggio.
Anche la presenza del personale ausiliario soltanto nelle ore antimeridiane non risponde a criteri di efficienza e di piena produttività: un siffatto sistema è a scapito del buon funzionamento della giustizia e per di più incentiva il doppio lavoro, che ha sempre effetti negativi sull'economia di un Paese.
Ma anche all'interno degli uffici i magistrati sono mal distribuiti, perché le procure della Repubblica sono quasi sempre ben attrezzate, mentre insufficienti sono i g.i.p. ed i giudici del dibattimento, con l'effetto di trasferire il momento più significativo del processo nella fase delle indagini, anziché in quella del giudizio. Le procure allestiscono procedimenti che i giudici non sono in condizione di definire, cosicché l'incriminazione tende a sostituirsi, nelle convinzioni più diffuse, alla sentenza del giudice.
Peraltro, vi sono sedi disagiate che sembra siano state abbandonate al loro destino, quasi che vi fossero tribunali di prima e di seconda categoria. È esemplare il caso del Tribunale di Catanzaro, il cui presidente ha sospeso tutti i processi senza detenuti, per l'impossibilità di celebrarli. Da anni il Tribunale di S. Maria Capua Vetere attende che siano integrati i ruoli e che sia aumentato il numero dell'organico; con una criminalità a livello di Palermo, non tutti i posti sono coperti, e quand'anche lo fossero, si avrebbe un numero di magistrati pari a un terzo di quelli che sono in servizio a Palermo.
Il problema della efficienza della giustizia non è risolvibile, tuttavia, con il ricorso al giudice unico di primo grado, né con il giudice di pace in materia penale. Contro l'introduzione del giudice di pace, per di più con la possibilità di infliggere sanzioni che incidono sulla libertà personale, riesce evidente una considerazione elementare: tutto il diritto penale, sia sostanziale che processuale, è improntato al principio di legalità; perciò il giudice deve essere dotato di specifiche conoscenze tecnico-giuridiche, di una adeguata esperienza, che per definizione mancano al giudice di pace, che è giudice non tecnico. D'altronde, il principio di legalità è sancito a livello costituzionale, ragion per cui non è lecito ispirarsi a quegli ordinamenti in cui il giudice si affida all'equity per assumere le sue deliberazioni.
Sarebbe un giudizio superficiale quello di chi ritenesse che la critica al giudice di pace contrasterebbe con la posizione dell'Unione in tema di giuria, della quale chiediamo l'introduzione per le fattispecie di maggior interesse sociale: la giuria, infatti, decide solo sul fatto, mentre spetta al giudice-tecnico risolvere le questioni di diritto, tanto di natura processuale che di natura sostanziale. È la giuria, anzi, uno degli obiettivi su cui l'Unione si sente sempre più impegnata.
L'Unione è decisamente contraria anche al giudice monocratico di primo grado con una competenza più elevata rispetto a quella che ha oggi il pretore: diverse sono le ragioni di questa opposizione, dai pericoli inerenti alla solitudine decisionale (con le conseguenze insite nella mancanza di controllo «endogeno»), all'appiattimento di taluni giudici monocratici sulle posizioni del p.m. (tant'è che si pensa alla possibilità di trasformare il g.i.p. in giudice collegiale), alla insufficiente cultura della giurisdizione in giudici che provengano dalle schiere dei p.m. (per cui pregiudiziale alla introduzione del giudice monocratico sarebbe, comunque, la separazione delle carriere).
Di quelli sul giudice di pace e sul giudice monocratico di primo grado, si è già detto. Ma anche il disegno di legge sull'astensione dalle udienze non può trovare d'accordo l'avvocatura, se non altro perché a carico dei difensori che si astengono, senza rispettare termini e forme, scatterebbe una sanzione penale che non è prevista per chi esercita altri servizi pubblici essenziali, e nemmeno per il giudice o per il pubblico ministero.
Riconosciamo nel Ministro una apprezzabile apertura anche nei confronti delle esigenze dell'avvocatura, come dimostra il testo del nuovo disegno di legge sulle indagini difensive (sempre che sia quello a noi noto): tuttavia, il sostanziale rallentamento delle ispezioni ministeriali, se non il loro blocco, comprese quelle già iniziate dal precedente Ministro (si pensi al caso Napoli), il non esercizio di azioni disciplinari anche di fronte a esternazioni di magistrati che hanno attaccato altri apparati dello Stato, la netta e incondizionata opposizione alla separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri, sono tutti segni della sua preoccupazione di non scontentare la magistratura.
Scarsa, infine, è la presenza dell'avvocatura nella Commissione ministeriale che ha l'incarico di predisporre la riforma del processo penale: il numero di magistrati, di funzionari (che provengono dalla magistratura), e di docenti a tempo pieno, è nettamente preponderante rispetto a quello degli avvocati, cosicché si prospettano modifiche del codice che l'avvocatura non condivide, ma alle quali finisce per apparire consenziente. Basterebbe ricordare la nuova regolamentazione delle intercettazioni telefoniche che determinerebbe l'impossibilità per il difensore di conoscerne l'intero contenuto.
L'Unione delle Camere Penali si dovrà impegnare, anche su questo fronte, per far sì che sia rispettata la par condicio tra avvocati e magistrati, cosicché le riforme siano davvero il frutto di un proficuo, confronto tra coloro che, alla fine, ne sono i più diretti destinatari.
16. Sempre con riferimento alle riforme più urgenti, bisogna riconoscere che l'avvocatura è stata per troppo tempo assente dal dibattito sulle modifiche del diritto penale sostanziale. Tra l'altro, con il doppio binario, la configurazione di taluni reati ha l'effetto di condizionare anche le forme del processo penale.
Consideriamo l'istituto di creazione giurisprudenziale della c.d. partecipazione esterna alla associazione criminosa, un marchingegno che ha il solo scopo di colpire le fasce sociali che sono contigue alla criminalità organizzata, ma che della stessa non sono parte. È così che le condotte che sono prive di tipicità, al punto da non costituire neanche favoreggiamento aggravato, possono essere criminalizzate, il più delle volte nei confronti di soggetti che appartengono all'area della politica, della professione o della pubblica amministrazione.
Anche il reato di abuso in atti d'ufficio va ricondotto al principio di offensività prevedendosi che non può aversi una condotta punibile se non in quanto il p.u. abbia causato un danno patrimoniale al privato o alla pubblica amministrazione. L'attuale art. 323 c.p. è diventato lo strumento con cui le procure controllano e condizionano l'attività della pubblica amministrazione. Non si tratta, perciò, di trovare una migliore formulazione tecnica della norma: è in gioco il principio della separazione dei poteri.
Più in generale ci proponiamo di intervenire perché si rinunci all'attuale panpenalismo che ha dato luogo a una sterminata produzione legislativa, di cui forse nessuno conosce la vera entità. Torniamo al diritto penale che interviene soltanto laddove ogni altra specie di tutela giuridica risulti insufficiente a garantire i beni primari della collettività, ricorrendo a pene che siano rispondenti al principio di umanità e che per le modalità di esecuzione e per la loro durata tendano effettivamente alla rieducazione del condannato.
Una siffatta gestione della sofferenza umana non è casuale: il terrore di ciò che può accadere in una cella, più volte è stato alla base di quelle collaborazioni, di cui certi p.m. vanno fieri. Anche così si è cercato di spezzare il rapporto fiduciario con il difensore, perché contro il dolore, fisico e morale, poco può fare chi si limiti a dare consigli giuridici. Per questo l'Unione dovrà porsi tra i suoi obiettivi anche la riforma del sistema penitenziario.
Già si era pensato alla stesura di un breviario per il detenuto, soprattutto se extracomunitario, con il quale chi venga gettato in un carcere, può conoscere i suoi diritti di detenuto e i mezzi per difendersi.
Sarebbe opportuno che si permettesse al giudice di adeguare la pena alla concreta gravità del fatto elevando la diminuente delle attenuanti generiche sino alla metà: ciò, peraltro, avrebbe anche l'effetto di incentivare i giudizi abbreviati ed i patteggiamenti.
Anche la umanizzazione del diritto penale, dunque, rientra tra gli obiettivi che si propone l'Unione delle Camere Penali.
Solo il potere legislativo, affrontando organicamente lo stato della giustizia, può far uscire il Paese dall'emergenza: c'è da augurarsi, anche dopo il recente intervento della Corte costituzionale, che non si proceda per decreti-legge, che hanno tenuto conto più delle attese di sicurezza pubblica, che non delle esigenze del giusto processo.
19. La complessità dei problemi che dovrà affrontare l'Unione delle Camere Penali, nei prossimi anni, la eccezionale gravità delle condizioni in cui versa la giustizia, richiedono profonde innovazioni di carattere organizzativo. L'Unione è oggi una federazione di Camere Penali circondariali e distrettuali: ciò garantisce l'autonomia di tutte le Camere Penali, ma costituisce un ostacolo alla nascita di un soggetto politico che sia interlocutore del Governo, del Parlamento, dell'A.N.M. o di altre parti sociali. Pur mantenendo la struttura federativa è venuto il tempo per l'Unione di esercitare pienamente la sua funzione di indirizzo politico: all'Unione soltanto compete la rappresentanza degli interessi collettivi dell'avvocatura penale, mentre alle singole Camere Penali spetta il compito di intervenire nelle questioni più strettamente locali.
Peraltro, se si vuole che l'Unione delle Camere Penali non diventi una entità scollegata dalle realtà locali, è indispensabile che sia incrementata l'elaborazione politica a livello periferico e che questa elaborazione sia permanentemente riversata nell'Unione delle Camere Penali che potrà così via via diventare espressione della vera realtà di tutta l'avvocatura.
Sarebbe illusorio pensare che la Giunta dell'Unione possa da sola riuscire ad organizzare tutti gli interventi che diventano sempre più frequenti, sia sul terreno politico, che sui mezzi di comunicazione, che nel confronto con l'A.N.M. e con le altre rappresentanze del mondo forense. La Giunta dell'Unione, dunque, dovrà operare come un organo esclusivamente politico: a ciò consegue la necessità di approntare degli organi tecnici che collaborino con la Giunta stessa e diano pratica attuazione alle sue deliberazioni. Un contributo di particolare portata si attende l'Unione dal Centro Marongiu che dovrà costituire la sede per la traduzione in proposte legislative delle scelte di politica giudiziaria che verranno dalla Giunta o dal Consiglio delle Camere Penali.
Per completare il quadro dei rapporti con altre realtà forensi, non resta che prospettare le linee di tendenza nei confronti della A.N.M. e dell'Organismo unitario. L'Unione non potrà che mantenere le posizioni già assunte in passato, che hanno risposto alle attese dell'avvocatura penale. Con l'A.N.M. si manterrà aperto quel confronto che ha già dato dei buoni risultati. Si riconosce all'Organismo unitario la rappresentanza di interessi unitari dell'avvocatura, che prescindano dalla specifica funzione dell'avvocato penalista: l'Unione, viceversa, resta il solo soggetto che in questo momento raccolga in sé le idee, le aspettative, la volontà di lotta dell'avvocatura penale.
(*) Relazione tenuta al Congresso dell'Unione delle Camere Penali, svoltosi a Catania nei giorni 25-27 ottobre 1996.
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