La rassegna di dottrina e giurisprudenza del Corso nazionale di formazione specialistica dell'avvocato penalista organizzato dall'Unione delle Camere penali italiane in collaborazione con il Centro per la formazione e l'aggiornamento professionale degli avvocati del Consiglio Nazionale Forense.

26 giugno 2007

Congresso di Catania, 1996: La tutela dell'individuo nella società tecnologica e di fronte allo Stato tecnocratico.

Pubblichiamo la relazione dell'On. Pecorella, allora Presidente dell'Unione delle Camere penali, in occasione del Congresso dell'UCPI, svoltosi a Catania nei giorni 25-27 ottobre 1996. Tra i temi trattati , va segnalato, per l'interesse che riveste in questa sede, quello relativo alla formazione dell'avvocato penalista, con la previsione di Centri di formazione professionale, organizzati dalle Camere penali territoriali.

La tutela dell'individuo nella società tecnologica e di fronte allo Stato tecnocratico

da Cass. pen. 1997, 1, 295

Gaetano Pecorella

Presidente dell'Unione delle Camere Penali
L'Unione delle Camere Penali ha un patrimonio politico e culturale che si è venuto formando attraverso l'intenso dibattito che ha sempre caratterizzato il Direttivo e la Consulta dei presidenti, nonché, parallelamente, con il contributo di tutte le Camere Penali: tra i valori che sono stati posti al centro del nostro impegno, vi sono stati, costantemente, la libertà personale, il diritto di difesa, il diritto alla prova, l'indipendenza del giudice, la sua supremazia rispetto al pubblico ministero (anche e soprattutto attraverso la separazione delle carriere), l'autonomia e la lealtà dell'avvocatura italiana (che hanno costituito la ragione ed il fondamento dell'autoregolamentazione dell'astensione dalle udienze e del codice deontologico). Un programma per il futuro, perciò, non può certo rappresentare una svolta radicale rispetto a ciò che si è proposta l'Unione nel corso di questi anni, soprattutto a partire dal congresso di Bari: la lunga stagione delle battaglie per il processo «giusto», condotte da Gustavo Pansini, da Frino Restivo e da Vittorio Chiusano, non può certo dirsi conclusa, sia perché i risultati, che pur vi sono stati, non hanno consentito di recuperare le garanzie del cittadino nel processo penale, sia perché le tentazioni di sopraffazione da parte di certi settori della magistratura sono tutt'altro che sopite. Si può dire che le proteste dell'avvocatura contro i decreti dell'emergenza, contro lo sfascio della giustizia, contro le forze reazionarie che hanno tentato di opporsi al rinnovamento (basterebbe ricordare il documento dei duecento pubblici ministeri), hanno ottenuto più l'effetto di impedire il peggioramento delle cose, che non quello di un reale e significativo miglioramento. Per questo è necessario continuare ed anzi intensificare i nostri interventi sui temi della giustizia, sia nei confronti del potere politico che nei confronti del potere giudiziario.
2. L'espressione «potere giudiziario» non è stata usata a caso: è questa una delle più gravi distorsioni che ha subito il nostro sistema costituzionale: la magistratura, che avrebbe dovuto essere «un ordine», si è trasformata in un vero e proprio centro di potere che è sempre presente sul terreno della politica, che si contrappone al Parlamento, cercando di condizionarne la funzione legislativa, e che, talora, riesce perfino ad influenzare gli orientamenti elettorali con indagini che vengono opportunatamente cadenzate. Questo fenomeno, già presente nella cosiddetta supplenza, si è andato manifestando in forme sempre più gravi negli ultimi anni con l'avvento dei processi cosiddetti di «mani pulite» e con il ruolo dominante del pubblico ministero nel processo e fuori del processo. Perché la magistratura torni a svolgere il suo ruolo istituzionale è necessario che la politica rioccupi le funzioni che le sono proprie, e cioè quelle di creare le condizioni sociali per il contenimento della criminalità e per combatterla con gli strumenti della difesa sociale, di fare leggi che riportino il processo alla sua natura di mezzo per l'accertamento delle responsabilità, di intervenire sulle deviazioni sempre più frequenti di alcuni magistrati, di dare ai giudici gli strumenti indispensabili per svolgere il loro lavoro. È necessario anche che l'avvocatura penale sappia organizzarsi in forme sempre più unitarie e compatte, così da essere coscienza garantista del Paese, assieme a tutti coloro, politici, magistrati, uomini di cultura che sono disposti a schierarsi sulle stesse posizioni.
3. Ma un altro pericolo si aggira nel mondo della giustizia: ed è la crescita incontrollata di una società tecnologica e di uno Stato tecnocratico per i quali i valori individuali non hanno una significativa importanza, posto che metro di misura di ciò che va salvato, rispetto a ciò che va sacrificato, non è nient'altro che il risultato che si riesce a conseguire. Perciò la società tecnologica e lo Stato tecnocratico, anche al di là degli specifici caratteri della giustizia in Italia, di cui sopra si è detto, costituiscono la fonte di vecchi e nuovi pericoli per le libertà e le garanzie dell'individuo. Lo dimostra proprio la concezione che si è venuta affermando del processo penale, la cui validità viene commisurata non più sulla base delle regole che lo caratterizzano, e cioè sul come si arriva alla decisione, bensì tenendo presente il risultato in termini di effetti sugli assetti di potere e sulla società.
L'avvocatura ha ben presente che vi sono due modi contrapposti di intendere il processo penale: chi pensa al processo penale come strumento di lotta alla criminalità, come una spada che colpisce ora questo ora quello, o addirittura settori della vita economica, finanziaria o politica, si riferisce al processo come strumento di oppressione, che talora può anche servire a qualche risultato utile (in termini di ordine pubblico), ma che lascia dietro di sé profonde ingiustizie, sofferenze e talora persino la morte di qualcuno; chi pensa al processo come a un complesso di regole che tendono ad accertare le responsabilità individuali nel rispetto dei diritti individuali, tra i quali in primo luogo la presunzione di innocenza, si ispira, viceversa, a un modello caro alla nostra cultura illuministica e razionale, quello del processo comestrumento di libertà. L'Unione delle Camere Penali è su questo fronte decisa a difendere questo modello di processo penale in tutte le sue prerogative.
Due diritti sono comunque inalienabili, anche di fronte alla differenziazione delle tipologie dei processi in relazione alla loro complessità o alla gravità dei reati: ci si riferisce a quelle garanzie che non possono differenziarsi a seconda del tipo di reati per cui si procede, e cioè il diritto di difesa e la presunzione di innocenza. Si assiste ormai da tempo in Italia ad una singolare inversione del rapporto tra garanzie e gravità dei reati, motivo per cui quanto più il reato per cui si procede è grave, tanto meno all'imputato sono riconosciute le garanzie più elementari. Si può richiamare, come esempio emblematico, la formazione della prova nei procedimenti di criminalità organizzata, nei quali ormai, dopo la sentenza della Corte costituzionale, tutto si consuma nelle stanze della procura della Repubblica, attraverso l'esame dei collaboranti: la «prova», quindi, viene riversata al giudice del dibattimento, che non di rado si limita a trascriverla nella sua sentenza.
È questa una delle storture del processo attuale, nei confronti della quale ci si deve particolarmente impegnare perché si torni alla formazione della prova in contraddittorio, pubblicamente e davanti al giudice che dovrà emettere la sentenza. Per arrivare a ciò vi sono più strade che chiediamo al Parlamento di percorrere al più presto e come prova di una vera volontà di cambiamento della giustizia.
Anzitutto è necessario che gli eventuali premi ai collaboranti siano subordinati alla condizione che essi si siano sottoposti all'esame e al controesame in sede dibattimentale: la protezione potrà anche scattare al loro cenno di voler collaborare, ma nessun trattamento di favore dovrà essere loro concesso se non alla luce di un loro effettivo contributo, offerto non già al pubblico ministero, bensì al giudice e più in generale al processo.
Sarà lecito anche reintrodurre la non utilizzabilità in dibattimento delle dichiarazioni rese al pubblico ministero, allorché il collaborante, imputato in procedimento connesso, si astenga dal rispondere nel dibattimento. Non si dica che ciò contrasterebbe con la sentenza della Corte costituzionale e che pertanto non è possibile una riforma in questa direzione. La Corte costituzionale, nel rendere utilizzabili le dichiarazioni rese in un procedimento connesso, si è basata sull'art. 3 della Costituzione, ritenendo che, per il principio di uguaglianza, così come sono utilizzabili le dichiarazioni rese da un imputato nello stesso procedimento, se si rifiuta di rispondere nel dibattimento, non sussisterebbe alcuna ragione per escludere la stessa utilizzabilità per le dichiarazioni rese nel corso delle indagini da un imputato in un procedimento connesso. È, tuttavia, il punto di partenza che è affetto da incostituzionalità: e cioè la utilizzabilità comunque di dichiarazioni rese al pubblico ministero, da imputato nello stesso o in altro procedimento, senza che le parti abbiano potuto sottoporre il teste dell'accusa al controinterrogatorio. Ciò contrasta tanto con il diritto di difesa di cui all'art. 24 della Costituzione che con l'art. 6 della Convenzione europea di tutela dei diritti dell'uomo, secondo cui ogni accusato ha diritto a interrogare o far interrogare i testimoni a carico.
Perciò la riforma che l'Unione porterà in sede politica è nel senso di escludere l'utilizzabilità delle dichiarazioni rese dai collaboranti, per le parti che contengono accuse nei confronti di terzi, se egli non si sottoporrà al vaglio dibattimentale: sia che sia imputato nello stesso procedimento, sia che sia imputato in un procedimento connesso.
4. In uno Stato tecnocratico, e per di più con una straordinaria invadenza del potere giudiziario, non poteva non accadere che il ruolo dell'avvocato penalista venisse sempre più compresso all'interno del processo penale e che la sua stessa persona fosse aggredita direttamente da talune procure della Repubblica. Ci si riferisce all'utilizzazione di pentiti, le cui dichiarazioni, quasi sempre non controllate, portano alla incriminazione di avvocati penalisti; ovvero a improvvide iniziative di taluni pubblici ministeri, che appaiono più mirate a denigrare l'immagine pubblica di un difensore che non all'accertamento dei reati; o, infine, alla lesione della riservatezza tra difensore e assistito, ricorrendo a incivili forme di spionaggio così minando alla base la stessa possibilità di esercitare la professione forense.
Non ci si può nascondere che talune difficoltà per la nostra categoria dipendono anche dalla insufficiente selezione nell'accesso alla professione, nonché da taluni ritardi culturali e da eccessi di individualismo che hanno ostacolato la formazione di una vera unità tra tutti i penalisti: come si vedrà, tutto ciò è rimediabile e rientra nei programmi che l'Unione dovrà realizzare nel suo futuro.
Meno agevole riesce il compito di contrastare gli attacchi che vengono dall'esterno, ed in particolare dai pubblici ministeri, per affievolire le funzioni difensive dell'avvocato. Anzitutto, come si è accennato, la paralisi dell'accertamento dibattimentale con riguardo ai collaboratori, rende del tutto inutile la presenza del difensore, che è mero testimone di pietra del rapporto tra collaborante, pubblico ministero e giudice. La mancanza di un effettivo contributo nel processo, espone il difensore a possibili ricatti da parte delle organizzazioni criminali che, considerandolo inutile come professionista, cercano di utilizzarlo per scopi d'altra natura. Vi sono sedi giudiziarie in cui, grazie alla cecità del legislatore, l'avvocatura si trova continuamente esposta o al rischio di essere contestata, anche violentemente, dai propri assistiti, ovvero al pericolo di trovarsi indagata dalla procura della Repubblica.
5. L'estraneazione del difensore dal processo passa poi attraverso tutta la strumentazione che si collega ai maxi-processi: è pressoché impossibile per chiunque partecipare alla sequenza delle innumerevoli udienze, sia per la coincidenza con altri impegni, sia perché per anni ci si dovrebbe occupare di un unico dibattimento. Ciò comporta una disparità di fatto con il pubblico ministero che non soltanto ha condotto le indagini, e dunque le conosce nel loro divenire, ma è anche permanentemente in udienza.
Si deve aggiungere, poi, che non di rado gli atti raccolti inizialmente in una sola indagine vengono dispersi in più processi senza che i difensori ne possano avere conoscenza: talché le dichiarazioni di un collaborante possono essere selezionate a seconda della loro rilevanza nei singoli dibattimenti.
Ancora: sia l'audizione dei collaboranti nelle più lontane sedi, rispetto al luogo del processo, sia l'uso di videoconferenze, che provocano la perdita del contatto fisico con il «testimone», sono ulteriori elementi di appiattimento della funzione del difensore nei processi con numerosi imputati.
L'Unione delle Camere penali dovrà porsi l'obiettivo di una drastica riduzione dei casi di connessione così da tornare al processo con un limitato numero di imputati.
6. Una ulteriore ragione delle difficoltà in cui si muove il difensore nel processo penale discende dall'eccesso di regole che si sono venute sovrapponendo allo schema delineato dal codice del 1988: eccesso di regole che in realtà ha determinato la mancanza di regole univoche e la vocazione della magistratura a scegliersi quelle regole che si rivelino come l'ostacolo meno ingombrante per l'esercizio dei suoi poteri. È allora necessario recuperare un modello di processo penale che sia sì caratterizzato da poche regole, ma nel quale tutto discenda dal principio secondo cui non può aversi prova senza contraddittorio: al centro del processo dovrà porsi nuovamente il giudice, anche nel corso delle indagini, sia nell'ipotesi in cui si raccolga una prova, o ciò che potrà diventare prova in dibattimento, sia quando siano in gioco i diritti dell'individuo.
Vi è un profondo legame tra la funzione difensiva ed il giudice, per l'ovvia ragione che la difesa svolge un ruolo se vi è una vera dialettica con l'accusa; ed una vera dialettica può aversi soltanto se un terzo, al di sopra delle parti, da loro equidistante, è chiamato a stabilire il torto e la ragione. Ciò non accade oggi nelle indagini preliminari, perché il pubblico ministero conduce la sua inchiesta al di fuori di ogni controllo, talora per anni, e poi riversa sul giudice migliaia di carte che egli potrà appena scorrere data l'urgenza delle decisioni che gli sono chieste, soprattutto in materia di libertà personale. Si è arrivati così a un g.i.p. che, per scrivere le ordinanze di custodia cautelare, talora utilizza il «dischetto» con le richieste del p.m. scordandosi persino di effettuare le correzioni formali.
D'altra parte, e correlativamente, il difensore non è in grado di contrastare le richieste del pubblico ministero, nonostante la riforma dell'agosto del 1995, perché nulla sa di ciò che sta accadendo nei confronti del suo assistito. La realtà, dunque, è quella di un giudice che non controlla e non decide (e perciò non è un giudice) e di un difensore che non può sostenere le ragioni della parte da lui assistita (e perciò non è un difensore).
L'Unione dovrà impegnarsi perché questa situazione abnorme venga meno. Il g.i.p., da mero «esecutore», delle scelte del pubblico ministero, dovrà diventare il suo permanente controllore, nel senso che egli non potrà compiere attività di indagine (se non su richiesta e nel contraddittorio delle parti), ma dovrà essere informato dal p.m. dello sviluppo delle indagini.
Per altro verso, dovrà istituirsi presso l'ufficio del g.i.p. un fascicolo della difesa nel quale potranno confluire gli atti prodotti dal difensore, così che, in caso di una decisione da parte del g.i.p. quest'ultimo potrà e dovrà tenere conto degli elementi di prova raccolti nelle indagini difensive.
7. Riforme di tal fatta, tuttavia, non avrebbero alcuna incidenza se non mutasse l'attuale stato delle cose: la figura ordinamentale del pubblico ministero, contigua a quella del giudice, altera, infatti, i ruoli dei soggetti del processo. Un giudice che si identifichi con l'accusa tenderà sempre a considerare l'imputato come una controparte; d'altronde, finché il pubblico ministero avrà le caratteristiche di un giudice, egli sarà legittimato a compiere tutte le attività che sono proprie di un giudice. È tanto vero ciò che il processo penale accusatorio, come lo avrebbe voluto il codice del 1988, è naufragato proprio perché la Corte costituzionale, coerentemente con la collocazione istituzionale del pubblico ministero, ha riconosciuto a quest'ultimo la potestà di formare la prova.
Bisogna capovolgere la logica in cui ci si è mossi sin ora - ed in cui sembra muoversi il Ministro - se si vuole far sì che il difensore non sia più l'ombra di se stesso: il nodo da sciogliere non riguarda le norme del codice di procedura penale, bensì le norme dell'ordinamento giudiziario. La parità tra accusa e difesa potrà aversi soltanto se il pubblico ministero avrà una collocazione all'interno degli apparati dello Stato del tutto distinta da quella del giudice: pubblici ministeri e giudici continueranno a far parte, entrambi, dell'ordine giudiziario, ma dovranno collocarsi in àmbiti del tutto separati, con la conseguenza che il passaggio dall'una all'altra funzione non potrà avvenire se non per il tramite di concorsi che abbiano le stesse caratteristiche di quelli previsti per chi acceda dall'esterno all'una o all'altra funzione. Si avrà così una separazione delle carriere senza che sussista il rischio che il pubblico ministero possa cadere sotto l'influenza dell'esecutivo.
Anche il C.S.M. dovrà riflettere questa separatezza contenendo al suo interno due sezioni, quella dei giudici e quella dei pubblici ministeri. Si eviterà così che la maggioranza dell'una o dell'altra componente possa far sentire il suo peso in sede disciplinare così potendo condizionare il comportamento di singoli magistrati nelle loro diverse funzioni.
Problema delicato, comunque, è quello delle maggioranze e minoranze all'interno del C.S.M., sia com'è strutturato ora, sia come potrebbe esserlo in un futuro: intervenendo in questioni che coinvolgano scelte di potere, in particolare per l'assetto degli uffici direttivi, il C.S.M., è talora più attento agli effetti «politici» delle sue decisioni che non alla efficienza del servizio. Per questo bisogna adottare un sistema elettorale che elimini i contenuti ideologici come elemento caratterizzante i gruppi che partecipano alla competizione a sostegno di questo o quel candidato.
La separazione delle carriere, a cui consegue una diversa struttura del C.S.M., dovrà restare anche per il futuro l'impegno primario dell'Unione Camere Penali, senza tentennamenti, senza compromessi e senza affidamenti di credibilità a soluzioni che sembrino cambiare tutto, in realtà per non cambiare nulla.
8. L'avvocato - come si è detto è schiacciato non soltanto dal gigantismo del pubblico ministero: egli sempre di più è oggetto di aggressioni dirette da parte del rappresentante dell'accusa. Sono ricorrenti nei verbali dei c.d. pentiti le domande del pubblico ministero sugli avvocati difensori per conoscere le modalità con cui l'avvocato ha esercitato il suo mandato e per trovare un qualche appiglio per incriminare il difensore: di rimando il collaborante non si sottrae certo alle aspettative del pubblico ministero ben sapendo che gli elementi da lui forniti a carico di agguerriti avversari dell'accusa non potranno non essere ben ricompensati.
9. La questione, naturalmente, va oltre il tema della tutela della libertà dell'avvocatura, investendo il valore probatorio delle dichiarazioni dei collaboranti. I guasti maggiori, in questo campo, vengono da quella interpretazione dell'art. 192 c.p.p., secondo la quale due dichiarazioni di pentiti che siano tra loro convergenti, costituiscono piena prova. È noto, però, che le notizie si diffondono nelle carceri con estrema rapidità e che in particolare i collaboranti possono avere contatti tra di loro tanto diretti che attraverso altre persone.
È urgente, perciò, una riforma dell'art. 192 c.p.p.: dovrà chiarirsi che «gli altri elementi di prova», atti a confermare l'attendibilità delle dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso, debbono avere natura diversa dalla chiamata di correo, e dunque debbono essere riscontri obiettivi o testimoniali.
10. Gli studi degli avvocati, che godevano un tempo del rispetto dei giudici, sono oggi bersaglio di perquisizioni, ispezioni, invasioni da parte della polizia giudiziaria. Ma ciò che soprattutto va denunciato con la massima fermezza è la violazione della riservatezza dei colloqui tra il difensore e il suo assistito. Con intercettazioni telefoniche, mettendo «cimici» nei luoghi dove avvengono i colloqui tra l'avvocato e il suo cliente, persino all'interno delle «gabbie» in tribunale (com'è avvenuto a Napoli), con i mezzi più sofisticati, si cerca di penetrare nel segreto professionale, che è la base e l'essenza stessa del rapporto fiduciario. Senza riservatezza non è concepibile l'esercizio del diritto di difesa. Ma si è andati ben oltre. I risultati delle intercettazioni tra avvocato e assistito sono state diffuse per il tramite della stampa e talora sono state utilizzate come elemento di prova nelle ordinanze applicative della custodia cautelare. Eppure la normativa vigente prevede che non si possano effettuare intercettazioni tra difensore ed assistito e che, ove tali intercettazioni siano state fatte, le stesse debbano essere distrutte.
Sarà bene, dunque, che l'avvocatura tenga in maggiore considerazione la disposizione del codice di procedura penale secondo cui la violazione di norme processuali dà sempre luogo ad un illecito disciplinare, e che, pertanto, non si sottragga al dovere di richiedere al Ministro l'azione disciplinare ogni volta in cui ne ricorrano gli estremi: soprattutto in questa materia che tocca direttamente il diritto di difesa.
Bene sarebbe, in ogni caso, che si introducesse una sanzione penale nei confronti dei pubblici ufficiali (compresi giudici e pubblici ministeri), che violino il diritto alla riservatezza che spetta all'avvocato nei rapporti con il suo assistito, ovvero che diffondano o utilizzino, in qualunque forma, le notizie acquisite in violazione di tale diritto.
11. Gli avvocati penalisti, per far fronte a tale situazione, debbono sapersi attrezzare con forme di organizzazione degli studi assai più moderne di quelle attuali. Soprattutto nelle grandi città è necessario che si realizzi la concentrazione di più avvocati in un'unica struttura, secondo i modelli di società più avanzate, così da potersi avere livelli più alti di specializzazione nei diversi settori del diritto penale, ed altresì con la finalità di contenere le spese, per di più con attrezzature più efficienti. La stessa praticabilità delle indagini difensive richiede che tendenzialmente si possa distinguere tra chi sosterrà la difesa in udienza e chi si dedicherà alla ricerca ed alla acquisizione degli elementi di prova.
Ci si rende conto che, allo stato, tali indicazioni possono apparire troppo avveniristiche, soprattutto in presenza di una avvocatura che, in non pochi casi, si trova al limite della disoccupazione. Senonché, sin da ora è possibile impegnarsi per elevare il livello dei difensori nel processo penale, costituendo i Centri di formazione professionale.
Per chi si dedica esclusivamente a processi afferenti questioni di carattere penale, è facile osservare come vi sia, fra coloro che si dedicano a tale settore solo saltuariamente, un livello di preparazione eccezionalmente modesto. Il problema è particolarmente evidente nelle difese d'ufficio ove si può assistere a interventi defensionali al di sotto del minimo etico.
Come è noto il livello di preparazione teorica e soprattutto pratica che offre l'università è del tutto inadeguato per affrontare la professione e se non si ha la opportunità di frequentare lo studio di un penalista è assai difficile riuscire a raggiungere dei livelli che garantiscano al cittadino una difesa accettabile. La mancanza di una specializzazione effettiva, come ad esempio in medicina, prevista normativamente, di cui si discute ormai da anni, non consente in realtà ai cittadini di essere efficacemente tutelati.
Senza voler affrontare i conosciutissimi problemi che tutti gli operatori del diritto vivono quotidianamente, appare necessario che l'Unione delle Camere Penali in questo delicato momento storico, politico e culturale del Paese, intervenga per offrire al cittadino la certezza e la garanzia che il difensore al quale si rivolgerà o che gli sarà nominato d'ufficio, e che avrà il compito di tutelare il suo onore e la sua libertà, abbia una preparazione più che adeguata. Si avverte l'esigenza perciò, di dar vita a dei corsi di specializzazione.
Ci proponiamo, dunque, di creare dei centri di formazione distrettuali che avvieranno dei corsi di durata biennale ai quali potranno accedere i praticanti procuratori (anche se non iscritti alle locali Camere Penali). Tali centri saranno gestiti da avvocati di quel distretto, nominati al Centro di coordinamento, previo concerto con le locali Camere Penali, in un numero proporzionale agli iscritti al Consiglio dell'Ordine del luogo.
Ogni Camera Penale farà pervenire un elenco di coloro i quali ritiene idonei a ricoprire tale incarico, in un numero doppio rispetto al fabbisogno. Il centro di coordinamento nazionale dovrà individuare i componenti obbligatoriamente in questi elenchi.
Il corso sarà suddiviso in varie materie sostanziali e procedurali e dovranno essere tenute lezioni nell'arco del biennio per un totale di almeno duecento ore, privilegiando in particolare le problematiche di tipo pratico-attuativo. Le materie in cui si dovrà estrinsecare il corso saranno identiche per tutti i distretti e saranno indicate dal Centro di coordinamento nazionale. Esse saranno le seguenti:

1) La figura del difensore in generale. La difesa d'ufficio e gratuito patrocinio. La ricerca delle prove. La deontologia professionale.
2) La persona offesa, la parte civile e il responsabile civile.
3) Le misure cautelari.
4) I termini e le notificazioni.
5) L'archiviazione e l'udienza preliminare.
6) La nullità e l'inutilizzabilità.
7) Competenza, riunione, separazione, incompatibilità, astensione e ricusazione.
8) I mezzi di prova in generale.
9) Il dibattimento.
10) Tecnica dell'esame.
11) L'arringa.
12) L'esecuzione. Le misure alternative. L'ordinamento penitenziario.
13) Profili di diritto penale. In particolare l'elemento psicologico nel reato, le circostanze, le scriminanti, il tentativo, la prescrizione, l'oblazione e le misure di sicurezza.
14) Profili di parte speciale penale. Si dovranno evidenziare i reati che più comunemente ricorrano nella pratica.
15) Leggi penali speciali. Si dovranno evidenziare le leggi che più frequentemente trovano applicazione fra le quali sono da ricordare quelle in tema di inquinamento, di edilizia, di ambiente, di infortunistica, di armi e di stupefacenti.

Terminato il biennio, la Commissione distrettuale valuterà l'idoneità del partecipante e rilascerà attestazione in tal senso.
12. Uno dei nodi da sciogliere dell'attuale processo penale concerne l'utilizzazione dei collaboranti e la predisposizione di idonee garanzie per evitare che gli stessi introducano nel processo elementi di falsità per le più diverse ragioni: un pericolo incombe sulla giustizia italiana ed è quello di una massa di pentiti che possono manovrare giudici e procure della Repubblica per compiere vendette personali, per continuare ad aiutare le cosche di cui fanno parte, eventualmente contro altre associazioni criminali, per colpire avvocati, uomini politici o magistrati. Siamo in presenza di evidenti conflitti interni alla magistratura dei quali ben potrebbero approfittare i collaboranti decidendo essi chi dovrà ricoprire i posti direttivi ovvero essere costretto a lasciare le sue funzioni.
È allora necessario, anzitutto, che i collaboranti siano sottratti alla influenza, consapevole o inconsapevole, da parte degli inquirenti che hanno i primi contatti con loro. Vanno eliminati i colloqui investigativi: il pentito può ben comunicare al magistrato, sin dall'inizio, il contenuto delle sue conoscenze, secondo forme rituali, con la verbalizzazione e la presenza del difensore.
Se si avverte la necessità di soggetti che intervengano, allorché un imputato intenda collaborare, per valutare la genuinità del suo atteggiamento, nonché per sottoporlo alla protezione in carcere, potrà farsi ricorso a corpi specializzati delle guardie carcerarie, anziché alla polizia giudiziaria, che è troppo coinvolta nelle indagini e che, anche involontariamente, potrebbe fornire notizie che il collaborante saprebbe ben sfruttare nel proprio interesse, imbastendo un racconto più ricco di informazioni e, quindi, meglio remunerato.
Posizione di grande responsabilità, rispetto alla genuinità delle dichiarazioni, ha il difensore del collaborante: perciò, costituisce un errore lasciare a pochi avvocati, spesso scelti dai pubblici ministeri, il compito di difendere i cosiddetti pentiti, quasi che di ciò non si dovesse far carico l'intera categoria. Il difensore del collaborante, se saprà differenziarsi dall'accusatore pubblico, può farsi carico della selezione tra i fatti che il suo assistito conosce direttamente e quelli che suppone ovvero sono giunti alle sue orecchie: può altresì intervenire per evitare le domande suggestive nel corso degli esami ovvero per assicurare la più assoluta fedeltà delle verbalizzazioni.
Peraltro, la limitatezza del numero di avvocati disposti ad assumere questo tipo di difesa ha fatto sì che gli incarichi si siano concentrati solo su alcuni difensori che si trovano ad assistere contemporaneamente numerosissimi «pentiti». È quasi inevitabile che, in questa situazione, essi possano diventare un punto di raccordo tra le varie collaborazioni, anche perché il loro scopo, in presenza di una sorta di specializzazione, può diventare soltanto quello di ottenere per il proprio cliente il massimo del premio.
Con una maggiore disponibilità dell'avvocatura ad assumere questa difesa potrà arrivarsi a due importanti risultati: il primo è quello di escludere che i collaboranti siano assistiti, sotto le mentite spoglie di difensori d'ufficio, da difensori di fiducia pagati dallo Stato; il secondo è quello di introdurre la regola per cui un avvocato non può assistere più collaboranti all'interno della stessa inchiesta o comunque all'interno di inchieste tra loro collegate.

13. Perché sia garantita una difesa per tutti è necessario che possa instaurarsi un rapporto effettivo tra difensore d'ufficio e imputato, del tutto identico a quello che esiste con il difensore di fiducia.
In prospettiva si potrebbe pensare alla istituzione dell'Ufficio del difensore pubblico che provveda sia alla assegnazione del difensore ai singoli imputati, sia alla remunerazione dei difensori stessi attraverso il prelievo di somme anticipate dallo Stato e da questo recuperate, in caso di condanna dell'imputato, con lo stesso procedimento di recupero delle spese di giustizia (tramite l'ufficio del campione penale).
Senonché, una tale soluzione sembra allo stato prematura, posto che si profila il rischio di una possibile gestione di tali uffici da parte delle autorità amministrative, con la selezione di coloro che possono parteciparvi, ovvero da parte dei Consigli dell'ordine che non sono attrezzati per il controllo di strutture che sarebbero alquanto complesse.
Meglio, per il momento, è restare all'attuale figura del difensore d'ufficio, con tutte quelle variazioni che ne possono consentire l'effettivo funzionamento. Anzitutto, sul piano fiduciario, bisogna che si riconosca al difensore il diritto di rifiutare o di rinunciare all'incarico. Sotto il profilo della efficienza dell'istituto si può formulare una proposta che si articoli in tre momenti: il primo è diretto ad informare l'indagato-imputato sui diritti-doveri in ordine alla difesa, il secondo concerne la regolamentazione del compenso da liquidare in favore del difensore d'ufficio, il terzo la formazione professionale del difensore d'ufficio.
A) Comunicazione di nomina di difensore. In ordine al primo punto è fondamentale prevedere uno specifico atto (così come oggi accade, ad esempio, per l'elezione di domicilio) che si potrebbe definire «comunicazione di nomina del difensore». Con questo atto l'indagato dovrà essere informato che:

1) nel procedimento penale è obbligatorio l'intervento difensivo di un legale a garanzia dell'indagato stesso;
2) l'indagato è perciò invitato a nominare un difensore di sua fiducia secondo le modalità che gli vengono indicate;
3) se tale nomina non avverrà gli verrà assegnato un difensore d'ufficio, di cui si indica il nominativo, precisando che l'ordinamento processuale penale rende obbligatoria la difesa tecnica;
4) il difensore d'ufficio così come il difensore di fiducia debbono essere retribuiti dall'interessato;
5) se il difensore d'ufficio non sarà retribuito spontaneamente dall'indagato, lo Stato anticiperà gli onorari al legale, salvo procedere alla ripetizione dall'interessato con aggravio delle ulteriori spese.

Dovrebbero così chiarirsi gli equivoci che oggi circondano la figura del difensore d'ufficio, considerato da molti l'avvocato dello Stato, intendendo d'ufficio come «retribuito dall'ufficio». Inoltre si porterebbe l'attenzione sul fatto che il diritto alla difesa è per il nostro ordinamento indisponibile e irrinunciabile.
B) Liquidazione degli onorari in favore del difensore d'ufficio. Il difensore d'ufficio, terminata la fase procedimentale in corso, si rivolgerà al Consiglio dell'Ordine per ottenere la liquidazione della proposta di parcella, che egli compilerà seguendo il tariffario professionale. Il difensore d'ufficio, quindi, invierà la parcella liquidata dal Consiglio dell'Ordine all'assistito, allegando la richiesta di pagamento.
Se l'assistito non provvederà al pagamento, sarà lo stesso Consiglio ad anticipare gli onorari al legale; quindi trasmetterà gli atti alla pubblica amministrazione perché proceda alla riscossione forzata della somma a carico del cittadino.
Un tale meccanismo dovrebbe determinare un più costruttivo rapporto tra il difensore d'ufficio e il suo assistito; quest'ultimo, avendolo conservato come difensore e sapendo di doverlo retribuire, infatti sarà portato ad avere un atteggiamento di collaborazione nella difesa.
L'impegno di spesa per lo Stato dovrebbe essere minimo dal momento che le spese anticipate ai difensori dovrebbero essere recuperate dagli imputati. È ben vero che anche il legale potrebbe promuovere una procedura di esecuzione forzata, ma tutti conosciamo le difficoltà in cui si incagliano le procedure esecutive, così come conosciamo l'efficacia delle pubbliche esattorie.
Per l'anticipazione degli onorari al difensore d'ufficio, dovrebbe essere costituito un fondo a carico dello Stato per almeno il 70% della somma messa a disposizione; il restante 30% dovrebbe essere a carico dei Consigli dell'Ordine in proporzione al numero degli iscritti e dei difensori d'ufficio iscritti a quel Consiglio. Il fondo dovrebbe essere amministrato dal Consiglio, che si farebbe carico in concreto di anticipare gli onorari al difensore, oltre che di liquidare le parcelle e sollecitarne il pagamento.
C) Formazione professionale. Dovrebbero essere ammessi alle difese d'ufficio soltanto coloro che abbiano seguito i corsi di preparazione professionale di cui già si è detto.
14. Le forze politiche, a questi ed altri mali che affliggono la giustizia, non hanno saputo dare una risposta né tempestiva, né esauriente. I tempi della giustizia sono divenuti intollerabili, con l'effetto di danneggiare proprio le vittime innocenti, siano essi imputati ingiustamente accusati, ovvero parti lese che attendono la punizione dei colpevoli ed il ristoro dei danni subiti.
La disputa sull'amnistia, da farsi o meno, sta diventando meramente accademica, visto che i reati si avviano alla prescrizione senza che si abbia una sentenza, sia pure tardiva, ma quanto meno riparatrice. Ciò dipende in primo luogo dalla carenza di personale, e non soltanto per ciò che concerne il numero dei magistrati in servizio. Anzi, può ritenersi che il loro numero sia tra i più alti d'Europa, ma la loro scarsa produttività è collegata sia alla cattiva distribuzione sul territorio delle forze disponibili, sia alla mancanza di criteri uniformi in ordine agli orari di lavoro. Non si vede perché non sia previsto, come per tutti, l'obbligatoria presenza negli uffici per tutto il corso della giornata e la fissazione delle udienze, come regola, e non casualmente (come accade ora), tanto per la mattina che per il pomeriggio.
Anche la presenza del personale ausiliario soltanto nelle ore antimeridiane non risponde a criteri di efficienza e di piena produttività: un siffatto sistema è a scapito del buon funzionamento della giustizia e per di più incentiva il doppio lavoro, che ha sempre effetti negativi sull'economia di un Paese.
Ma anche all'interno degli uffici i magistrati sono mal distribuiti, perché le procure della Repubblica sono quasi sempre ben attrezzate, mentre insufficienti sono i g.i.p. ed i giudici del dibattimento, con l'effetto di trasferire il momento più significativo del processo nella fase delle indagini, anziché in quella del giudizio. Le procure allestiscono procedimenti che i giudici non sono in condizione di definire, cosicché l'incriminazione tende a sostituirsi, nelle convinzioni più diffuse, alla sentenza del giudice.
Peraltro, vi sono sedi disagiate che sembra siano state abbandonate al loro destino, quasi che vi fossero tribunali di prima e di seconda categoria. È esemplare il caso del Tribunale di Catanzaro, il cui presidente ha sospeso tutti i processi senza detenuti, per l'impossibilità di celebrarli. Da anni il Tribunale di S. Maria Capua Vetere attende che siano integrati i ruoli e che sia aumentato il numero dell'organico; con una criminalità a livello di Palermo, non tutti i posti sono coperti, e quand'anche lo fossero, si avrebbe un numero di magistrati pari a un terzo di quelli che sono in servizio a Palermo.
Il problema della efficienza della giustizia non è risolvibile, tuttavia, con il ricorso al giudice unico di primo grado, né con il giudice di pace in materia penale. Contro l'introduzione del giudice di pace, per di più con la possibilità di infliggere sanzioni che incidono sulla libertà personale, riesce evidente una considerazione elementare: tutto il diritto penale, sia sostanziale che processuale, è improntato al principio di legalità; perciò il giudice deve essere dotato di specifiche conoscenze tecnico-giuridiche, di una adeguata esperienza, che per definizione mancano al giudice di pace, che è giudice non tecnico. D'altronde, il principio di legalità è sancito a livello costituzionale, ragion per cui non è lecito ispirarsi a quegli ordinamenti in cui il giudice si affida all'equity per assumere le sue deliberazioni.
Sarebbe un giudizio superficiale quello di chi ritenesse che la critica al giudice di pace contrasterebbe con la posizione dell'Unione in tema di giuria, della quale chiediamo l'introduzione per le fattispecie di maggior interesse sociale: la giuria, infatti, decide solo sul fatto, mentre spetta al giudice-tecnico risolvere le questioni di diritto, tanto di natura processuale che di natura sostanziale. È la giuria, anzi, uno degli obiettivi su cui l'Unione si sente sempre più impegnata.
L'Unione è decisamente contraria anche al giudice monocratico di primo grado con una competenza più elevata rispetto a quella che ha oggi il pretore: diverse sono le ragioni di questa opposizione, dai pericoli inerenti alla solitudine decisionale (con le conseguenze insite nella mancanza di controllo «endogeno»), all'appiattimento di taluni giudici monocratici sulle posizioni del p.m. (tant'è che si pensa alla possibilità di trasformare il g.i.p. in giudice collegiale), alla insufficiente cultura della giurisdizione in giudici che provengano dalle schiere dei p.m. (per cui pregiudiziale alla introduzione del giudice monocratico sarebbe, comunque, la separazione delle carriere).
15. Su questi disegni di legge l'Unione intende continuare a confrontarsi con il Ministro di grazia e giustizia, che aveva, al suo insediamento, preannunciato un metodo che gli avvocati hanno condiviso, ma che è stato poi inspiegabilmente abbandonato. Sembrava che, innovando anche sul recente passato, il Ministro intendesse costituire delle commissioni miste, composte da funzionari, magistrati e avvocati, per discutere preventivamente i disegni di legge, così da recepire tutte le voci del mondo forense, delle quali il Ministro, ovviamente, avrebbe tenuto conto con assoluta discrezionalità: tali commissioni permanenti, tuttavia, non sono decollate, cosicché ora ci troviamo a dover criticare taluni disegni di legge che forse avremmo potuto contribuire a migliorare.
Di quelli sul giudice di pace e sul giudice monocratico di primo grado, si è già detto. Ma anche il disegno di legge sull'astensione dalle udienze non può trovare d'accordo l'avvocatura, se non altro perché a carico dei difensori che si astengono, senza rispettare termini e forme, scatterebbe una sanzione penale che non è prevista per chi esercita altri servizi pubblici essenziali, e nemmeno per il giudice o per il pubblico ministero.
Riconosciamo nel Ministro una apprezzabile apertura anche nei confronti delle esigenze dell'avvocatura, come dimostra il testo del nuovo disegno di legge sulle indagini difensive (sempre che sia quello a noi noto): tuttavia, il sostanziale rallentamento delle ispezioni ministeriali, se non il loro blocco, comprese quelle già iniziate dal precedente Ministro (si pensi al caso Napoli), il non esercizio di azioni disciplinari anche di fronte a esternazioni di magistrati che hanno attaccato altri apparati dello Stato, la netta e incondizionata opposizione alla separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri, sono tutti segni della sua preoccupazione di non scontentare la magistratura.
Scarsa, infine, è la presenza dell'avvocatura nella Commissione ministeriale che ha l'incarico di predisporre la riforma del processo penale: il numero di magistrati, di funzionari (che provengono dalla magistratura), e di docenti a tempo pieno, è nettamente preponderante rispetto a quello degli avvocati, cosicché si prospettano modifiche del codice che l'avvocatura non condivide, ma alle quali finisce per apparire consenziente. Basterebbe ricordare la nuova regolamentazione delle intercettazioni telefoniche che determinerebbe l'impossibilità per il difensore di conoscerne l'intero contenuto.
L'Unione delle Camere Penali si dovrà impegnare, anche su questo fronte, per far sì che sia rispettata la par condicio tra avvocati e magistrati, cosicché le riforme siano davvero il frutto di un proficuo, confronto tra coloro che, alla fine, ne sono i più diretti destinatari.
16. Sempre con riferimento alle riforme più urgenti, bisogna riconoscere che l'avvocatura è stata per troppo tempo assente dal dibattito sulle modifiche del diritto penale sostanziale. Tra l'altro, con il doppio binario, la configurazione di taluni reati ha l'effetto di condizionare anche le forme del processo penale.
Consideriamo l'istituto di creazione giurisprudenziale della c.d. partecipazione esterna alla associazione criminosa, un marchingegno che ha il solo scopo di colpire le fasce sociali che sono contigue alla criminalità organizzata, ma che della stessa non sono parte. È così che le condotte che sono prive di tipicità, al punto da non costituire neanche favoreggiamento aggravato, possono essere criminalizzate, il più delle volte nei confronti di soggetti che appartengono all'area della politica, della professione o della pubblica amministrazione.
Anche il reato di abuso in atti d'ufficio va ricondotto al principio di offensività prevedendosi che non può aversi una condotta punibile se non in quanto il p.u. abbia causato un danno patrimoniale al privato o alla pubblica amministrazione. L'attuale art. 323 c.p. è diventato lo strumento con cui le procure controllano e condizionano l'attività della pubblica amministrazione. Non si tratta, perciò, di trovare una migliore formulazione tecnica della norma: è in gioco il principio della separazione dei poteri.
Più in generale ci proponiamo di intervenire perché si rinunci all'attuale panpenalismo che ha dato luogo a una sterminata produzione legislativa, di cui forse nessuno conosce la vera entità. Torniamo al diritto penale che interviene soltanto laddove ogni altra specie di tutela giuridica risulti insufficiente a garantire i beni primari della collettività, ricorrendo a pene che siano rispondenti al principio di umanità e che per le modalità di esecuzione e per la loro durata tendano effettivamente alla rieducazione del condannato.
17. Anche sulla situazione carceraria è urgente intervenire. Già le pene, nel nostro Paese, hanno raggiunto livelli altissimi, nella illusione che le sanzioni feroci siano una efficace controspinta per la criminalità: le carceri, poi, sono luoghi di tortura, in cui la persona viene privata di ogni dignità.
Una siffatta gestione della sofferenza umana non è casuale: il terrore di ciò che può accadere in una cella, più volte è stato alla base di quelle collaborazioni, di cui certi p.m. vanno fieri. Anche così si è cercato di spezzare il rapporto fiduciario con il difensore, perché contro il dolore, fisico e morale, poco può fare chi si limiti a dare consigli giuridici. Per questo l'Unione dovrà porsi tra i suoi obiettivi anche la riforma del sistema penitenziario.
Già si era pensato alla stesura di un breviario per il detenuto, soprattutto se extracomunitario, con il quale chi venga gettato in un carcere, può conoscere i suoi diritti di detenuto e i mezzi per difendersi.
Sarebbe opportuno che si permettesse al giudice di adeguare la pena alla concreta gravità del fatto elevando la diminuente delle attenuanti generiche sino alla metà: ciò, peraltro, avrebbe anche l'effetto di incentivare i giudizi abbreviati ed i patteggiamenti.
Anche la umanizzazione del diritto penale, dunque, rientra tra gli obiettivi che si propone l'Unione delle Camere Penali.
18. Chiediamo un ritorno alla giustizia normale, senza eroi e senza vittime: che si ponga fine all'emergenza. Il Parlamento dovrà riappropriarsi del suo ruolo di unica fonte normativa in materia penale, sia sostanziale che processuale. Le riforme all'esame delle commissioni parlamentari potrebbero anche rispondere alle attese dell'Unione delle Camere Penali: preoccupa, però, che dall'insediamento del nuovo Parlamento siano ormai trascorsi molti mesi senza che si siano visti concreti risultati.
Solo il potere legislativo, affrontando organicamente lo stato della giustizia, può far uscire il Paese dall'emergenza: c'è da augurarsi, anche dopo il recente intervento della Corte costituzionale, che non si proceda per decreti-legge, che hanno tenuto conto più delle attese di sicurezza pubblica, che non delle esigenze del giusto processo.

19. La complessità dei problemi che dovrà affrontare l'Unione delle Camere Penali, nei prossimi anni, la eccezionale gravità delle condizioni in cui versa la giustizia, richiedono profonde innovazioni di carattere organizzativo. L'Unione è oggi una federazione di Camere Penali circondariali e distrettuali: ciò garantisce l'autonomia di tutte le Camere Penali, ma costituisce un ostacolo alla nascita di un soggetto politico che sia interlocutore del Governo, del Parlamento, dell'A.N.M. o di altre parti sociali. Pur mantenendo la struttura federativa è venuto il tempo per l'Unione di esercitare pienamente la sua funzione di indirizzo politico: all'Unione soltanto compete la rappresentanza degli interessi collettivi dell'avvocatura penale, mentre alle singole Camere Penali spetta il compito di intervenire nelle questioni più strettamente locali.
Peraltro, se si vuole che l'Unione delle Camere Penali non diventi una entità scollegata dalle realtà locali, è indispensabile che sia incrementata l'elaborazione politica a livello periferico e che questa elaborazione sia permanentemente riversata nell'Unione delle Camere Penali che potrà così via via diventare espressione della vera realtà di tutta l'avvocatura.
Sarebbe illusorio pensare che la Giunta dell'Unione possa da sola riuscire ad organizzare tutti gli interventi che diventano sempre più frequenti, sia sul terreno politico, che sui mezzi di comunicazione, che nel confronto con l'A.N.M. e con le altre rappresentanze del mondo forense. La Giunta dell'Unione, dunque, dovrà operare come un organo esclusivamente politico: a ciò consegue la necessità di approntare degli organi tecnici che collaborino con la Giunta stessa e diano pratica attuazione alle sue deliberazioni. Un contributo di particolare portata si attende l'Unione dal Centro Marongiu che dovrà costituire la sede per la traduzione in proposte legislative delle scelte di politica giudiziaria che verranno dalla Giunta o dal Consiglio delle Camere Penali.
Per completare il quadro dei rapporti con altre realtà forensi, non resta che prospettare le linee di tendenza nei confronti della A.N.M. e dell'Organismo unitario. L'Unione non potrà che mantenere le posizioni già assunte in passato, che hanno risposto alle attese dell'avvocatura penale. Con l'A.N.M. si manterrà aperto quel confronto che ha già dato dei buoni risultati. Si riconosce all'Organismo unitario la rappresentanza di interessi unitari dell'avvocatura, che prescindano dalla specifica funzione dell'avvocato penalista: l'Unione, viceversa, resta il solo soggetto che in questo momento raccolga in sé le idee, le aspettative, la volontà di lotta dell'avvocatura penale.

(*) Relazione tenuta al Congresso dell'Unione delle Camere Penali, svoltosi a Catania nei giorni 25-27 ottobre 1996.


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