Dal sito dell'UCPI
OSSERVAZIONI
SUL «PACCHETTO SICUREZZA»
I : Introduzione
1- L’UCPI esprime una posizione di forte dissenso nei confronti del c.d. pacchetto sicurezza, laddove prevede misure destinate a riconfigurare istituti e meccanismi della giustizia penale del nostro Paese.
Osserva come, per l'ennesima volta, un potere politico incapace di programmare una crescita sociale strategica - fondata sulla promozione di adeguati standards di qualità di una convivenza democratica chiamata a confrontarsi con i problemi posti dai flussi migratori e, più in generale, dal multiculturalismo etnico - abbia deciso di affidare agli strumenti più obsoleti e controversi di una repressione penale d'antan (incriminazione di condotte espressive di disagio sociale, inasprimenti sanzionatori per fatti colposi, limitazioni di garanzie costituzionali processuali e potenziamento della prevenzione ante delictum) la funzione di contenere le ansie di una condizione di insicurezza collettiva, per molti versi alimentata dalla enfatizzazione mediatica di episodi che, pur nella oggettiva carica di efferatezza, appartengono, purtroppo, a ‘costanti’ nella storia della criminalità. Si ripropone, in tal modo, una concezione della penalità di stampo illiberale, paternalistico e populista, in quanto irriducibilmente simbolica ne è la funzione: il prospettato intervento di restrizioni di libertà e garanzie individuali, infatti, non trae origine da valutazioni concernenti la effettiva indispensabilità di tali misure ai fini del contenimento di determinati fenomeni criminali, bensì risponde ad esigenze di mera rassicurazione sociale, a loro volta funzionali ad una comunicazione puramente demagogica tra potere politico e società.
2 - Da tempo, la più avvertita riflessione teorica ha smascherato l'ipocrisia ideologica e l'efficacia criminogena di politiche criminali orientate in questa direzione. L'una risiede nel fatto che tali politiche - anziché rimuovere le cause strutturali delle situazioni che dichiarano di voler contrastare - si limitano semplicemente ad occultarle, finendo in tal modo per consentire al fenomeno criminoso di continuare a proliferare. La seconda fonda sulla considerazione che un disegno di penalizzazione concernente le aree della marginalità deviante, non accompagnato da interventi di riduzione del disagio sociale sottostante, rischia di generare effetti criminogeni.
La conferma di tale aberrante impostazione emerge tra le righe della premessa teorico-concettuale esplicitata nel preambolo del "pacchetto", su cui l’UCPI ritiene che sia urgente fare chiarezza in quanto il suo accoglimento - sul piano culturale e su quello dell'azione parlamentare - rischia di segnare l'avvio di una inquietante involuzione autoritaria nella politica criminale del nostro Paese. Ci si riferisce all'assunto secondo cui la sicurezza costituisce un diritto fondamentale dell'Unione Europea. L’UCPI reputa questa affermazione foriera di pericoli per il sistema delle garanzie penali e processual-penali dello Stato di diritto, ove il significato del concetto di sicurezza venga delineato quale rovescio speculare della nozione di ‘insicurezza sociale’. Se, infatti, la ‘sicurezza’ sia intesa quale assenza di ‘tranquillità sociale’ e, in tale sua conformazione, la si voglia qualificare come ‘diritto fondamentale’ la cui attuazione va perseguita attraverso gli strumenti del diritto e della procedura penale, non è difficile pronosticare l'eclissi del sistema di giustizia penale fondato sui principi costituzionali. Al riguardo, non c'è chi non veda come il ‘campo semantico’ presidiato da quel concetto sia così vago, ed intriso di condizionamenti emotivo-sociali, da risultare incompatibile con i caratteri che definiscono - per i costituzionalisti e i penalisti contemporanei - rispettivamente le nozioni di ‘diritto fondamentale’ e di ‘bene giuridico’. La sicurezza intesa quale positiva percezione di tranquillità - ovvero, in negativo, quale sua mancanza - non può configurare un ‘diritto fondamentale’ e neppure un ‘bene giuridico’. Non l'uno, perché essa non riflette una ‘situazione di valore’ riferibile alla persona umana, avente una autonoma portata rispetto alle classiche libertà individuali ed immediatamente giustiziabile. Non l'altra, perché priva dei caratteri di determinatezza ed afferrabilità, senza cui non si dà legittimo oggetto di tutela penale; tutt’al più, essa potrebbe costituire una mera ratio di tutela, vale a dire una unità teleologica di sintesi posta a fondamento di un articolato complesso normativo. Fondato, allora, è affermare che l'odierno concetto di ‘sicurezza’ rappresenti la versione lessicalmente aggiornata della nozione di ‘ordine pubblico’, vale a dire del famigerato referente di legittimazione del diritto penale di marca autoritaria e degli interventi repressivi di eccezione.
3 - Un esame del “pacchetto” porta a ritenere che, effettivamente, il legislatore - non potendo più spendere sul ‘mercato’ della produzione penale il concetto di ordine pubblico, perché ‘moneta priva di valore legale’ - si sia determinato a veicolarne i contenuti attraverso il nuovo passepartout del concetto di ‘sicurezza’. E che con tale concetto si sia voluto far riferimento ad entrambe le accezioni della nozione di ordine pubblico (quella ‘ideale-normativa’ e quella ‘empirico-materiale’) è assunto che risulta convalidato dall'esame del “pacchetto”. L'accezione ideale-normativa del concetto di ordine pubblico si ritrova nelle “Disposizioni in materia di certezza della pena”, ove, evidentemente, si allude al rafforzamento del diritto del singolo e della collettività di vedere rispettate le norme. L'accezione empirico-materiale della nozione è riflessa nelle “Disposizioni per il contrasto della illegalità diffusa”, ove viene introdotta la fattispecie di “impiego di minori nell'accattonaggio”, ampliata l'aggravante prevista dall'art. 112, n. 4, c.p., estesa la portata del delitto di danneggiamento e irrigidito il contenuto sanzionatorio della sospensione condizionale della pena per quest’ultima ipotesi. Occorre, dunque, smascherare la mistificazione che si aggira dietro l'impostazione del “pacchetto” ed affermare con nettezza illegittimità ed inutilità di norme coercitive con funzione di tutela della ‘sicurezza’. Ribadendo, così, che il solo significato che consente di accreditare la sicurezza nella categoria dei diritti fondamentali è quello che ne fa un corollario logico delle libertà individuali: non avrebbe senso alcuno proclamare queste ultime se non si garantisse ai loro titolari la sicurezza del relativo godimento.
II : I profili di illegittimità costituzionale
Sono da ribadire le osservazioni già svolte dall’U.C.P.I. nel documento presentato alla Commissione Affari Costituzionali del Senato il 6 novembre 2007. Al di là dì ogni giudizio circa l'opportunità politica e la ragionevolezza delle norme contenute nel D.L. 1 novembre 2007 n.181, modificativo del D.lgs. n.30 del 6 febbraio 2007, l'Unione Camere Penali Italiane intende sottoporre all'esame della Commissione Affari Costituzionali taluni profili di illegittimità costituzionale presenti nella normativa.
1. - La genericità dei "motivi imperativi di pubblica sicurezza". I “motivi imperativi di pubblica sicurezza” che legittimano l'immediata esecuzione da parte del Questore del provvedimento di allontanamento adottato dal Prefetto sono così definiti: “quando il cittadino dell'Unione o un suo familiare, qualunque sia la sua cittadinanza, abbia tenuto comportamenti che compromettono la tutela della dignità umana e dei diritti fondamentali della persona ovvero l'incolumità pubblica, rendendo la sua permanenza sul territorio nazionale incompatibile con l'ordinaria convivenza” (art. 20 comma 7 ter D.Lgs, n.30/2007 come modificato dall'art. 1, lett. e) del D.L. n. 181/2007). L'assoluta genericità di tali motivi e la discrezionalità (ai limiti dell'arbitrio) insiti nella formula normativa si pongono in palese contrasto con la previsione dell'art. 13 comma 3 della Costituzione, che legittima l'adozione di provvedimenti provvisori, limitativi della libertà personale, da parte dell'autorità di pubblica sicurezza soltanto “in casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge”. Il principio costituzionale di tassatività, introdotto proprio in ragione della eccezionalità dell'attribuzione all'autorità di pubblica sicurezza di siffatti poteri, impone certamente che le ipotesi legittimanti un simile eccezionale potere siano normativamente definite in maniera specifica, dettagliata, ed ancorata a parametri certi. Così è per esempio nelle ipotesi già regolate dal D. Lgs. n.286/1998 all'art. 13 comma 2, laddove l'esercizio in via provvisoria di poteri limitativi della libertà personale è vincolato alla ricorrenza di fattispecie precisamente determinate e oggettivamente verificabili.
2) - La rilevanza del comportamento del “familiare”. Fra i “motivi imperativi di pubblica sicurezza” che legittimano l'immediata esecuzione del provvedimento di allontanamento il decreto legge attribuisce rilevanza ai “comportamenti” tenuti dal “familiare” del soggetto destinatario del provvedimento (art. 20 comma 7 ter D.Lgs. n.30/2007 come modificato dall'art. 1, lett. e) del D.L. n.181/2007). Una simile previsione viola apertamente il principio di “personalità” legittimante ogni compressione del bene primario della libertà personale, talché non possono darsi limitazioni di essa in ragione di comportamenti tenuti da soggetti diversi dal destinatario del provvedimento di allontanamento.
3) - La mancanza di ogni vaglio giurisdizionale nelle ipotesi previste dai commi 8 e 9 dell'art. 20 del D.Lgs. n.30/2007. I commi 8 e 9 dell'art. 20 prevedono che qualora il destinatario di un provvedimento di allontanamento rientri nel territorio nazionale sia “nuovamente allontanato con provvedimento immediato”; quando il medesimo si trattenga nel territorio dello stato oltre il termine portato dalla intimazione, il questore disponga “l'esecuzione immediata del provvedimento di allontanamento dell'interessato dal territorio nazionale”. In entrambe le ipotesi l'immediata esecuzione del provvedimento di allontanamento, esercitabile tramite l'accompagnamento coattivo alla frontiera, non è presidiata da alcun controllo giurisdizionale. Si darà dunque l'ipotesi di soggetto che, colpito da un provvedimento di allontanamento con termine per adempiere (privo dunque di qualsivoglia garanzia di giurisdizionalità), venga poi nuovamente rintracciato sul territorio nazionale e dunque accompagnato coattivamente alla frontiera, senza che, neppure in questo caso, sia attivato un controllo giurisdizionale. Sul punto è noto l'orientamento della Corte Costituzionale, la quale, pronunciatasi più volte (fra le tante si vedano Corte Cost. n. 151 del 2001 e n. 222 del 2004) in materia di legittimità costituzionale del D. Lgs. 286/1998, ha ritenuto che il provvedimento di accompagnamento alla frontiera investa la libertà personale e pertanto richieda la piena operatività del controllo giurisdizionale previsto dall'art. 13 Cost. In conseguenza di tali pronunce lo stesso legislatore è intervenuto sul testo sopra citato, modificandolo nel senso di subordinare al pieno controllo giurisdizionale l'esecutività del provvedimento di accompagnamento. Consapevole di tale necessità la nuova normativa contempla, mediante il richiamo all'art. 13 comma 5 bis del D.Lgs, n.286/1998, il ricorso al procedimento di convalida ivi previsto, ma si limita a rendere operativa tale previsione nelle sole ipotesi previste dal comma 7 bis dell'art. 20. Le ipotesi di accompagnamento immediato previste dai commi 8 e 9 dell'art. 20 restano dunque prive di controllo giurisdizionale ed introducono pertanto in capo alla autorità di pubblica sicurezza un potere di compressione della libertà personale (l'accompagnamento alla frontiera) in aperta violazione del dettato dell'art. 13, comma 3, della Costituzione.
4. - La irragionevolezza della attribuzione della competenza al Giudice di Pace, contemplata dall'art. 20, comma 7 bis, come modificato dall'art. 1 lett. e) del D.L. 181/2007. Se è vero che il "giudice di pace" è "autorità giudiziaria" e dunque astrattamente soddisfa i requisiti previsti dal dettato costituzionale, non vi è dubbio che l'attribuzione a tale organo giudiziario dei poteri di convalida del provvedimento immediatamente limitativo della libertà personale sia scelta assolutamente "irragionevole" (come già lo era quella operata con l'art. 1 della Legge 12.11.2004 n.271, modificativa del D. Lgs. n.286/1998) alla luce delle finalità sottostanti l'istituzione del giudice di pace e l'attribuzione ad esso di competenza in materia penale, nonché dei limiti posti dalla normativa ai poteri sanzionatori esercitabili da tale organo di giustizia. Sotto il primo profilo non può sottacersi come il giudice di pace nasca come organo di composizione bonaria di conflitti fra privati e tale caratteristica conservi anche laddove ad esso sia consentito l'esercizio di poteri giurisdizionali in materia penale. Una simile funzione, che permea il ruolo di tale organo giudiziario (si consideri al riguardo non soltanto che dinanzi al Giudice di Pace il legislatore ha previsto come obbligatorio il tentativo di conciliazione, ma che tutti i delitti oggetto della competenza per materia del G.d.P. sono caratterizzati dalla procedibilità a querela), si connota di un carattere di assoluta eterogeneità rispetto a quella attribuita ad esso dal Decreto Legge, la quale si esplica nell'ambito di una categoria di controversie insorgenti tra la pubblica autorità nell'esercizio di funzioni pubblicistiche ed i privati, all'interno delle quali viene in rilievo la categoria potere pubblico-soggezione e le cui situazioni non sono nella disponibilità delle parti.
Ed irragionevole appare una simile attribuzione di competenza, destinata a legittimare l'immediato allontanamento dal territorio nazionale con il necessario conseguente esercizio di poteri di coercizione della persona, laddove si abbia a mente che al giudice di pace, nell'ambito della normativa che ne delinea le funzioni in materia penale, non è consentito infliggere sanzioni che comportino un immediato potere di coazione fisica sulla persona.
III : Le disposizioni di diritto penale
1. - L’'introduzione della fattispecie di “impiego di minori nell'accattonaggio” va decisamente censurata. Al riguardo, va rammentato che il reato (contravvenzionale) di mendicità era previsto dall'art. 670 c.p.: al primo comma si puniva la mendicità semplice; al secondo la mendicità c.d. molesta o invasiva. Mentre la prima fu cancellata dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 519/95, per la ragione che la condotta vietata, risolvendosi in una richiesta di aiuto, non esprimeva alcun contenuto di aggressione ad alcun bene giuridico, la seconda è stata abrogata con la legge 25 giugno 1999, n. 205. La nuova incriminazione, dunque, interviene in un ambito di assai dubbia legittimità sul piano costituzionale e di irragionevolezza politico-criminale. Ed invero, se l'accattonaggio non definisce un'area di meritevolezza penale - come ha statuito la Corte Costituzionale - non si vede come possa trovare piena giustificazione la punizione per il solo fatto che tale condotta venga realizzata avvalendosi di minori. Il contrario punto di vista dovrebbe far leva sulla enunciazione di un assunto palesemente irrazionale, e, dunque, contrario alla logica di funzionamento di un ordinamento giuridico: vale a dire quello secondo cui sarebbe legittimo punire una condotta - mezzo finalizzata al conseguimento di un risultato giuridicamente irrilevante. D'altra parte, va sottolineata la contrarietà della odierna incriminazione al principio solidaristico che permea i rapporti tra Stato ed individuo nel sistema dei valori costituzionali. Al riguardo, va tenuta in debita considerazione - ancora una volta sulla scia di quanto hanno affermato i giudici costituzionali nella decisione innanzi citata - che le condotte, di cui si vorrebbe reintrodurre la punibilità, sono pur sempre espressione di disagio e marginalità socio-economica, conseguentemente, uno Stato ispirato dalla logica solidaristica dovrebbe, rispetto ad esse, promuovere misure di aiuto e sostegno, anziché reagire con strumenti repressivi.
2. - Parimenti negativo è il giudizio riguardo a tutte le disposizioni che prevedono aumenti edittali di pena. Per un verso, va sottolineato che la revisione delle comminatorie edittali si limita ad accentuare la forbice tra il minimo ed il massimo della pena ampliando, così, la discrezionalità commisurativa del giudice. È facile prevedere che, in tal modo, si moltiplicheranno esclusivamente le disparità di trattamento, senza peraltro che si incrementi l'efficacia general-preventiva, nel suo aspetto di deterrenza poiché - in mancanza di una riforma complessiva della commisurazione della pena - la prassi si attesterà su risposte punitive di esiguo spessore. Va, ancora una volta, ribadito che un sistema penale di matrice liberal-democratica e, quindi, conforme alle direttive della extrema ratio e della proporzionalità, deve puntare -secondo la sempre attuale lezione di Beccaria - su pene miti, ma certe, e non su sanzioni draconiane ma di incerta applicazione. Peraltro, è il caso di evidenziare come, nella odierna cornice costituzionale, l'aspirazione alla certezza della pena va intesa nel senso della effettività delle finalità preventive (di natura positiva) da perseguire e non, invece, quale arcaica pretesa alla indefettibilità della esecuzione, così come vorrebbe una superata concezione retributiva.
3. - Irragionevole, è, poi, la previsione dell'art. 590 bis laddove, per i delitti di lesioni colpose ed omicidio colposo, commessi con violazione delle norme sulla circolazione stradale, si introduce una limitazione al giudizio di comparazione delle circostanze attenuanti con quelle aggravanti.
4. - Contrarietà va manifestata anche rispetto alla introduzione del delitto di adescamento di minorenni, per palese indeterminatezza dell’enunciato normativo. Si fa, invero, riferimento all’intrattenimento di una relazione tale da carpire la fiducia del minore. Si tratta di una struttura normativa che appare, oggettivamente, insuscettibile di tassativa applicazione; essa presenta più di un aspetto di analogia con fattispecie che la Corte Costituzionale ha cancellato dal nostro ordinamento, sul presupposto della loro "non provabilità processuale" (cfr sentenza n. 96/1981).
IV : Le disposizioni sul processo penale
Le disposizioni che prevedono interventi sul processo penale sono censurabili sia per la loro disorganicità, sia per l'impianto complessivo, che intacca la struttura accusatoria del processo (ampliando, ad esempio, le ipotesi di incidente probatorio). Le singole disposizioni, poi, specialmente quelle in tema di libertà personale, incidono pesantemente su principii e valori costituzionali. In particolare:
A) Quanto all'ampliamento della possibilità di applicare misure cautelari
1. E' inaccettabile l'ampliamento indiscriminato dei casi in cui si può procedere alla applicazione di misure cautelari (consentendone l'emissione, tra l'altro, anche in caso di pericolo di reiterazione di fatti non specifici o non connotati da uso di violenza), di fatto violando la regola generale secondo cui la applicazione delle stesse deve costituire un’ 'extrema ratio’;
2. La possibilità di considerare la personalità dell'individuo - ai fini della valutazione del parametro della concretezza e attualità della pericolosità sociale in sede cautelare - anche sulla base di semplici "precedenti giudiziari" aprirà la strada all'arbitrio e alla utilizzazione di informazioni di polizia incomplete o parziali, ovvero fondate su semplici sospetti o annotazioni sommarie;
3. La disposizione che consente, sia pure solo in alcuni casi (in particolare per i recidivi specifici infraquinquennali), di applicare la misura cautelare all'esito della sentenza di primo grado o di appello valutando anche la sussistenza di "elementi sopravvenuti" (tra i quali potrà rientrare la stessa sentenza non irrevocabile) implica, di fatto, un automatismo nella valutazione de libertate che non può considerarsi accettabile e che fa trapelare una chiara sfiducia nella magistratura, cui sottrae facoltà discrezionali.
Tale disposizione si pone inoltre in contrasto con il principio della presunzione d'innocenza ed è connotata dall'evidente finalità politica di compiere surrettiziamente un primo passo in direzione del principio della immediata esecutività delle sentenze di primo grado, notoriamente propugnato da ambienti ministeriali che rappresentano le posizioni della magistratura associata;
4. L'ampliamento sostanzialmente indiscriminato (previsto nel nuovo testo dell'art. 275 c.p.p.) delle ipotesi di obbligatorietà della custodia in carcere, ponendo a carico dell'interessato la prova "diabolica" dell'insussistenza di esigenze cautelari quale sola possibilità di evitare l'applicazione della misura inframuraria, rappresenta un preoccupante ritorno ad ipotesi di "cattura obbligatoria" di cui al vecchio codice di ispirazione autoritaria. Ipotesi tanto più inaccettabili in quanto non consentono una valutazione discrezionale del giudice sulle esigenze cautelari caso per caso.La disposizione in parola incide sulla presunzione di non colpevolezza ed inoltre, in virtù dell'ampio ventaglio d'ipotesi criminose per cui è prevista la obbligatorietà della custodia in carcere (che prevedono pene diverse e variegate) la norma contrasta anche con il principio d'uguaglianza, assimilando ingiustificatamente ipotesi delittuose che prevedono sanzioni estremamente diversificate sotto il profilo quantitativo;
B) Quanto all'accoglimento dell'appello del pubblico ministero in sede di appello de libertate ed alla sua immediata esecutività:
1. L'abrogazione dell' art. 310, co. 3 c.p.p., diretta a determinare la immediata esecutività dell'eventuale accoglimento dell'appello del pubblico ministero da parte del Tribunale del riesame contrasta con finalità costituzionalmente rilevanti, ed in particolare con il principio del favor libertatis, come riconosciuto dalla Corte Costituzionale. In una sua decisione (ord. 20 luglio 1994, n. 324) la Corte, ritenendo legittimo proprio il vigente testo dell'art. 310 co. 3 c.p., ha rimarcato la rilevanza costituzionale della sospensione della decisione di accoglimento dell'appello del pubblico ministero sino alla decisione definitiva.
C) Quanto all'ampliamento dei casi in cui potrebbe procedersi ad incidente probatorio:
1. L'ampliamento in parola (nei processi a carico dei cosiddetti soggetti deboli, anche maggiorenni) contrasta con plurime decisioni della Corte Costituzionale che hanno escluso la incostituzionalità delle disposizioni che limitano ai reati sessuali ed ai minorenni l'incidente probatorio dichiarativo (Corte Cost., 18 dicembre 2002, n. 529);
La stessa Corte (9 maggio 2001, n. 114) ha anche chiarito come, per reati diversi da quelli "sessuali" esistano istituti diversi dall'incidente probatorio diretti ad assicurare la tutela del testimone e la genuinità della prova (art. 472 comma 4 c.p.p., il quale consente al giudice di procedere a porte chiuse; l'art. 498 comma 4 c.p.p., il quale impedisce alle parti di condurre direttamente l'esame incrociato del minore; l'art. 498 comma 4 bis c.p.p. introdotto dall'art. 13 comma 6 l. n. 269 del 1998);
2. Va ricordato che l'ampliamento dell'incidente probatorio altera il sistema accusatorio, trasformando il G.I.P. in una figura assimilabile al vecchio giudice istruttore e derogando inaccettabilmente alla assunzione della prova in dibattimento. In tal modo si determina una minorata difesa delle parti, poiché le indagini preliminari, nel momento della celebrazione dell'incidente probatorio, possono non essere complete (o integralmente note alle parti).
D) Quanto all'ampliamento di casi per procedere a giudizio immediato:
1. L'ampliamento dei casi di giudizio immediato per gli indagati in stato di custodia cautelare la cui misura cautelare sia stata confermata in sede di riesame o che non abbiano attivato la relativa procedura ex art. 309 c.p.p., sacrifica anzitutto il filtro dell'udienza preliminare, che è configurata da numerose sentenze di legittimità come una garanzia per l'indagato. Sembra chiara l'intenzione dei proponenti la modifica di celebrare processi sbrigativi e sommari;
2. Le disposizioni in questione contrastano inoltre con la giurisprudenza della Corte di Cassazione, che richiede l'evidenza della prova per procedersi legittimamente a giudizio immediato.
In proposito, è inaccettabile che la decisione sfavorevole in sede di riesame sia assimilata alla "prova evidente" (posto tra l'altro che, dopo la stessa, all'interno dei 180 giorni che renderebbero possibile richiedere il giudizio immediato, potrebbe verificarsi un'attenuazione del quadro indiziario sulla base di successive indagini).
Sconcertante, poi, che sia assimilata alla evidenza probatoria la non proposizione della richiesta di riesame, quasi configurando il mancato esercizio di tale facoltà come un comportamento ammissivo che consente, appunto, di non celebrare l'udienza preliminare e di procedersi a giudizio immediato.
E) Quanto alla abolizione del patteggiamento in appello:
1. Anche tale disposizione riflette esigenze demagogiche degli ideatori del "pacchetto sicurezza", sopprimendo uno di quegli istituti che consentivano una deflazione processuale e, nel contempo, la definizione più rapida del procedimento con la irrogazione di una sanzione certa e comunque "controllata" dall'accusa e dal giudice.
L'esigenza di "velocizzare" il processo qui viene meno, denunziando il vero intento del disegno di legge, che è quello di fungere da specchietto per le allodole nei confronti della pubblica opinione.
F) Quanto alla sospensione della esecuzione della pena irrogata:
1. Non è accettabile l'esigenza di esemplarità sottesa alla disposizione (diretta a modificare l'art. 656 co. 9 c.p.p.), che trascura la possibilità che vi siano casi in cui l'esecutività della sentenza meriti l'attesa di una preventiva decisione della magistratura di sorveglianza, manifestando in tal modo, tra l'altro, una palese sfiducia nei giudici;
2. Questa ed altre disposizioni del pacchetto sicurezza traggono una qualche apparente legittimazione dalla lunghezza sproporzionata dei tempi del giudizio e, in questo caso, del procedimento di sorveglianza (è noto che la magistratura di sorveglianza si pronunzia a volte due o tre anni dopo il passaggio in giudicato delle sentenze di condanna).
Invece di operare in termini seri (stanziamenti economici; strutture; numero dei magistrati) per consentire che la valutazione del giudice di sorveglianza avvenga in tempi rapidi dopo la astratta eseguibilità della sanzione (e risolvere dunque in tal modo il problema "di sicurezza" e della certezza della pena), si dà in definitiva per scontato che il condannato resterebbe libero per anni dopo il passaggio in giudicato della sentenza. Sicché si prevede sic et simpliciter l'automatica esecuzione della sanzione, magari verso individui che hanno commesso reati anni e anni prima -visti i tempi del nostro processo- e che soggettivamente potrebbero essere recuperati in ossequio al disposto dell'art. 27 Cost.
3. Non va dimenticato, infine, che il tasso di recidiva è tra i più bassi per i soggetti ammessi ai benefici della legge penitenziaria: ulteriore ragione per avere perplessità verso disposizioni quali quella che si vorrebbe introdurre.
V : Le disposizioni sulla criminalità organizzata
La legge delega per l’emanazione di un testo unico delle disposizioni in materia di misure di prevenzione, seppure ispirata da condivisibili propositi iniziali, quali sono quelli di dare "una sistemazione organica alla materia", frutto di una stratificazione di norme elaborate nel corso degli ultimi 50 anni, e di prevedere anche per le misure di prevenzione, analogamente a quanto avviene per gli illeciti penali, che venga affermato il principio di legalità, sembra tuttavia improntata a principi di forte stampo autoritario che ledono fortemente le primarie garanzie di natura processuale e costituzionale.
Per la prima volta si è introdotto il concetto di "pericolosità del bene" in ragione del suo vincolo di strumentalità con l'azione criminale, cosicché si potrà sequestrare un bene ritenuto frutto di attività illecita anche quando lo stesso non sia più nella disponibilità del soggetto “pericoloso”.
Si prevede, quindi, la possibilità di irrogare disgiuntamente le misure di prevenzione patrimoniale, disancorandole da soggetti dediti alla commissione di reati e basando tali misure su sbiaditi elementi di fatto.
Tale situazione, però, rischia di creare non pochi problemi allorquando il bene, reimmesso nel circuito economico, sia divenuto di proprietà di chi lo ha acquistato, magari dopo diversi passaggi, in perfetta buona fede e senza il più pallido indizio circa la sua provenienza delittuosa.
Una maggiore tutela del diritto di proprietà e del terzo acquirente in buona fede andrebbe senz'altro garantita, specie quando il bene non è stato destinato ad alcuna attività pericolosa per la collettività.
Altre disposizioni che lasciano più che perplessi e che, anzi, appaiono addirittura inquietanti, sono quelle concernenti la c.d. "denuncia di assoggettamento" che diventa una vera e propria imposizione e coartazione della volontà, ove si consideri che, allorquando essa non interviene da parte dell'imprenditore, in tutti quei casi in cui si ritiene che costui abbia subito un sopruso e sia vittima di reati da parte della delinquenza organizzata, scatterà il sequestro e la confisca di prevenzione della sua azienda "salvo che i titolari d'impresa non collaborino concretamente con l'autorità di polizia o l'autorità giudiziaria".
Si tratta di un vero e proprio ricatto operato dallo Stato nei confronti dell'imprenditore che si troverà spogliato dei suoi beni ove non decida di collaborare con la giustizia.
Ancora, estremamente penalizzante è la previsione della "obbligatorietà delle investigazioni patrimoniali e dell'esercizio dell'azione di prevenzione" "dopo l'esercizio dell'azione penale".
Molto più adeguato ed opportuno sarebbe far scattare l'azione di prevenzione soltanto dopo che sia intervenuto almeno il rinvio a giudizio da parte del GUP in modo che si operi un controllo giurisdizionale circa la fondatezza dell'azione penale.
Inefficace appare, inoltre, la tutela riservata ai terzi creditori che interviene soltanto all'esito della eventuale applicazione della misura stessa anziché prima dell'applicazione.
Inaccettabili infine le disposizioni che limitano per taluni reati o soggetti l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, che ledono il diritto di difesa per taluni imputati.
VI : Le disposizioni sulla Banca dati del DNA
1. - Uno dei disegni di legge del c.d. pacchetto sicurezza ha per oggetto l’adesione al Trattato di Prum (un accordo di cooperazione per contrastare terrorismo, criminalità e migrazione illegale concluso il 27.5.2005 tra sette paesi dell'Unione europea) e l'istituzione della banca dati del DNA. Attesa l’appartenenza dell'Italia all'Unione europea e l'ampio dibattito che sul punto si è sviluppato in questi anni, l'istituzione della banca dati del DNA è argomento sul quale non è storicamente sostenibile una posizione pregiudizialmente contraria. La complessità delle problematiche collegate a detta istituzione impone tuttavia di valutare con particolare cautela le soluzioni che legislativamente vengono avanzate. Per questa ragione l’UCPI nel proporre alcune prime osservazioni sul merito non può che manifestare sostanziali perplessità su alcune scelte di fondo che attengono al come è prevista l'effettuazione del prelievo, a chi vi deve essere sottoposto, e a coloro che potranno accedere alla consultazione dei dati raccolti.
2. - L'art. 9 comma 4 prevede che i soggetti individuati dalla stesso articolo siano ‘sottoposti a prelievo di campioni di mucosa del cavo orale’. Tale modalità è passibile di alcune osservazioni critiche. Anzitutto il prelievo, per poter essere effettuato, impone di aprire la bocca e la conseguente introduzione di strumento idoneo all'operazione (tampone boccale) e, in caso di rifiuto, l'operazione coattiva non potrà che essere connotata da uso di violenza e in violazione della dignità della persona (il prelievo con puntura digitale di comune uso sanitario è certamente meno invasivo). Inoltre, l'assenza di specificazione delle misure adottabili per ottenere il prelievo in caso di rifiuto è anch'essa in contrasto con l'articolo 13 della Costituzione ed è già stata oggetto di censura nella sentenza della Corte Costituzionale 9 luglio 1996 n.238.
L'art. 9 prevede che il prelievo possa essere effettuato solo per delitti non colposi per i quali è consentito l'arresto facoltativo in flagranza: questa regola presenta però eccezioni (ad esempio l'esclusione dei reati commessi da pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione) che risultano difficilmente intelleggibili.
Del tutto ingiustificato pare l'assoggettamento al prelievo di tutte le persone sottoposte a misura cautelare, tenuto conto che, come spesso accade, potrebbero essere scarcerate dopo pochi giorni per insussistenza della gravità degli indizi, mentre evidente è il rischio di un utilizzo ancor più spregiudicato di quello attuale delle misure privative della libertà personale al fine di ottenere le condizioni di diritto per eseguire i prelievi.
3. - Sulla stessa pericolosa impostazione si inserisce l'art. 13, che prevede la cancellazione dei dati e la distruzione dei campioni biologici dopo l'assoluzione con sentenza definitiva con la sola formula perchè il fatto non sussiste. Lo stesso articolo prevede che in tutti gli altri casi il profilo del DNA resti inserito nella banca dati nazionale per 40 anni e la conservazione del campione biologico per 20 anni.
Nella relazione illustrativa in ordine al tempo di conservazione si legge: ‘è evidente che il funzionamento della banca dati del DNA è legato al fenomeno della recidiva: le possibilità che il profilo del DNA di un soggetto arrestato per i reati previsti dalla presente legge sia riconosciuto corrispondente alle tracce di un altro reato aumentano in proporzione alla ampiezza del lasso temporale in cui tale confronto è possibile; al di sotto di un limite minimo la banca dati nazionale del DNA potrebbe risultare inutile (tenendo conto di un primo periodo in cui il soggetto rimane detenuto)’. Si è ritenuto di riportare in modo testuale il contenuto della relazione sul punto perché sintetizza una summa di ragionamenti inconferenti: non si comprende invero come possa rilevare il fenomeno della recidiva per soggetti assolti con formula diversa dal fatto non sussiste. Pare pertanto di poter ricavare, in assenza di spiegazioni adeguate, una preoccupante volontà di estendere i casi non solo del prelievo ma anche della conservazione, con il rischio - neppure tanto remoto - di schedature generali che non possono e non devono trovare giustificazioni nella generica necessità di una più efficace persecuzione dei reati.
4. – L’art. 12 disciplina il trattamento dei dati e l’accesso alla banca dati. La previsione dell’accesso è argomento di fondamentale interesse anche per i difensori. A tal proposito la norma prevede che l’accesso sia consentito alla polizia giudiziaria e all’autorità giudiziaria, ma nulla è detto con riferimento ai difensori.
Secondo l’UCPI la materia necessita di una previsione specifica. E’ evidente che gli avvocati difensori devono poter accedere alla banca nell’ambito delle investigazioni difensive e non è possibile accontentarsi del cenno riservato dalla relazione in cui si legge “le richieste potranno pervenire soltanto dalle forze di polizia, dall’autorità giudiziaria, nonché, nei limiti della legislazione, dai difensori nel quadro delle investigazioni difensive”. Non può essere ritenuto casuale che solo quest’ultima parte non sia stata trasfusa nella norma ma venga richiamata solo nella relazione.
Da questi primi spunti risulta evidente che debbano essere apportate significative modifiche per rendere la proposta accettabile e conforme al nostro dettato costituzionale.
Roma, 19 novembre 2007
La Giunta dell’Unione Camere Penali