La rassegna di dottrina e giurisprudenza del Corso nazionale di formazione specialistica dell'avvocato penalista organizzato dall'Unione delle Camere penali italiane in collaborazione con il Centro per la formazione e l'aggiornamento professionale degli avvocati del Consiglio Nazionale Forense.

7 dicembre 2007

Sezioni Unite, sentenza n.45583: Pena -limite al cumulo materiale- riduzione per il giudizio abbreviato - ordine di applicazione.

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SENTENZA N. 45583 UD. 25/10/2007 - DEPOSITO DEL 06/12/2007

PENA – CONCORSO DI REATI E DI PENE – LIMITE AL CUMULO MATERIALE – RIDUZIONE PER IL GIUDIZIO ABBREVIATO – ORDINE DI APPLICAZIONE

La riduzione di pena per il giudizio abbreviato deve essere effettuata dal giudice dopo che la pena è stata determinata in osservanza delle norme sul concorso di reati e di pena stabilite dagli artt. 71 ss c.p., fra le quali vi è anche la disposizione dell’art. 78, limitativa del cumulo materiale, per cui la pena della reclusione, in tal caso, non può essere superiore ad anni trenta.

Testo Completo:
Sentenza n. 45583 del 25 ottobre 2007 - depositata il 6 dicembre 2007
(Sezioni Unite Penali, Presidente M. Battisti, Relatore G. Canzio)

RITENUTO IN FATTO

1. – Con sentenza del 22/2/2005 il G.u.p. del Tribunale di Busto Arsizio dichiarava Andrea Volpe e Pietro Guerrieri responsabili, in concorso tra loro e con altri imputati giudicati separatamente, dei reati di omicidio in danno di Fabio Tollis e Chiara Marino e porto illegale di arma da taglio e oggetti atti ad offendere (capo I), duplice tentativo di omicidio in danno del Tollis e della Marino e illegale detenzione di eroina (capi M-N), nonché il Volpe dei reati di omicidio in danno di Mariangela Pezzotta, occultamento di cadavere, detenzione e porto illegali di armi comuni da sparo e munizioni, frode processuale (capi A-B-C-D), furto in abitazione (capo E), rapina e armi (capo G), danneggiamento (capo H), istigazione al suicidio di Andrea Bontade (capo P): reati commessi, tutti, nel contesto delle attività criminose della setta denominata “Bestie di Satana”. Il G.u.p. condannava quindi: - il Volpe alla pena di anni 30 di reclusione, con le attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti e la continuazione tra i distinti gruppi di reati di cui ai capi A-B-C-D, ai capi E-G e ai capi I-M-N-P, con determinazione delle pene, in relazione a ciascun gruppo e previa riduzione di un terzo per il rito abbreviato, in anni 16 di reclusione (capi A-B-C-D), anni 2 e mesi 4 di reclusione (capi E-G), mesi 4 di reclusione (capo H), anni 20 di reclusione (capi I-M-N-P), con finale contenimento della pena nella misura indicata dall’art. 78 c.p.; - il Guerrieri alla pena di anni 16 di reclusione, con le attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti e la continuazione tra i reati sub I-M-N, applicata la diminuente del rito. Più precisamente, per quanto attiene alla determinazione della pena, il primo giudice, per il Volpe, operava il cumulo materiale delle pene, prima quantificate all’interno di autonome sequele di continuazione, e perveniva alla pena di anni 38 e mesi 8 di reclusione, già computata la diminuente del rito, applicando poi l’art. 78 c.p. e giungendo alla pena finale di anni 30 di reclusione; mentre, per il Guerrieri, determinava la pena per il reato più grave in anni 21 di reclusione, aumentata di anni 3 per la continuazione, e sulla pena di anni 24 applicava la riduzione di un terzo per il rito, irrogando così la pena finale di anni 16 di reclusione.
2. – La Corte d’assise d’appello di Milano, con sentenza del 16/6/2006, in parziale riforma della decisione impugnata: - relativamente al Volpe, assolveva l’imputato dal delitto di frode processuale (capo D) siccome persona non punibile ai sensi dell’art. 384 c.p., riqualificava come tentativo di lesioni il tentato omicidio in danno del Tollis e della Marino contestato al capo M, estendeva la continuazione tra l’omicidio Pezzotta e i reati di cui ai capi A-B-C anche al furto in abitazione e alla rapina di cui ai capi E-G, fissando la pena per tali reati in anni 25 e mesi 10 di reclusione, rideterminava in anni 28 di reclusione la pena per il duplice omicidio Tollis e Marino e per i reati di lesioni tentate in danno dei medesimi, di tentato omicidio in danno della Marino e di istigazione al suicidio del Bontade (capi I-M-N-P), quindi, stabilita la pena complessiva di anni 54 e mesi 4 di reclusione e limitata la stessa ai sensi dell’art. 78 c.p. ad anni 30, la riduceva ulteriormente, per effetto del rito abbreviato, ad anni 20, così sovvertendo l’ordine applicativo seguito dal primo giudice; - relativamente al Guerrieri, rigettata la richiesta di nuova perizia psichiatrica, riqualificato nei sensi anzidetti il tentativo di omicidio in danno di Tollis e Marino (capo M) e dichiarate le attenuanti generiche prevalenti sulle aggravanti, riduceva la pena ad anni 12 e mesi 8 di reclusione; - confermava, nel resto, la sentenza appellata.
3. – Hanno proposto ricorso per cassazione il P.G. presso la Corte d’appello di Milano e il difensore del Guerrieri.
3.1. - Il P.G. ha denunziato, ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. b) ed e) c.p.p., inosservanza o erronea applicazione della legge penale, mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, deducendo:
- che la Corte territoriale aveva omesso di motivare sulla sussistenza, in concreto, degli elementi costitutivi della frode processuale, prima ancora di riconoscere la causa di giustificazione ex art. 384 c.p., che peraltro non può essere accordata quando la situazione di pericolo sia stata volontariamente cagionata dall’autore del reato: il che era avvenuto nel caso di specie, perché il Volpe agì per assicurarsi l’impunità dell’omicidio Pezzotta;
- che le contravvenzioni ex artt. 699 c.p. e 4 L. n. 110/75 (capo I) erano estinte per prescrizione, risalendo al 17/1/1998 l’epoca della loro commissione;
- che, quanto alla riqualificazione in termini di tentate lesioni dell’originaria imputazione di omicidio tentato (capo M), l’incendio dell’autovettura era idoneo ad attentare all’incolumità dei due giovani ed a cagionarne la morte, obiettivo questo perseguito dagli imputati;
- che, circa il criterio di determinazione della pena per il Volpe, la Corte territoriale avrebbe dovuto procedere prima alla diminuzione ex art. 442 c.p.p. di un terzo della pena per i delitti come ritenuti in continuazione, quindi alla sommatoria delle pene e, infine, praticarne il contenimento ai termini dell’art. 78 c.p., non rivestendo tale norma natura “sostanziale”, siccome mero criterio moderatore del cumulo materiale, e provvedendosi in fase di esecuzione a siffatta operazione di contenimento per ultimo, sicché l’opposta interpretazione comporterebbe un’irragionevole disparità di trattamento sanzionatorio, oltre a tradurre la scelta del rito “in una patente di quasi totale impunità e in un incentivo a delinquere”;
- che, in ordine alla ritenuta prevalenza delle attenuanti generiche per il Guerrieri, sembrava inadeguatamente motivato il criterio enunciato dalla Corte territoriale di differenziare maggiormente la posizione di tale imputato rispetto al Volpe, al quale era stata inflitta una pena definita dalla stessa Corte troppo mite.
3.2. – Il difensore del Guerrieri ha denunciato, ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. b), d) ed e) c.p.p., inosservanza o erronea applicazione della legge penale, mancata assunzione di prova decisiva e manifesta illogicità della motivazione, sviluppando una serie di motivi in punto di: vizio parziale di mente dell’imputato, affetto da disturbo della personalità e destabilizzato dall’interazione col gruppo satanico, sotto il profilo della denegata rinnovazione dell’istruzione mediante perizia psichiatrica collegiale; affermazione di colpevolezza sia per l’omicidio che per il tentato omicidio, in quanto l’imputato non aveva partecipato alla materiale esecuzione, né procurato le armi, né cooperato all’occultamento dei cadaveri, né istigato i correi, né agevolato l’esecuzione dei delitti; insussistenza della premeditazione e delle altre aggravanti; insussistenza del fatto lesivo di cui al capo M per inidoneità della condotta e comunque erronea qualificazione giuridica della stessa come lesioni tentate anziché incendio; riconoscimento, in relazione alla detenzione di sostanza stupefacente (capo N), della diminuente del fatto di lieve entità ex art. 73, comma 5 d.P.R. n. 309/90; eccessivo contenimento della diminuzione operata per le attenuanti generiche ed eccessivo aumento per la continuazione; incongruità del trattamento sanzionatorio, con riguardo alla condotta processuale, all’incensuratezza, alla succubanza rispetto al gruppo satanico, all’impegno risarcitorio e alla sperequazione rispetto al Volpe; prescrizione delle contravvenzioni di cui al capo I.
4. – Il difensore del Volpe, a sua volta, nel replicare al motivo di ricorso del P.G. concernente i rapporti fra diminuente del rito e criterio moderatore di cui all’art. 78 c.p., ha osservato che la tesi sostenuta dal P.G. darebbe luogo ad un’ingiustificata disparità di trattamento, vanificando l’effetto premiale ed equiparando, nel caso di reati le cui pene in cumulo materiale siano superiori a trent’anni di reclusione, la posizione dell’imputato giudicato col rito ordinario a quella dell’imputato giudicato col rito speciale, ed ha inoltre rilevato che nessuna comparazione può farsi con la fase esecutiva, dal momento che, nei casi di concorso di reati e di pene, in detta fase vi sono più pene mentre in sede di cognizione ve n’è una sola, e l’art. 442, comma 2 c.p.p. parla di riduzione della pena e non già delle pene.
5. - La Prima Sezione penale, con ordinanza del 30/3 – 25/6/2007, afferma di non condividere il costante indirizzo interpretativo, secondo cui la riduzione di pena per il giudizio abbreviato dev’essere eseguita dopo che la pena sia stata determinata secondo i criteri stabiliti dalle norme sostanziali, tra le quali vi è la disposizione dell’art. 78 c.p., sul duplice rilievo che il limite assoluto di anni trenta non è assimilabile alle norme che presiedono la dosimetria della pena, prescindendo da qualsiasi riferimento alle componenti materiali e soggettive del reato, e che nella fase dell’esecuzione l’applicazione del medesimo criterio segue necessariamente la riduzione di pena ex art. 442 c.p.p., sicché non sembra ipotizzabile una differente soluzione per il giudizio di cognizione.
La concreta possibilità dell’insorgere di un contrasto di giurisprudenza nei termini illustrati ha pertanto indotto il Collegio, ai sensi dell’articolo 618 c.p.p., a rimettere il ricorso alle Sezioni Unite cui è stato assegnato dal Primo Presidente per l’odierna udienza pubblica.
CONSIDERATO IN DIRITTO

6. - Osserva innanzi tutto il Collegio che risultano privi di pregio i profili, meramente fattuali e sprovvisti del requisito di adeguata specificità delle ragioni di diritto, delle censure svolte dalla difesa del Guerrieri circa il negato riconoscimento del vizio parziale di mente, il positivo apprezzamento delle prove di responsabilità e l’entità del trattamento sanzionatorio, nonché delle critiche mosse dal ricorrente P.G. alla riqualificazione in termini di tentate lesioni dell’originaria imputazione di omicidio tentato di cui al capo M, nonché al giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche elargite al Guerrieri. La Corte d’assise d’appello, nel condividere sostanzialmente il ragionamento probatorio del giudice di primo grado, ha rigettato la richiesta di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale per l’espletamento di perizia psichiatrica, rilevando con congrua motivazione che la perizia era stata già effettuata in sede di incidente probatorio da un collegio di periti, i quali avevano escluso la sussistenza del vizio parziale di mente; ha ritenuto che il Guerrieri avesse dato un notevole contributo alla commissione del duplice omicidio Tollis e Marino, scavando, alcuni giorni prima dell’agguato, la fossa destinata ad accoglierne i corpi, così rafforzando il proposito criminoso dei correi; in ordine al tentativo di omicidio di cui al capo M, pur considerando provato che il Guerrieri avesse inserito il petardo nel serbatoio della benzina dell’autovettura, al cui interno si trovavano il Tollis e la Marino, ha sostenuto, sulla plausibile premessa in fatto che il serbatoio non sarebbe potuto esplodere per deflagrazione della benzina, che l’azione era solo in grado di cagionare un incendio di modestissime proporzioni dell’autovettura, con conseguente rischio di lesioni e non di offesa alla vita delle vittime; ha rilevato che le dichiarazioni accusatorie del Volpe e del Magni costituissero prove sufficienti del coinvolgimento del Guerrieri nell’ulteriore tentativo di omicidio della Marino mediante la somministrazione di un’overdose di eroina; ha ritenuto la sussistenza delle aggravanti del numero delle persone, dell’essersi avvalso di minori (i coimputati Maccione e Magni), della premeditazione, essendo stati i delitti omicidiari deliberati ben prima della loro commissione, dei motivi abietti e futili, costituiti dal fatto che le due vittime ostacolavano i riti della setta satanica, e di aver agito con crudeltà per le modalità raccapriccianti del duplice omicidio.
La Corte territoriale ha, pertanto, efficacemente evidenziato, con puntuale e adeguato apparato argomentativo, le ragioni del giudizio positivo di colpevolezza dell’imputato in ordine ai delitti contestati e della diversa qualificazione giuridica del tentativo di omicidio di cui al capo M, enunciando analiticamente le fonti probatorie, gli elementi e le circostanze rilevanti a tal fine ed apprezzandone, senza contraddizioni o salti logici, la significativa convergenza: motivazione, questa, coerente con la ricostruzione fattuale degli episodi criminosi e non sindacabile in sede di controllo di legittimità sul discorso giustificativo della decisione, soprattutto quando i ricorrenti, come nella specie, non criticano la violazione di specifiche regole inferenziali preposte alla formazione del convincimento del giudice, ma si limitano in realtà a sollecitare un non consentito riesame del merito delle vicende criminose attraverso la rilettura del materiale probatorio.
Quanto, infine, alle contrapposte doglianze dei ricorrenti riguardanti l’adeguatezza della pena inflitta al Guerrieri, appare corretto e insindacabile in sede di legittimità l’argomentato giudizio della Corte territoriale che, pur negando l’attenuante della minima importanza del contributo concorsuale dell’imputato e, relativamente all’episodio dell’acquisto di eroina da iniettare alla Marino, quella della lieve entità del fatto, ha motivatamente ritenuto prevalenti, tuttavia, le attenuanti generiche in considerazione della fragile personalità del Guerrieri, dell’impegno risarcitorio, della collaborazione processuale e dell’opportunità di differenziarne il trattamento sanzionatorio rispetto a quello del Volpe.
Di talché, le censure dei ricorrenti circa pretese violazioni di legge e carenze motivazionali della sentenza impugnata, relativamente ai punti suindicati, risultano infondate.
Deve invece darsi atto dell’erronea conferma da parte dei giudici d’appello della condanna per le contravvenzioni ex artt. 699 c.p. e 4 L. n. 110/75, contestate agli imputati unitamente all’omicidio Tollis e Marino (capo I), che erano estinte per prescrizione, risalendo al 17/1/1998 l’epoca della loro commissione. Sicché la sentenza impugnata, limitatamente a questo capo d’imputazione, va annullata senza rinvio, eliminandosi la relativa pena di giorni dieci di reclusione (giorni 15 meno un terzo per la diminuente del rito) solo per il Guerrieri, attesa l’irrilevanza di un’analoga statuizione riduttiva (giorni venti di reclusione: giorni 30 meno un terzo per la diminuente del rito) sulla complessiva misura della pena detentiva inflitta al Volpe in applicazione del criterio moderatore stabilito dall’art. 78 c.p..
7. - Merita, a questo punto, di essere preso in considerazione il primo motivo di ricorso con il quale il P.G. deduce che la Corte territoriale ha omesso di motivare in ordine alla sussistenza, in concreto, degli elementi costitutivi della fattispecie di frode processuale di cui al capo D, prima ancora di riconoscere al Volpe la causa di giustificazione ex art. 384 c.p., che peraltro non può essere accordata quando la situazione di pericolo sia stata volontariamente cagionata dall’autore del reato: il che era avvenuto nel caso in esame, perché il Volpe agì per procurasi l’impunità del più grave delitto di omicidio in danno della Pezzotta.
Secondo l’impostazione accusatoria, accolta dal giudice di primo grado, il reato previsto dagli artt. 374, comma 2 e 61 n. 2 c.p. si sarebbe sostanziato in due condotte, poste in essere dal Volpe subito dopo l’uccisione della Pezzotta e al fine di garantirsi l’impunità di tale delitto: l’essersi adoperato per eliminare le tracce di sangue e l’avere portato il veicolo Fiat Uno e gli effetti personali della vittima in prossimità di un canale, nell’intento di gettarli nel canale e di simulare il suicidio o la volontaria scomparsa della Pezzotta (capo D).
La Corte d’assise d’appello, per contro, ha osservato che, avendo l’imputato commesso il fatto perché costretto dalla necessità di salvare sé medesimo da un grave e inevitabile nocumento nella libertà e nell’onore, “la non punibilità della condotta, in presenza della causa di giustificazione prevista dall’art. 384 c.p., rende superfluo soffermarsi ad esaminare se la condotta dell’imputato presenti, astrattamente, gli estremi del reato previsto dall’art. 374 c.p.” e, di conseguenza, ha assolto il Volpe “perché non punibile ai sensi dell’art. 384 c.p.”.
Sono ben note le profonde divergenze ermeneutiche, sia in dottrina che negli indirizzi giurisprudenziali, circa la valenza da attribuire, ai fini dell’applicabilità dell’esimente anche con specifico riguardo alla frode processuale, al requisito della non volontaria causazione della situazione di pericolo (per essere questa derivata, come nel caso in esame, dalla precedente commissione di un reato da parte dello stesso soggetto), contrapponendosi alla lettura della norma in chiave (soggettiva) di inesigibilità, e quindi alla configurazione dell’esimente come causa di esclusione della colpevolezza, l’interpretazione della stessa in termini oggettivi, quale ipotesi speciale dello stato di necessità, come tale riconducibile alla categoria delle cause di esclusione dell’antigiuridicità del fatto.
E però, la quaestio juris sottoposta allo scrutinio delle Sezioni Unite, pur articolata dal ricorrente P.G. secondo la prospettazione suindicata, deve ritenersi priva di rilevanza nel caso concreto.
Dalla lettura di entrambe le sentenze di merito e dell’atto di appello dell’imputato s’evince che lo stesso giorno dell’omicidio il Volpe venne fermato e, nel corso dell’immediata ispezione dei luoghi all’interno dello chalet ove il crimine era stato eseguito, furono immediatamente ritrovate sia l’arma del delitto, una pistola Smith & Wesson, che una carabina cal. 22 con i relativi munizionamenti, mentre della Fiat Uno, con a bordo gli indumenti personali della vittima, si riferisce soltanto, senza trarne alcuna significativa inferenza, che essa venne rinvenuta poco lontano, incidentata e posta trasversalmente su un ponte; la consulenza tecnica successivamente espletata dal R.I.S. di Parma accertava a sua volta che, quanto all’attività di ripulitura della scena del delitto emersa nell’ispezione, le tracce di sangue sul pavimento erano state eliminate “in maniera del tutto grossolana” con stracci, spazzoloni e detersivi, recanti visibili tracce di sostanze ematiche, e che a sparare era stato sicuramente il Volpe, alla luce delle particelle di polvere da sparo trovate sulle sue mani e sui suoi indumenti. La necessaria verifica ex actis dei presupposti fattuali – pure pretesa dall’appellante, ma ingiustificatamente pretermessa dalla Corte di merito – consente pertanto di affermare, con valutazione ex ante e in concreto, che difettano ictu oculi, nella specie, i requisiti individuati, da un lato, nella significativa rilevanza della condotta di artificiosa immutazione di luoghi e cose per la ricostruzione dei fatti e per la formazione del convincimento del giudice sul relativo thema probandum e, dall’altro, nell’obiettiva idoneità delle materiali, e tuttavia ictu oculi superficiali, alterazioni del contesto probatorio a trarre in inganno i destinatari delle stesse, cioè il giudice o il perito. Non si dubita che l’astratta fattispecie del reato - di pericolo e a dolo specifico - previsto dall’art. 374, comma 2 c.p. possa astrattamente configurarsi, anche in veste di tentativo, nelle condotte d’immutazione artificiosa di luoghi, cose e persone realizzate anteriormente al procedimento penale, perfino se attuate subito dopo la commissione del reato ed anteriormente all’attività di polizia giudiziaria in relazione agli eventuali e probabili atti di ispezione (cui sono peraltro assimilabili gli accertamenti e i rilievi urgenti della polizia giudiziaria ex art. 354 c.p.p., diretti ad assicurare e conservare le tracce e le prove del reato: Cass., Sez. III, 9/7/1996, Perrotti, rv. 206678), esperimento giudiziale e perizia. In linea di fatto, tuttavia, l’evidente difetto di potenzialità ingannatoria della condotta ne esclude in radice la concreta pericolosità per l’interesse protetto dalla norma incriminatrice, che è costituito dalla genuinità di taluni, specifici mezzi di prova, fonti del convincimento del giudice nel processo penale, in funzione della corretta formazione delle ragioni del decidere (Cass., Sez. III, 24/1/1979, Zarrelli, rv. 141368; Sez. VI, 24/5/1985, Sampò, rv. 170698; Sez. I, 24/10/1985, Franzé, rv. 171911; Sez. VI, 6/4/1988, Pispero, rv. 180874; Sez. VI, 6/11/1998, Scialpi, rv. 213432). D’altra parte, la grossolanità dei concitati e maldestri gesti di ripulitura delle tracce, siccome compiuti dagli autori dell’omicidio, senza apprezzabili soluzioni di continuità, nel medesimo contesto spazio-temporale dell’efferato delitto di sangue, ne svela, insieme con la sostanziale contiguità degli atti, il difetto della pur necessaria alterità, perché si possa attribuire autonomo rilievo alla descritta condotta e configurare il concorso materiale dei reati di omicidio e di frode processuale. A ben vedere, infatti, oggetto dell’attività d’indagine, che giusta l’astratta figura di reato potrebbe essere fuorviata dalla cancellazione delle tracce, è invece, in concreto, la ricostruzione dell’intero contesto della vicenda criminosa, che, anche secondo il senso comune e la diffusa esperienza giudiziale, abbraccia nella sua prospettiva storico-fenomenica anche quei gesti. Considerate le esigenze d’economia processuale sottese alla previsione di cui alla lettera l) dell’art. 620 c.p.p., la sentenza impugnata va pertanto annullata senza rinvio nei confronti del Volpe relativamente al reato di frode processuale, poiché dal medesimo testo delle decisioni di merito si desume l’impossibilità di rinvenire ed utilizzare ulteriori emergenze processuali e di pervenire altrimenti, neppure sulla base di una rinnovata valutazione dei fatti da parte del giudice di rinvio, a una conclusione diversa dall’assoluzione dell’imputato con l’ampia formula liberatoria “perché il fatto non sussiste”.
8. - Le Sezioni Unite sono chiamate a rispondere al quesito interpretativo “se la riduzione di pena per il giudizio abbreviato debba essere eseguita dal giudice dopo la determinazione della pena effettuata in applicazione della disciplina del cumulo materiale e, in particolare, della disposizione dell’art. 78 c.p., per la quale non può essere superato il limite di trent’anni”. Il Collegio rimettente afferma di non condividere il costante indirizzo interpretativo, secondo cui la riduzione della pena per il giudizio abbreviato, risolvendosi in un'operazione puramente aritmetica di natura processuale, logicamente e temporalmente dev’essere eseguita dopo la determinazione della pena effettuata secondo i criteri e nel rispetto delle norme sostanziali, tra le quali vi è la disposizione dell'art. 78 c.p. diretta a temperare il principio del cumulo materiale delle pene, per le seguenti ragioni:
- la disposizione che stabilisce il limite assoluto di anni trenta, fissato per il concorso delle pene principali, detentive e temporanee, irrogate per i delitti non è assimilabile, sotto alcun profilo, alle norme che presiedono la dosimetria della pena, prescindendo da qualsiasi riferimento materiale e soggettivo, che non sia il rilievo del dato meramente aritmetico che la somma delle pene a carico della medesima persona ecceda la misura di anni trenta;
- nella fase dell’esecuzione il giudice non può che prendere in considerazione, nell’osservanza del canone d’intangibilità del giudicato, la pena concretamente inflitta al condannato e, nel caso di condanna pronunciata in esito al giudizio abbreviato, la sanzione già ridotta di un terzo ex art. 442 c.p.p., cui segue l’applicazione del criterio moderatore dell’art. 78 c.p., sicché non sembra ipotizzabile una discriminata soluzione a seconda che il medesimo criterio trovi applicazione nel giudizio di cognizione piuttosto che in quello di esecuzione.
Le Sezioni Unite ritengono, per contro, di riaffermare la soluzione positiva, unanimemente offerta al quesito interpretativo dalla giurisprudenza di legittimità (Cass., Sez. I, 7/4/1994, Pusceddu, rv. 197840; Sez. V, 9/12/2003 n. 18368, Bajtrami, rv. 229229; Sez. I, 10/3/2004 n. 15027, Pasinelli, in Cass. pen., 2005, 2287), anche se necessitano di essere rivisitate e puntualizzate le ragioni di ordine logico-giuridico che la giustificano, alla stregua delle lucide osservazioni critiche dell’ordinanza di rimessione.
9. - Il giudizio abbreviato, nello schema delineato dal vigente regime di cui agli artt. 438 e ss. c.p.p., si configura come procedura semplificata a definizione anticipata nell’udienza preliminare, subordinata all’opzione negoziale “sul rito”, la cui scelta da parte dell’imputato risulta favorita da una serie di incentivi premiali quale, innanzi tutto, la diminuzione di un terzo della pena per il reato ritenuto in sentenza in caso di condanna: si realizza così una commistione assolutamente originale tra condotte processuali ed effetti indiretti, ma automatici, sul trattamento sanzionatorio dell’imputato in caso di condanna, ispirata al fine pratico di assicurare, nel sinallagma fra beneficio premiale e disincentivazione del dibattimento, una deflazione e una migliore efficienza del sistema processuale (C. cost., n. 277 e n. 284 del 1990).
Una diminuente di natura “processuale”, dunque, le cui caratteristiche (non attiene alla valutazione del fatto-reato ed alla personalità dell’imputato; non contribuisce a determinarne in termini di disvalore la quantità e gravità criminosa; consiste in un abbattimento fisso e predeterminato, connotato da automatismo senza alcuna discrezionalità valutativa da parte del giudice; é applicata dopo la delibazione delle circostanze del reato e della continuazione; si sottrae ontologicamente a qualsiasi apprezzamento di valenza ex art. 69 c.p.) si presentano tuttavia strettamente collegate con effetti di sicuro rilevo dal punto di vista “sostanziale”, risolvendosi comunque in un trattamento penale di favore (Cass., Sez. Un., 21/5/1991, Volpe; Sez. Un., 6/3/1992, P.G. in proc. Piccillo; Sez. Un., 27/10/2004 n. 44711, P.G. in proc. Wajib).
10. - Con riguardo alle concrete modalità di computo della riduzione della pena nel giudizio abbreviato, oltre alla generica previsione della direttiva n. 53 della l. delega n. 81 del 1987 <>, si rinvengono nel sistema codicistico taluni, specifici, riferimenti testuali.
Dispone l’art. 442, comma 2 c.p.p. che <> è diminuita di un terzo e, nella Relazione al Progetto preliminare del nuovo codice di rito (p. 106), si legge che “questa diminuzione va apportata sulla pena determinata in concreto dal giudice, nel senso che essa si applica dopo che sia stata effettuato il giudizio di comparazione tra le circostanze”.
Secondo l’art. 187 disp. att. c.p.p., ai fini dell’applicazione della disciplina del concorso formale e del reato continuato da parte del giudice dell’esecuzione, si considera violazione più grave quella per la quale è stata inflitta la pena più grave <>, e altrettanto univoche sono sul punto le Osservazioni del Governo al Progetto preliminare del d.lgs. 28 luglio 1989, n. 271 (in Documenti giustizia, 1990, fasc. 2-3, 179): “la prescrizione è stata ritenuta opportuna con specifico riferimento al giudizio abbreviato, dove la circostanza che la riduzione di un terzo dipende dalla scelta del rito e quindi da una scelta meramente processuale avrebbe potuto far argomentare che la pena in concreto era quella precedente rispetto a detta riduzione”.
Appare inoltre fortemente significativa la vicenda della disciplina dei delitti puniti con la pena dell’ergastolo. Ripristinata dall’art. 30, comma 1 lett. b), l. n. 479 del 1999 l’originaria previsione codicistica dell’art. 442, comma 2 secondo periodo (travolto per eccesso di delega da C. cost., n. 176/91), per cui, per i delitti puniti con la pena dell’ergastolo, <>, il legislatore ha ritenuto necessario, da un lato, chiarire con norma di natura interpretativa che l’espressione <> deve intendersi riferita all’ergastolo senza isolamento diurno e, dall’altro, laddove la pena sia ai sensi dell’art. 72 c.p. l’ergastolo con l’isolamento diurno, stabilire che <> (art. 7, commi 1 e 2, d.l. n. 341 del 2000, conv. in l. n. 4 del 2001). L’esplicita formulazione letterale della disposizione mostra la chiara voluntas legis di fare propria la soluzione interpretativa, per la quale “sarebbero da applicare dapprima le disposizioni sul concorso dei reati e solo successivamente, sulla pena così risultante, andrebbe operata la diminuzione per la scelta del rito” (v., in tal senso, la Relazione ministeriale, accompagnatoria del disegno di legge di conversione del d.l. n. 341 cit.).
Sempre muovendo da considerazioni conseguenti all’analisi del testo normativo, merita infine di essere sottolineato che la formula <>, impiegata nell’art. 442, comma 2 c.p.p., trova agevole riferimento, in caso di pluralità di reati, nel secondo comma del successivo art. 533 (pure richiamato dall’art. 442, comma 1), il quale testualmente recita: <>: scansione, questa, da cui si desume che, con riguardo alla condanna concretamente inflitta, la commisurazione delle singole componenti della pena complessiva attiene ad una fase precedente la deliberazione finale.
Simili rilievi esegetici, che si armonizzano peraltro con le intenzioni del legislatore, orientano già verso la risposta da dare al quesito interpretativo, postulando in definitiva che l’operazione riduttiva per la scelta del rito costituisca un posterius rispetto alle altre, ordinarie, operazioni di dosimetria della pena, che la legge attribuisce al giudice.
11. - Il linguaggio normativo del codice di rito si adegua perfettamente, del resto, alla grammatica delle regole stabilite dagli articoli 71 ss. c.p. per la disciplina sostanziale del concorso di reati e di pene. Il legislatore, pur avendo adottato il principio del “cumulo materiale limitato” (Relazione ministeriale sul Progetto del codice penale, Libro I, p. 127), considera come <> (artt. 73, comma 1, e 76, comma 1), e non come mera somma aritmetica delle pene applicate per ciascun reato, la pena complessiva inflitta in virtù della concorrenza di pene detentive temporanee della stessa specie, irrogate per i singoli reati in concorso: e ciò tanto nel caso in cui più reati siano stati giudicati con unica sentenza o decreto (art. 71), quanto nel caso in cui nei confronti della stessa persona siano intervenute più condanne, pronunciate con distinti sentenze o decreti (art. 80). Il temperamento più rilevante alla regola del cumulo materiale, onde evitare che la sommatoria, nel caso di concorso di pene derivante da un concorso di reati preveduto dall’art. 73, conduca all’irrogazione di pene detentive temporanee eccessive, in pratica “a durata illimitata e quindi in via di fatto perpetua”, come l’ergastolo, rispetto alla “breve vita dell’uomo”, è dettato peraltro, per considerazioni di tipo umanitario, dall’art. 78 c.p., in ordine al quale la citata Relazione ministeriale (p. 130) parla di un doppio limite massimo: il primo, variabile e proporzionale, del quintuplo della pena più grave, come determinata in concreto, fra le pene concorrenti; il secondo, assoluto e fisso, di saturazione delle pene, per il quale la pena da applicare non può comunque eccedere trent’anni per la reclusione e sei anni per l’arresto; l’uno destinato a funzionare per le pene più brevi e i minori reati e l’altro per le più gravi pene e i maggiori reati. E’ certo, in particolare, che il limite dei trent’anni di reclusione opera uniformemente, quale che sia l’eccedenza della pena detentiva, tanto se il cumulo materiale abbia dato come risultato una pena superiore a detto limite solo di qualche anno, quanto se abbia dato come risultato una pena superiore per molti anni. Ma non sembra lecito sostenere (per inferirne – come propongono sia il P.G. ricorrente che il Collegio rimettente – la pregiudizialità della riduzione di pena per il rito abbreviato rispetto al contenimento finale della stessa) che il criterio moderatore del cumulo materiale di cui all’art. 78 c.p., siccome non inerente ai tradizionali indici del concreto disvalore del fatto-reato nelle sue componenti oggettive e della personalità del reo, resti estraneo alla disciplina “sostanziale” della commisurazione della pena.
Ed invero, oltre all’effettiva incidenza che ha sulla determinazione complessiva del trattamento sanzionatorio, il suddetto criterio, essendo diretto a temperare il cumulo materiale delle pene nel caso di concorso di reati preveduto dall’art. 73 c.p. ed anche nel caso di aumento della pena base derivante dalla continuazione, costituisce pur sempre, nonostante la sua applicazione sia indifferente all’eccedenza quantitativa, espressione della finalità rieducativa della pena in relazione ad una speranza di vita futura, da libero, del condannato: l’applicazione rigida e automatica dell’addizione aritmetica delle varie pene potrebbe infatti condurre alla esorbitante condanna ad una pena complessiva superiore alla previsione di vita del condannato, frustandosi così il principio rieducativo di cui all’art. 27 Costituzione (Cass., Sez. I, 16/3/2005 n. 16461, P.M. in proc. Coraci, rv. 231580). Che la disposizione dell’art. 78 c.p., segnando il limite dell’esercizio della potestà punitiva statuale nell’irrogazione delle pene detentive temporanee, appartenga legittimamente all’area delle regole di natura sostanziale del codice penale sul concorso dei reati e delle pene lo si desume altresì dalla disciplina del reato continuato. Il terzo comma dell’art. 81 c.p. pone, infatti, un limite ulteriore rispetto alla previsione del primo comma, nel senso che la pena, pure aumentata fino al triplo di quella che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave, tuttavia <>, sicché devono intendersi richiamate, in funzione moderatrice dell’aumento di pena per la continuazione, tutte le disposizioni degli artt. 71 ss. c.p. sul cumulo materiale, col temperamento stabilito dall’art. 78 c.p. (Cass., Sez. I, 11/3/1981, Polelli, rv. 149476; Sez. V, 4/12/1981, Bottari, rv. 151654). Ebbene, va sottolineato in proposito che non si è mai dubitato in dottrina e in giurisprudenza (v., per tutte, Cass., Sez. I, 29/1/1993, El Bakali, rv. 195960) che l’aumento per la continuazione - determinato, come si è visto, anche in ossequio al limite quantitativo fissato ai sensi dell’art. 78 c.p. - debba precedere la riduzione finale di un terzo, che opera sulla pena determinata in concreto per tutti i reati che hanno formato oggetto del giudizio abbreviato e che abbiano dato luogo alla configurazione del reato continuato. Va infine rilevato che la soluzione alternativa condurrebbe all’inaccettabile esito della sterilizzazione del criterio derogatorio di cui all’art. 73, comma 2 c.p., secondo il quale <>: la previa riduzione di un terzo della pena della reclusione per il rito abbreviato non consentirebbe mai, in tal caso, di raggiungere la soglia fissata dalla suddetta disposizione per l’applicazione sostitutiva dell’ergastolo.

12. - Le precedenti riflessioni sembrano dunque convergere univocamente nel senso che la riduzione di pena conseguente alla condanna nel giudizio abbreviato debba essere applicata dopo la determinazione del trattamento sanzionatorio, da effettuarsi nel rispetto dei limiti di natura sostanziale posti dalla legge penale a temperamento del principio del cumulo materiale delle pene, e perciò anche in osservanza del disposto dell’art. 78 c.p., con riferimento al limite massimo dei trent’anni di reclusione. L’opposta soluzione ermeneutica darebbe luogo, viceversa, ad un’ingiustificata disparità di trattamento, vanificando (come nella specie) l’effetto premiale della riduzione di un terzo per la scelta del rito ed equiparando, nel caso di reati le cui pene in cumulo materiale sono superiori a trent’anni di reclusione, la posizione dell’imputato giudicato col rito ordinario a quella dell’imputato giudicato col rito abbreviato. Neppure può invocarsi – come argomenta invero inadeguatamente il P.G. ricorrente – che la scelta del rito abbreviato si tradurrebbe in tal modo “in una patente di quasi totale impunità e in un incentivo a delinquere”. Per un verso, proprio l’assolutezza del criterio moderatore dell’art. 78 c.p., per la sua intrinseca funzione, rende irrilevanti le grandezze eccedenti da contenere e l’ampiezza degli scostamenti tra la misura dell’entità originaria e quella finale, siccome contenuta, della pena. Per altro verso, mette conto di osservare che non sussisteva alcun impedimento, nel caso in esame, per una più rigorosa dosimetria della pena, atteso che i giudici di merito, all’esito di un diverso itinerario valutativo e comparativo delle circostanze, avrebbero potuto irrogare al Volpe, per così efferati delitti omicidiari, pene ben più severe di quelle inflitte in concreto, pervenendo comunque, pur con la diminuente del rito, alla pena della reclusione di anni trenta o dell’ergastolo, in sostituzione dell’ergastolo o rispettivamente dell’ergastolo con isolamento diurno. Di talché, ferma restando de jure condendo la potestà del legislatore di graduare la misura della riduzione di pena per il rito abbreviato secondo la diversa gravità dei delitti e delle pene applicate (con particolare riguardo ai più gravi delitti di sangue), il rilievo del ricorrente P.G. in ordine ad una pretesa spinta criminogena della soluzione avversata sembra piuttosto frutto di un estremo ma tardivo ripensamento in ordine all’inusitata mitezza del trattamento sanzionatorio applicato al Volpe, ormai non più rimediabile in sede di legittimità in difetto di appello prima e di ricorso per cassazione poi, sul punto della “pena giusta”, da parte del rappresentante della pubblica accusa.
13. - L’opposta soluzione interpretativa, circa l’ordine della sequenza logico-temporale di applicazione delle disposizioni degli artt. 78 c.p. e 442, comma 2 c.p.p., troverebbe peraltro conferma, ad avviso del ricorrente P.G. e del Collegio rimettente, nella diversa disciplina che al fenomeno sarebbe riservato in executivis: in questa sede, se ai fini del contenimento del cumulo ai sensi dell’art. 78 c.p. non si può che prendere in considerazione la pena concretamente inflitta e pertanto, nel caso di condanna pronunciata in esito a giudizio abbreviato, la sanzione già ridotta di un terzo, risulta evidente che l’applicazione del criterio moderatore dell’art. 78 c.p. segue necessariamente la già disposta riduzione della pena ai sensi dell’articolo 442, comma 2 c.p.p..
Né - si avverte - sarebbe ragionevole ipotizzare una discriminata soluzione in ordine al trattamento sanzionatorio, a seconda che il criterio moderatore operi nel giudizio di cognizione piuttosto che nella fase dell’esecuzione, considerato che la celebrazione del processo unitario e cumulativo a carico del medesimo imputato per più reati, a fronte della separazione dei procedimenti, è un evento condizionato dal concorso di circostanze meramente accidentali. Ritengono le Sezioni Unite che l’argomento critico, pur enfatizzato dall’obiettiva discrasia delle regole applicative nei distinti giudizi di cognizione e di esecuzione, non coglie tuttavia nel segno, attesa la razionalità della diversa disciplina. Ai fini dell’esecuzione di <>, stabilisce l’art. 663, comma 1 c.p.p., in perfetta sintonia con il disposto dell’art. 80 c.p., che <>. Di talché, nell’assoluto difetto di previsione derogatoria nelle disposizioni del decimo libro del codice di rito, stante il canone d’intangibilità del giudicato e il carattere eccezionale della potestà del giudice dell’esecuzione, tassativamente circoscritta ai soli casi previsti dalla legge, in punto di rideterminazione della pena, la diminuente del rito speciale è applicabile dal giudice della cognizione, ma non può mai essere applicata nel procedimento di esecuzione di pene concorrenti, inflitte al medesimo imputato in distinti e autonomi procedimenti (Cass., Sez. I, 11/10/1995, Tasca, rv. 203035). La ratio legis dell’art. 442, comma 2 c.p.p. è, d’altra parte, quella di garantire all’imputato “in ogni singolo processo” un vantaggio conseguente alla scelta strategica del rito alternativo in ordine a tutte le imputazioni contestate in quello specifico processo, e questo vantaggio viene assicurato in ciascuno dei processi celebrati con tale rito e conclusisi con la condanna, all’esito di ognuno dei quali si determina <> applicando la relativa diminuente; quest’ultima opera, dunque, in modo identico nei confronti di tutti coloro che si trovano nel medesimo contesto processuale, ma non può, viceversa, per alcun profilo essere duplicata in sede esecutiva, laddove si debba procedere al cumulo materiale o giuridico delle pene inflitte per più reati in distinti procedimenti, nei quali l’imputato ha di volta in volta ritenuto di attivare, o non, la scelta deflativa del rito speciale (v., al riguardo, Cass., Sez. I, 24/2/2006 n. 11108, Guidotto, rv. 233541). Trattasi dunque di disparità di moduli applicativi nelle sequenze procedurali di determinazione della pena, che trova solida e razionale base giustificativa, oltre che nell’oggettiva diversità - non di mero fatto bensì giuridica - delle situazioni processuali (processo unitario e cumulativo o pluralità di processi in tempi diversi, per più reati, contro la stessa persona; giudizio di cognizione o di esecuzione), anche e soprattutto nell’efficacia preclusiva derivante dal principio d’intangibilità del giudicato. D’altra parte, pur essendo indubbio che il limite quantitativo nell’irrogazione delle pene detentive temporanee, nei termini fissati dall’art. 78 c.p., operi anche nella fase dell’esecuzione, giusta il disposto dell’art. 80 c.p., questa Corte è ripetutamente intervenuta per circoscriverne la portata e il perimetro applicativo, nel senso che l’obbligatorietà della formazione del cumulo nell’esecuzione di pene concorrenti non significa affatto che un soggetto, il quale abbia riportato più condanne a pene detentive temporanee, non possa rimanere detenuto nel corso della sua vita per un periodo eccedente quello massimo indicato in trent’anni, essendo tale limite, per evidenti esigenze di prevenzione speciale, riferibile solo alle pene inflitte per i reati commessi prima dell’inizio della detenzione (ex plurimis, v., da ultimo, Cass., Sez. I, 23/4/2004 n. 26270, Di Bella, rv. 228138; Sez. V, 11/6/2004 n. 39946, Serio, rv. 230135).

14. - A conclusione delle suesposte considerazioni ed alla stregua dell’analisi logico-sistematica della normativa va, pertanto, enunciato il seguente principio di diritto riguardo al quesito interpretativo sottoposto al vaglio delle Sezioni Unite: “La riduzione di pena, nella misura prevista dall’art. 442, comma 2 c.p.p. in caso di condanna nel giudizio abbreviato, dev’essere effettuata dal giudice dopo che la pena è stata determinata in osservanza delle norme sul concorso di reati e di pene stabilite dagli artt. 71 ss. c.p., fra le quali vi è anche la disposizione dell’art. 78, limitativa del cumulo materiale, per cui la pena della reclusione, in tal caso, non può essere superiore ad anni trenta”.
E, poiché occorre riconoscere che la ratio decidendi della sentenza impugnata risulta del tutto coerente col principio di diritto suindicato, il ricorso del P.G., sul punto, dev’essere rigettato. Il Volpe va infine condannato alla rifusione delle spese sostenute nel presente grado di giudizio dai familiari di Fabio Tollis, costituitisi parti civili, che si liquidano come in dispositivo.

P. Q. M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti del Volpe relativamente al delitto di frode processuale di cui al capo D) perché il fatto non sussiste, nonché nei confronti di entrambi gli imputati relativamente alle contravvenzioni di cui al capo I) perché estinte per prescrizione, eliminando la relativa pena di giorni dieci di reclusione per il Guerrieri. Rigetta nel resto i ricorsi del Guerrieri e del Procuratore Generale presso la Corte d’appello di Milano. Condanna il Volpe alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili nel presente giudizio, liquidate in euro 2.000,00, oltre accessori come per legge.

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